Incontro del card. Angelo Scola con il mondo dell’informazione (Milano, 28.1. 2012) – Stenografico
Dalla discussione svolta nel corso dell’incontro del card. Angelo Scola, arcivescovo di Milano, introdotto dal direttore de Il Sole 24 ore Roberto Napoletano e dal portavoce della Diocesi don Davide Milani, con la comunità professionale dell’informazione e della comunicazione in occasione della festività di San Francesco di Sales
Istituto dei Ciechi, Milano
28 gennaio 2012
Angelo Scola
Voi sapete perché san Francesco di Sales è stato scelto come patrono dei giornalisti?
In una situazione di grande difficoltà dopo la riforma calvinista, non potendo di fatto essere vescovo di Ginevra e non potendo abitare a Ginevra, fu costretto ad andare ad Annecy in Savoia, pur mantenendo il titolo di vescovo di Annecy e Ginevra, ma gli fu sottratto il terreno su cui era insediata la sua missione. Questione finora non risolta. Pochi giorni fa è stato nominato il nuovo vescovo di Ginevra, Annecy e Friburgo che risiede a Friburgo. Ebbene, si mise allora a scrivere dei “volantini” che portava di casa in casa e che infilava sotto le porte della gente. Fu obbligato a questa modernità. Fu tra i primi a pensare alla comunicazione in senso moderno. E questa mi pare la ragione per cui è stato prescelto come patrono dei giornalisti, mi pare a buon diritto se pensiamo che la vicenda si svolge alla fine del ‘500. Se ripercorriamo i suoi scritti, molti e non soltanto quelli molto famosi come la Filotea, si trovano affermazione di grandissima attualità per gli uomini e per le donne del mondo della comunicazione. Mi permetto di leggerne alcune che credo inquadrino bene il nostro incontro.
“Quando parla del prossimo – dice nella Filotea – la mia bocca nel servirsi della lingua è da paragonarsi al chirurgo che maneggia il bisturi in un intervento delicato tra nervi e tendini. Il colpo che vibro – e qui c’è il senso del giornalismo – deve essere esattissimo. Nell’esprimere niente di più e niente di meno della verità”.
Affermazione estremamente attuale, che merita buona meditazione da parte dei giornalisti.
Seconda citazione: “Il tuo modo di parlare sia pacato, sincero, senza fronzoli, semplice, veritiero. Tieniti lontano dalla doppiezza, dall’astuzia, dalle finzioni. E vero che non tutte le verità devono essere sempre dette – grande saggezza – ma per nessun motivo è lecito andare contro la verità”.
Terza e ultima citazione: “Bisogna sempre dare l’interpretazione più benevola del fatto – verrebbe voglia di leggerla più volte questa affermazione quando si è immersi nel’azione dei media – bisogna sempre agire in questo modo “filotea”, interpretando sempre il favore del prossimo. Se un’azione avesse cento aspetti, tu ferma sempre la tua attenzione al più bello. L’ uomo giusto, quando non può scusare il fatto né l’intenzione di chi sa per altre vie essere uomo per bene, rifiuta di giudicare, lascia a Dio la sentenza. Quando non ci è possibile scusare il peccato rendiamolo almeno degno di compassione, attribuendo alla causa più comprensibile che si possa pensare il peccato stesso, per esempio l’ignoranza e la debolezza”.
Sembrano principi di grande attualità per il vostro lavoro e diventano anche lì’augurio che il Vescovo di fa in occasione di questa festa.
Stefano Rolando
Sono Stefano Rolando, insegno alla facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università IUM di Milano. Mi sia consentito di riportare il tema dell’incontro sul “mestiere”, cioè sugli aspetti professionali, sul concreto lavoro che si svolge nelle redazioni dei nostri media. Il Cardinale e il Direttore del Sole hanno offerto due paradigmi sulla grande questione di “cosa significa fare notizia”, argomento che i sta a cuore. Il Cardinale dice: la centralità rispettosa della relazione. Il Direttore dice: il diritto all’interpretazione. La verità apparente, aggiunge, a proposito del racconto che ha fatto sul debito pubblico, non deve impressionare il professionista che deve essere in grado di interpretare i processi.
