Incontro: La generazione del Quarantotto

Presentazione del libro “QUARANTOTTO. Argomenti per un bilancio generazionale

  • L’audio della presentazione di Quarantotto da Radioradicale 

Martedì 24 giugno 2008

Presentazione del libro “QUARANTOTTO.

Argomenti per un bilancio generazionaledi Stefano Rolando

Milano, Sala Montanelli presso il Corriere della Sera.

Interventi di Luigi Covatta, Ugo Finetti, Paolo Glisenti e Renato Mannheimer.

Dopo i saluti e ringraziamenti agli intervenuti di Stefano Rolando, che ha anche scusato l’assenza per cause di forza maggiore di Maria Luisa Sangiorgio e Alberto Abruzzese,   ha svolto il primo intervento Ugo Finetti che ha apprezzatoe “invitato tutti a leggere  un libro al tempo stesso serio e divertente”, uncollage di avvenimenti,testimonianza di memoria collettiva, album di ricordi giovanili e avvenimenti privati (come le frequentazioni con il presidente Pertini). Un’occasione – ha detto Finetti –  per fare un bilancio di una generazione, definita dei “sessantini”, per distinguerla dai “sessantottini” attraverso le personali tappe di una  vita: in Olivetti, vero e proprio laboratorio di innovazione culturale, negli anni di esperienza alla Rai con Paolo Grassi e Sergio Zavoli e nel sistema del cinema pubblico; poi i dieci anni alla Presidenza del Consiglio dei Ministri a Roma tra gli anni ’80 e ’90, in un periodo su cui la discussione è ancora aperta e interessante. Il reportage di un “inviato” negli anni del suo impegno civile e professionale, qualificato testimone della generazione nata dopo la seconda guerra mondiale.

Luigi Covatta haosservato che il libro è una occasione per avviare riflessioni legate a vicende del passato prossimo, scegliendo come un nodo emblematico dell’approccio la lettera pubblicata a Piero Fassino dove l’autore lo invita a rovesciare la posizione di Giuseppe Vacca sulla “mancanza di percezione realistica della storia italiana” attribuita dal presidente dell’Istituto Gramsci al Psi e  indirizzandola piuttosto al Pci. Si ritrovano nel libro elementi di analisi della “retorica della sconfitta” e più in generale della crisi del sistema politico scoppiato negli anni ’80, crisi che ha avuto origini proprio dall’immediato dopoguerra. Nella parte del libro dedicata più agli anni giovanili e a Milano, il sen. Covatta ha ricordato un episodio del 1962, il sequestro del vice console spagnolo per protesta contro la decisione di condanna a morte di un anti-franchista. Da quella stagione una trama di eventi  paradigmatici dell’esistenza in Italia sia di un rapporto fini-mezzi non molto trasparente e sia di un deficit di cultura liberale nella democrazia nata nel 1948 (deficit che è giunto il momento venga colmato). Ha detto ancora Covatta che in Italia la Repubblica si basa su due prevalenze: “dei partiti sullo Stato (di origine fascista) e dello Stato sulla società civile”. Binomio che esploderà con il caso Moro del 1978 (a cui l’autore del libro presta attenzione cruciale) e con cui si aprirà la crisi di sistema del decennio successivo. Il bilancio dei “sessantini”, utilizzando l’espressione introdotta da Ugo Finetti  “tuttavia non è buono, a causa dell’ assenza di una vera classe dirigente nata da quella generazione (quella attuale appartiene ancora a una precedente, quella di  Napolitano, Prodi, Berlusconi)”. Il libro di Rolando è leggibile anche come “un monito ai giovani rispetto  ai  falsi profeti di oggi,  molti dei quali non hanno saputo fare i conti con il passato e la progressiva estinzione di un sistema politico”.

