Inclusione, diritti, educazione e sviluppo. Intervento conferenza Milk Foundation a Milano (5ott12)
Cross Atlantic Global Summit
Inclusione della diversità e prosperità economica
Milano, Palazzo Marino – 4-5 ottobre 2012
Sessione “istruzione ed educazione”
Contributo di apertura del prof. Stefano Rolando
(Università Iulm Milano)
Confesso qualche disagio di fronte alla dicitura del programma “lectio magistralis”. Consola che quindici minuti possono consentire poco più di una intramuscolare. Non lo dico per mettere le mani avanti. Ma per accettare in realtà solo l’invito – di cui sono molto grato – a mettere in evidenza qualche argomento, in questa sessione dedicata all’educazione, nel quadro
– di un dibattito vasto,
– di una ricerca diffusa a livello internazionale,
– di una reazione intellettuale e civile al famoso “secolo breve” (1914-1989, tra massacri compiuti dalle opposte ideologie del secolo).
Lo cito per rendere qui omaggio allo storico Eric Hobsbawm, da poco scomparso 95enne, che ha sintetizzato il nostro ‘900 nelle tre fasi della catastrofe, dell’oro e della frana.
Reazione di chi, appunto, ha cercato di opporsi a violenze, soprusi, disparità, ineguaglianze dei punti di partenza o determinate da egoismi del potere, con tre modalità:
– la lotta psicologica, per reagire nei propri contesti identitari
– la lotta politica, per reagire contestualmente nel quadro di sistema
– la lotta culturale ed educativa, per creare basi di condivisione nel medio e lungo termine.
Tutte e tre queste forme di reazione presuppongono ricerca.
Ed è il rapporto tra ricerca e condivisione culturale che genera la comunione pedagogica tra università e scuola.
Ovvero il nesso per cui si innova solo se si considera la cultura dei diritti una catena tra
– complessità delle discipline implicate,
– analisi critica della storia e dell’attualità,
– costruzione di una pedagogia della responsabilità,
– capacità comunicativa di generare una domanda nei giovani.
Un ciclo difficile nella società distratta in cui viviamo.
Ma anche un ciclo in cui tanti hanno dato contributi, tanti hanno fatto sperimentazione, tanti hanno ampliato non solo il territorio dell’indignazione ma soprattutto quello della informazione e della creatività, cioè strumenti di contaminazione virtuosa.
Ricordo che determinante nella mia formazione di adolescente fu – come lo fu per Hannah Arendt e forse anche per qualche milione di persone con gli occhi per vedere e le orecchie per ascoltare – il processo Eichmann a Tel Aviv nel 1962. Concluso con la condanna alla pena capitale di uno dei maggiori organizzatori di stermini del secolo, che si era rifugiato nella regola della condizione di guerra in cui gli ordini si eseguono e non si discutono.
Tempo dopo alcuni atenei nel mondo (cominciò un psicologo americano, Stanley Milgram; poi a Milano l’Università Cattolica e altri) organizzarono laboratori di psicologia sociale per verificare quanti ragazzi – studenti che appartenevano ormai all’età dell’oro – erano disposti, per un contrattino di diecimila lire e sotto le insegne neutrali dell’Accademia e della Scienza, a dare quasi la morte a un altro giovane (in realtà un attore) che collegato con elettrodi si rotolava per terra dal dolore mentre i più continuavano (pochi anni fa!) a aumentare gli impulsi eseguendo “ordini”.
Cito questa vicenda famosa perché l’umanità oggi dispone non solo della vecchia nobile Dichiarazione dei diritti umani.
Ma dispone anche, dal 2011, di una risoluzione molto articolata sull’educazione e la formazione ai diritti umani. In essa gli Stati si impegnano a sviluppare progetti educativi:
- sui diritti umani (conoscenza e comprensione delle norme e dei valori),
- attraverso i diritti umani (apprendimento del rispetto dei diritti dell’educatore e dell’apprendente),
- per i diritti umani (fornendo gli strumenti per godere ed esercitare i propri diritti).
Ci arrivano così questi documenti. E dobbiamo fare uno sforzo per renderli compatibili:
– alle nostre aule di università e di scuola;
– alla apparente sonnolenza di generazioni, che in realtà si difendono dalla retorica;
– alla relazione rischiosa con il sistema dei media, che accettano la complicità se c’è spettacolarizzazione ma difficilmente reggono la fatica del cammino progressivo della pedagogia responsabilizzante.