La domanda che vorrei porre entrambi è questa. Diciamo spesso nelle nostre lezioni che ogni giorno c’è un “flottante” di circa cinquemila notizie a disposizione di ciascuna testata. Le redazioni ne producono una parte, gli inviati e i corrispondenti un’altra parte, soprattutto le agenzie fanno il grosso. Domani, all’incirca, il Sole-24 ore metterà in pagina, di quelle cinquemila, cinquecento notizie. Questo riduce il lavoro del professionista a censurare, a uccidere in redazione, il 90% del cosiddetto notiziabile. Un difficile mestiere. Perché la scelta, a fronte di dieci notizie, è di salvarne una. E’ chiaro che poi i giornali recuperano uno sull’altro. Qualcosa che si perde da una parte si ritrova da un’altra. Ma, dal Sole all’Avvenire, tutti agiscono rispondendo alla domanda “cosa fa notizia?”. La corporazione dell’informazione sceglie ormai più la patologia che la fisiologia, più l’allarme della proposta, più la crisi della speranza. In questo dilemma, i giornalisti non sono soli, non sono monadi impazzite. Non rispondo soltanto ai bisogni del loro editore. Sono persone dotate di coscienza di fronte comunque al problema del conflitto di cosa davvero faccia notizia. Molti soggetti hanno un ruolo in questo dibattito. Anche la Chiesa ha un ruolo di parola, di proposta. Come lo ha l’impresa, come lo ha la politica, come lo ha la cultura. Ma questi soggetti hanno in buona parte accettato l’idea – proveniente da un certo giornalismo – secondo cui la patologia prevale sulla fisiologia. Una scelta certamente fatta dalla politica, perché in questo allarmismo generale, in questa patologizzazione diffusa, ricava più visibilità. Ma dal ragionamento che ha fatto Sua Eminenza non mi pare questa la proposta sostanziale della Chiesa. Mi chiedo allora quale spazio reale di dibattito ci sia? Quale sia cioè il paradigma che oggi prevale per il cardinale di Milano e anche per un direttore di un importante giornale di Milano, un giornale laico che fa molta opinione perché si considera al centro di quel processo di interpretazione che dà senso alle notizie e non si limita ai fatti. Grazie.
Angelo Scola
Dico sempre che le circostanze e i rapporti sono le due mani di cui Dio si serve per interagire con me lungo la giornata. Dio entra in relazione con me, mi chiama in causa attraverso le circostanze e i rapporti. Ora, la notizia (e l’interpretazione della notizia), se fosse assunta da un operatore dei media che ha questa distanza critica, che percepisse che c’è un oltre e un prima rispetto all’accadimento, forse il criterio di selezione potrebbe mutare. Insomma, non lo dico “per mestiere”, perché è orrendo ridurre il compito di un sacerdote al “mestiere”, ma io – gira e rigira – vedo che tutto torna a questa famosa questione dell’ “io in relazione”.
Come sei dentro tu, quando narri il fatto di cronaca. Come tu dichiari il tuo “pre” giudizio. Perché il “pre” giudizio è inevitabile. Come lo enunci. Come lo dici. Perché quella lì è condizione di rispetto delle persone e dei fatti di cui parli. E quindi anche criterio per un tentativo di miglioramento della selezione. Come nelle cose umane, non si potrà arrivare all’ottimo. Ma si potrà migliorare. Ma questa ricerca della fisiologia, secondo me, è assolutamente doverosa.