Renato Mannheimer ha osservato checi sono tre modalità di approccio alla lettura del  libro: per avvenimenti storici cogliendone quelli più egoisticamente e individualmente  interessanti; per tentare un bilancio generazionale (una generazione che Stefano Rolando dice essere “nata fortunata” perché ha attraversato, con aperture a forte tinte partecipative, un sessantennio che ha cambiato profondamente il volto della nazione – ovvero costumi, valori, ideali – con conseguenze positive e negative visibili ancora oggi),  approccio che consente di analizzare meglio il ruolo della donna nella società e l’avvio di un discorso pubblico sulla sessualità prima impossibile; per rintracciare un dato, che caratterizza tutti gli scritti dell’autore, di tipo analitico/interpretativo, perché  in ogni episodio raccontato c’è il tentativo di formulare giudizi interpretativi sugli avvenimenti citati contestualizzandoli con dovizia di particolari in ordine alle logiche sottostanti. Non solo il racconto di cosa è accaduto ma anche il suo perché. “Un libro divertente nella sostanza – ha concluso Mannheimer – ma anche di spessore per la prevalenza di questo taglio di interpretazione” che ben raccorda l’esperienza del manager con quella del professore. 
Paolo Glisenti  ha dichiarato all’inizio di aver accettato l’invito alla presentazione con qualche riluttanza perché “il libro si colloca all’interno di un dibattito (quello sull’eredità di una generazione) che è solo italiano e si lega cioè all’ansia di realizzare una fotografia di un bilancio generazionale spesso giudicato inattuale, inutile e deprimente”. Secondo Glisenti si tratta di una generazione autarchica “che ha prodotto accadimenti che presentano molti elementi oggi di inutilità”. Il libro, affrontato in concreto, scandisce però i passaggi generazionali caratterizzanti la storia del nostro paese fornendone elementi di lettura significativa. E questo è un elemento del suo forte interesse. Gli aspetti di “inattualità” sono quelli in cui si descrivono le dinamiche relazionali e personali con esperienze “gruppali” che erano dominanti allora e che oggi non esistono invece più. Anche la scansione degli eventi era decennale mentre oggi tutto è più veloce e frammentato. E ancora il linguaggio di quella generazione poggiava sull’educazione, su passioni politiche e su relazioni amicali ed oggi non è più così. L’attualità e l’utilità del libro invece poggiano sul fatto che esso è uno strumento che consente di connettere vari passaggi fra un periodo storico e quello successivo, stabilendo nessi e continuità. Si basa sull’utilizzo della memoria come strumento e metodo per raccontare questi passaggi attraverso il racconto delle esperienze. Glisenti ha segnalato due temi raccontati nel libro: quello della fine dello Stato, perché fino al 1968 predominò una visione progettuale collettiva incentrata intorno ad una dimensione statuale della convivenza politica; in questa chiave prospettica va collocata la crisi della politica in quanto connessa alla frantumazione del concetto di Stato e delle istituzioni. Oggi prevale una elaborazione della storia attraverso percorsi individuali (come ne parla Jaques Attali nel suo libro sui cinquanta anni futuri) in un mondo in forte cambiamento e di nomadismo spinto mentre nel racconto del libro oggi presentato è proposto un modello – allora dominante – di elaborazione delle esperienze e delle scelte che era di tipo più collettivo  e che non consentiva reversibilità (come invece avviene oggi). Vi è tuttavia la speranza che la “generazione del 2015” – raccontata alla fine del libro di Stefano Rolando – esprima nuovi approdi. Expo 2015 affascina perché è visto come obiettivo immateriale e simbolico, percepito come interessante anche perchè non appartiene a nessuno, cioè vissuto come appuntamento fortemente accessibile a tutti e non proprietà di nessuno; rappresenta una occasione per costruire una nuova visione del futuro del mondo basata sulla cooperazione, la sussidiarietà, la sostenibilità.