E per non farli addormentare a causa della distrazione maggiore, quella della politica, che ha messo sé al centro del proprio racconto così da rendere il contenuto della comunicazione politica ai margini della credibilità. Anche quando invece politici per bene e con la cultura della gratuità e del servizio investono il loro tempo per “dare voce” a diritti calpestati e valori non rappresentati (cito qui l’idea che l’arcivescovo di Milano Angelo Scola sta ripetendo da qualche tempo per chiedere alla politica di cambiare, pensando lui alla generazione di suo padre, socialista, che faceva la politica alla sera dopo una giornata di lavoro e per fini sociali).
E’ evidente che l’alleato più forte di educatori sensibili resta oggi la società organizzata, la società civile (non faccio fatica a usare questa parola perché so che esiste anche una società incivile), che sa esprimere nel mondo e in forme dal basso centri di sapere e di iniziativa che sono preziosi in questi campi.
Un vero protagonismo nella “comunicazione pubblica” di soggetti in realtà privati, associativi, locali e globali.
Soggetti che svolgono compiti che le istituzioni fanno a fatica; o limitatamente all’ambito informativo sulle leggi esistenti.
Ma che trovano il sale della “contaminazione virtuosa” proprio quando è in questione non l’astratta legge da comunicare ma la sua non applicazione, la sua contraddizione, la sua infrazione magari operata da altri pubblici poteri, dal conflitto di competenze, dalla “ragion di Stato” (che nel campo dei diritti civili può anche essere ricondotta alla nozione del “ma quanto ci costa in epoche di bilanci magri questo diritto?”).
Ho così imparato anch’io, che venti anni fa predicavo la comunicazione pubblica come compito precipuo degli Stati e delle istituzioni, a cercare la comunicazione pubblica che serve soprattutto quando è raccontata, testimoniata, argomentata – con spirito pubblico – da cittadini organizzati che con vero principio sussidiario offrono materia vera e non retorica alla scuola e ai processi educativi per poter fare scuola al di là dei programmi. Quando cioè sull’apprendimento misurato alla realtà intercettano il pensiero civile dei tanti insegnanti disposti (se contaminati) e di parti (non grandissime, ma esistenti) della nostra università a lavorare non sul dover essere ma sulla marginalizzazione conflittuale del dover essere.
Ieri Stuart Milk ha descritto in apertura il paradigma educativo sui diritti.
Cito sue tre frasi:
– “distruggere il pregiudizio” : non lo fanno le pallottole (era partito da quella che aveva ucciso suo zio), lo fa – come lui ha detto – la conoscenza;
– “includere, non tollerare” : ma per promuovere e non solo per accettare bisogna sapere perché;
– “parlare per chi non è in grado di parlare”: dunque, non ripetere, ma raccontare; cioè interpretare; grazie a una parola educata a questo scopo.
Per questo ha fatto bene il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, a dare ieri un segnale tutto politico circa il contesto che fa la differenza. Ha detto:
“Ci sono ancora resistenze per il riconoscimento di diritti che dovrebbero essere inalienabili. Il futuro è parità”.
Quando vidi per la prima volta al Newseum di Washington la grande mappa del mondo in cui i paesi a piena libertà di informazione – secondo il lavoro di ricerca di Freedom House – sono in verde e quelli senza libertà di informazione sono in rosso, vidi anche che, di mezzo, la fascia ambigua è proprio quella dei paesi in giallo. E vidi, con mia vera inquietudine, tra di essi l’Italia. Non solo per i conflitti di interesse, per la spregiudicatezza di certi media; ma anche perché la malavita controlla parti del territorio impedendo libera stampa e perché – è qui il punto – esisterebbero buone leggi ma che spesso non vengono applicate.
Organizzai su una rivista di cultura politica (della cui redazione faccio parte dagli anni ’70, al tempo con un primus inter pares in quella redazione che si chiamava Norberto Bobbio, lui sì maestro di libertà e diritti, cioè la rivista Mondoperaio) un dossier su quella “condizione”. E i giuristi, anche i più sensibili e democratici, fecero fatica ad accettare – proprio sulla base dell’impianto legislativo esistente – la condizione “in giallo” dell’Italia.
Il dibattito sui diritti civili è oggi questo. Ed è qui che comincia la piattaforma educativa che va portata nelle scuole senza faziosità e va portata nelle università chiedendo argomentazioni interdisciplinari per capire il meccanismo scompensato tra regole e attuazione.