Un’altra cosa che ho avuto modo di percepire, sempre dialogando con i giornalisti, è che il “nemico” è il tirarsi fuori, nel senso della falsa oggettività. Ricordo nel ’68 una grande slogan scritto sui muri della Sorbona: “Le Monde, le journal faussement objectif”. Come sono tutti “faussement objectif” perché non si riesce a essere altro. Quindi, smarcati, di da che punto di vista parli. Parli di certi fatti “sbagliati” della Chiesa partendo dalla posizione che “la Chiesa non ti sta bene”? Che quell’uomo di Chiesa di cui parli non ti va bene? Smarcati. Di perché. Non limitarti a dire i misfatti che ha compiuto.
E, secondo, a me sembra – dico sembra, perché queste sono pure opinioni – che il vero pericolo vostro si chiami “verosimiglianza”. Scambiare, cioè, la verosimiglianza per la verità.
Dico questo così mi diverto anche un po’. “Questo qui ha militato in Comunione e Liberazione”. Quindi tutte le cose – comprese le marachelle che qualcuno di CL fa – non possono no vederlo in qualche modo coinvolto. Insomma, viene da lì”.
Tu hai ben da dire, in cinquanta conferenze stampa, che da quando sei diventato vescovo e cioè da più di ventuno anni non hai più partecipato a nessun evento di Comunione e Liberazione. Che quelli che hanno meno di sessant’anni non li conosci perché non li hai mai visti. Che è naturale che un ragazzo di CL, vedendoti in televisione spesso, pensa di avere mangiato con te la minestra tutte le settimane. Per molti di voi tutto ciò non serve assolutamente a niente. Mi sono spiegato: assolutamente a niente. Per pre-giudizio dichiarato: “Siccome Scola ha conosciuto Formigoni perché sono nati tutti e due a Lecco, sono stati amici per tanti anni, sarà mai possibile che Scola non c’entri con quello che Formigoni fa ? “. Non c’entra! Il fatto semplice è che negli ultimi vent’anni ci siamo visti si e no una volta all’anno a Natale. Ora, capite che un vescovo che deve prendersi cura dei suoi collaboratori, dei suoi sacerdoti, cosa dovrebbe fare? Ha due peccati originali? Deve liberarsi ogni volta anche dal secondo?
Per fare qui solo un esempio. Così andrete a cercare più scrupolosamente tutti i dettagli… Ma io faccio sempre così, mi tiro sempre la zappa sui piedi. Vabbè, comunque…Ho avuto un’accoglienza bellissima a Milano da parte dei sacerdoti, dei fedeli e da parte vostra, dei media. Lo dico perché siamo ancora nella luna di miele, poi gireremo la pagina e le cose cambieranno.
Ma per dire questa questione della verosimiglianza è sicuramente un rischio del sistema dell’informazione. Il lavoro va fatto in maniera rigorosa, con verifica delle fonti, eccetera. Ma conta dire da che punto parti, esporti e tendere in base a ciò il più possibile alla verità.
Massimo Bernardini
Sono Massimo Bernardini e lavoro per la Rai. Confido in Sua Eminenza nel formulare una domanda un po’ tecnica. Ma ho ascoltato tali sottigliezze che ci provo lo stesso. In questo paese c’è chi fa fatica. Essere giornalisti credo che voglia dire accorgersene, almeno occuparsene. Nei limiti in cui il mestiere ce lo consente. Per noi che lavoriamo in televisione significa come rappresentare, in qual che modo, la difficoltà, la rabbia, se si vuole “la piazza”. Rappresentare comunque storie di fatica e di difficoltà. Ci raccontiamo però, all’opposto, che dovremmo raccontare “storie buone”, storie di chi ce la fa nella crisi. Sinceramente mi pare che stiamo stretti in questo binomio. Mi pare poca cosa. Le chiedo, confidando nel suo sapere, se c’è una chiave diversa, quella dell’ “io in relazione”, per raccontare storie di questo paese.