Stefano Rolando ha concluso gli interventi con alcune riflessioni di raccordo.Ho raccolto circa 130 testimonianze del mio percorso di scrittura, perché ritenute utili per intercettare i cambiamenti di una generazione e attorno a una generazione”. Nel confronto con questo primo panel di discussione si sono prodotte alcune scintille di riflessione che dipendono soprattutto da vicende personali legate a temi anche presenti nel libro. La citazione di Attali consente di porre giustamente la questione della memoria legata alla proposta e al futuro, che per la verità il libro vuole esprimere (anche Attali è sensibile al primato delle questioni identitarie). Nei nostri percorsi identità vuol dire valori ancora vivi. Per esempio il ricordo – negli anni sessanta – di Walter Tobagi attorno al cui assassinio vi  fu un cortocircuito culturale, politico e sociale che ha diviso le coscienze fra chi stava dalla sua parte e chi altrove, consente di farne oggi una figura di riferimento del pantheon democratico del paese. Il libro nasce da una grave  constatazione e quindi dalla reazione ad un fenomeno che ha trovato nel 2008 il suo apice: negli ultimi quindici anni c’è stato un forzato “sonno della memoria” che ha generato, per citare il titolo di un bel libro di Barbara Spinelli, crescenti fenomeni di manipolazione, travisamento e addormentamento di cui sono stati vittime principali i giovani d’oggi resi incapaci di riconnettere gli eventi del passato prossimo di questo paese se non attraverso alcuni stereotipi.
Responsabilità della classe dirigente di un paese è quella di interrompere il “sonno della memoria” raccontando i fatti  attraverso prove documentali. “ Ecco come interpreto i materiali alla  base del libro”. Nel 2008 – ha detto ancora l’autore – c’è stato uno scadenziario forte di eventi che hanno fornito l’occasione per rompere il silenzio e potenzialmente per affrontare la manipolazione degli eventi del passato prossimo (manipolazioni riconducibili alla necessità di garantire condizioni di sopravvivenza ad alcuni gruppi dirigenti). Ma se la memorialistica del sessantennio viene ad essere costituita solo dai protagonisti delle patologie nazionali e dei suoi misfatti; una sorta di diritto di tribuna lasciato solo a coloro che, da prospettive irrazionali, hanno preso scorciatoie e generato violenze e ambiguità, “non si farà mai giustizia nel racconto della complessità del nostro passato prossimo”.
Si può capire che il 2015 sia un bell’obiettivo, ma se non è possibile parlare del passato prossimo alle nuove generazioni in maniera completa, anche quell’Expo diventa un albero senza radici, e rischia di trasformarsi in un altro prodotto commerciale.
Il libro è il tentativo di recuperare materiali – come ha detto Mannheimer – di tipo interpretativo, che hanno cercato di intercettare molti cambiamenti. Personali e collettivi. Scritti da chi, né leader né gregario, ha inteso contribuire al vasto dibattito sull’identità nazionale dentro una ricapitolazione del sé collettivo. In questo magari andando contro a ipotesi che vengono ripetute un po’ acriticamente. Per esempio gli anni ‘70 sono letti come  decennio di reingegnerizzazione – realizzato anche a caro prezzo – dei processi sociali che è stato però necessario per lo sviluppo di quello successivo che, contro il dilagante stereotipo di negatività, è stato un decennio fondamentale rispetto al tentativo di rimobilitare l’identità nazionale per lo sviluppo e dentro una cornice partecipativa. Ripercorrere questo rapporto con il tempo dovrebbe anche aiutare a rimuovere inaccettabili giudizi liquidatori sulla politica (per esempio sull’intero gruppo dirigente socialista) che ha cercato di interpretare non il lamento ma la riscossa.
Siccome si è accennato al tentativo di “bilancio di questa generazione” ebbene esso è controverso e nell’introduzione vi è traccia di “dieci errori” della generazione fra cui il ritardo nell’emancipazione della gioventù meridionale di fronte ai fenomeni mafiosi (con recenti segni di svolta, che il libro cerca di cogliere). Ma nel giudizio controverso c’è un dato positivo sui diritti acquisiti.