I diritti civili sono il portato valoriale, la rivendicazione morale, di cittadini che hanno una loro diversità.
Questa diversità è, per propria natura, minoritaria.
Anche se per alcune tipologie si tratta di una vasta dimensione sociale.
La prima cosa che dobbiamo chiederci – per capire quale è il contesto culturale di una condizione educativa – è come il paese, nel suo stesso impianto politico-costituzionale, accoglie la tutela della diversità e quindi la tutela della minorità.
La base costituzionale – lo sappiamo – è seria, profonda, corretta.
E questo è molto: lo imparai a metà degli anni ’80 quando, per incarichi istituzionali che avevo, coordinai la campagna di comunicazione nazionale sul quarantennale della Repubblica e della Costituzione apprendendo, dalle ricerche del prof. Achille Ardigò, che i giovani non sapevano neanche un articolo della Costituzione a memoria, ma il loro “vissuto costituzionale” era piuttosto buono, cioè l’interiorizzazione del panorama dei diritti sanciti era piuttosto diffusa.
Ma quando si vede che – a differenza delle culture democratiche anglossassoni per cui chi vince governa e chi perde controlla – nelle nostre assemblee chi vince governa e chi perde consuma i soldi dei contribuenti fingendo di fare politica perché ha barattato quei quattro soldi con l’incapacità di controllare alcunché, ci viene un sinistro pensiero sul tema di chi difende davvero le minorità, di chi difende davvero i diversi, di chi difende davvero i diritti calpestati. Non perché non ci siano eletti, politici, gruppi pronti a farlo. In questa conferenza ci sono ottimi rappresentanti. Ma perché il sistema non da voce per definizione a una cultura del controllo che è anche quella di parlare in nome delle leggi disattese.
Io sono abituato a parlare in questa chiave dell’impianto educativo di un tema civile. Cioè guardando in faccia il contesto per il quale l’educazione serve – come dice la Dichiarazione dell’ONU che ho citato prima – non solo ad accrescere conoscenza sui diritti ma anche a strumentare il cambio di equilibrio applicativo nel sistema.
I nuclei organizzati tra laboratorio delle conoscenze e organizzazione dell’educazione sociale in materia di diritti civili sono molti nel mondo. Negli Stati Uniti agiscono molti soggetti. Rendiamo merito qui alla Harvey Milk Foundation, così come apprezziamo che Human Right Watch – che ci ha fatto capire quello che la stampa italiana trattava in modo assai più prudente e cioè che l’Italia era denunciata davanti alla comunità internazionale per le vicende di Lampedusa e per il trattamento dei profughi dal nord Africa – stia operando per creare un nodo di esperienza e di comunicazione a Milano. Ma anche l’Italia è stata attraversata da tante esperienze meritorie. Ricordo negli anni della mia formazione il ruolo che ebbero movimenti come quelli legati alle figure di Aldo Capitini e di Danilo Dolci; così come credo che a Marco Pannella più di una generazione deve riconoscere che tutta la sua idea di politica intesa come la rappresentazione di una tragedia muova dal portare in politica questioni civili che la politica non voleva e in parte ancora non vuole avere tra i piedi.
Questi movimenti hanno un grande alleato rispetto alla permeabilità del mondo dell’educazione: l’arte e lo spettacolo. Il linguaggio, appunto, della rappresentazione (teatro, cinema, fotografia in testa) è una leva che è servita in moltissime cause a superare le barriere percettive e a generare quindi domanda di conoscenza. Da questo punto di vista l’educazione si sposta – con una strategicità che molti amministratori dovrebbero meglio esplorare – dalle aule di scuola alle piazze, ai musei, alle rassegne, alle mostre.
I miei quindici minuti se ne sono abbondantemente andati. Non ho citato, che di sfuggita, un genere di diritti civili. Non ho parlato di una scuola o di una università, non ho approfondito una legge buona o una legge cattiva.
Erano quindici minuti, più che una “lectio magistralis”. Ma forse è meglio così. Rispondo anch’io alla domanda su quale sia il mio diritto preferito: è quello di poter dar voce ai diritti.
E nel ringraziare gli organizzatori per avere voluto sede di questo convegno Milano, la città di Cesare Beccaria, concludo con le parole di chi nel 1764 scrisse a Milano uno dei più potenti attacchi alla legislazione e alle pratiche di giustizia contro i diritti umani:
“Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa”.