Angelo Scola
Cosa c’è in mezzo alle due cose, che la patologia fa notizia e che raccontare le cose buone non produce effetto? Ritorno al tema dello sguardo distaccato sulle circostanze di quanto succede. Ci sono fattori in campo che non sono riducibili solo a ciò che appare. La grande attualità delle citazioni che ho fatto di Francesco di Sales dice esattamente questo. Il tema della compassione, per esempio. Basta essere stato non dico venti volte ma una sola volta in carcere per capire cosa vuol dire rispettare la dignità dell’altro, sempre e comunque; lasciando intatto il dovere di dare notizia e di dire le cose come stanno, fino al celeberrimo giornalismo di inchiesta, sempre se praticato con questa integralità. La via in mezzo la troverei sempre in una capacità di narrare il reale che tenga conto di tutti i fattori in gioco, l’attualità e l’incrocio tra circostanze e rapporti. Ci sono in gioco tre libertà in questo intreccio: la mia libertà, la libertà cioè dell’uomo; la libertà di Dio e anche la libertà del Maligno. Di cui noi non parliamo mai. Nel racconto del peccato originale esso è istigato dal maligno, che è il primo peccatore. Come dice la parola “diabolos” , il suo modo di agire è frammentare. Frammentare l’Uno. Così che la grande fatica umana sia l’illusione del ricomporre piuttosto che riconoscere che l’unità o è all’origine o non è. E allora qui spazio a Dio e spazio all’altro. Vivendo quella percezione umana comune, credenti e non credenti. Che è la compassione, che è il prendersi cura. Allora sì che si possono dare in termini oggettivi i dati. E se sono reali e verificati, bene. Mi sono portato dietro questo libriccino del cardinale Martini, che senz’altro già conoscete, intitolato “Il vescovo” , in cui racconta come si fa a fare il vescovo. Me lo ha mandato con una bella dedica e capirete che per me è molto importante. C’è un capitoletto che vi invito a leggere dedicato ai rapporti con i media e con il mondo mediatico. Molto interessante. Dice parecchie cose che il vescovo deve fare per agire in modo equilibrato in questo campo. Che considera di importanza capitale. “Sarà utile ricordare – dice – che chi si avventura in questo oceano non potrà evitare qualche spruzzo imprevisto. L’ Importante è sapere dirigere la barca verso il porto. Giungere a comunicare davvero con la gente. Sapere entrare in una relazione quasi personale con l’ausilio dei media”. Io stesso non dimentico mai che quello che penso, dico e voglio dire arriva molto prima ai miei sacerdoti attraverso di voi che attraverso di me. E dice ancora: “Un vescovo non potrà sottrarsi all’intervista, alle domande fatte in pubblico. Sarebbe importante rivedere i testi dell’intervista prima che vengano pubblicati, se non sono corretti esigere le opportune correzioni. La disponibilità a rivedere i testi dona la sicurezza di ciò che viene pubblicato è genuino, in caso contrario si esige una rettifica”. E ancora: “ Poi è utile sapere che i titoli degli articoli sono di responsabilità della redazione. Che la loro formulazione può cambiare l’interpretazione di quanto è stato convenuto come testo scritto. E’ impossibile ovviare del tutto a tali imprevisti – grande realismo, eh! – a tali imprevisti, ma se l’editore persiste nella politica di travisamento del testo usando come mezzo il titolo, sarà necessario cambiare editore e testata”.
Nicola Borzi
Sono Nicola Borzi del Sole-24 ore, quindi gioco parzialmente in casa. Trovo una splendida ironia che si sia scelto l’Istituto dei ciechi per parlare di informazione e di giornalismo. Lo trovo uno spunto interessante di conversazione, perché penso che i luoghi non siano mai casuali. C’è una distinzione tra il lavoro del giornalista e l’annuncio della parola. Il lavoro del giornalista si rifà alla parresia socratica, a questo disvelamento e ricerca della verità umana. Ovviamente l’annuncio della parola viene dalla rivelazione divina che è cosa altra e alta. Vorrei porre una domanda tanto al mio direttore che all’arcivescovo cardinale. Avete parlato del lavoro e della difficoltà del lavoro. Non credete che sia importante portare al centro dell’attenzione e della comunicazione – sia circa il tema del lavoro, sia il tema del giornalismo – il tema della povertà. Il lavoro è la prima cosa che si perde nella scala che porta alla povertà. Non solo per il potere di acquisto. La povertà è cosa diversa dalla miseria. La povertà può essere anche una scelta, e può essere anche una scelta positiva. Mentre la miseria è quella cosa che sta allargandosi a strati sempre più vasti della nostra popolazione. Quando vado la domenica a fare la spesa al mercato a Melegnano vedo sempre più anziani che rovistano tra gli scarti alla ricerca di verdure che non riescono più a comprare.
Angelo Scola
Io non separerei tanto il lavoro dei giornalisti da quello della Chiesa. Distinguere sì, ma la comunicazione è la comunicazione. La forza della comunicazione evangelica è il faccia a faccia. Mi ha colpito tre anni fa un episodio a New York. Il direttore del Wall Street Journal mi invitò per un incontro. Non un’intervista. Mi trovai il board di una ventina di persone di quel giornale. E il direttore cominciò così: “Sa l’abbiamo invitata di per sona perché, anche se usiamo tutti i mezzi tecnologici ultramoderni per lavorare, ma se qualcuno ci interessa l livello del faccia a faccia non può mai essere superato”. La cosa mi ha colpito, tanto che quando sono tornato a Venezia ho fatto per i miei giovani un club e l’ho chiamato “Face to face”. Perché anche tra i giovani c’è il rischio che ognuno si fossilizzi. Ci troviamo di tanto in tanto e parliamo del più e del meno, bevendo rigorosamente “coca cola zero”. Ne è venuta fuori una bella cosa. Come è stato detto giustamente, il Vangelo e la rivelazione sono altra cosa. Ma, attenzione, cosa vuol dire “rivelato”? Vuol dire che Dio si è incarnato per giocarsi con la mia vita di tutti i giorni, che ha voluto giocarsi con il modo di vivere gli affetti, il lavoro e il riposo. Che ha voluto giocarsi con il dolore, con la morte, con il bisogno, con la povertà. Certamente la distinzione tra povertà e miseria è di capitale importanza. Tutto il peso che la povertà ha nel Nuovo Testamento, con sottolineature imponenti; e tutta l’importanza che ha avuto nel Concilio Vaticano II. Insomma, la realtà è complessa ma lo spirito dell’uomo è elementare e semplice. Io dico : questo è un orologio. Cosa semplice e ovvia. Ma se devo descrivere tutto quello che succede dentro di me per arrivare a dire questa cosa, la filosofia ne discute da 2500 anni. Non c’è ancora arrivata in maniera assolutamente convincente. Certamente questo passaggio duro che stiamo attraversando deve riportare a galla il concetto autentico e pieno della povertà che è il concetto del possedere nel distacco. Relazioni, rapporti, beni. Cattolicamente parlando questa cosa si chiama ascesi. La dottrina della Chiesa è molto chiara al riguardo. San Tommaso dice che la proprietà privata è stata concessa all’uomo dopo il peccato originale. E che la proprietà non annulla il dato di fondo che noi abbiamo i beni solo in uso e che la destinazione dei beni è universale.
Non esiste una provocazione alla libertà come quella della dottrina cristiana. Prima di comprare un secondo telefonino, la mia libertà è chiamata a interrogarsi circa il fatto se sto rispettando che la mia libertà, appunto, è solo quella di avere “in uso” i beni. Si apre una questione di stile di vita. In cui entra il tema della povertà. Ho visto segni belli in questo Natale. Ci facciamo confondere dal “tutto e subito”. Ma ho visto tanta gente che ha ospitato in casa bisognosi. Ho visto tanti gesti dei solidarietà. Senza tirare in ballo ideologie, della colpa è del sistema. Sarà anche giusto9. Ma è giusto prima di tutto porre alla gente il problema di cambiare sguardo.