Il quadro politico della Lombardia (in rapporto alla situazione italiana) – Mondoperaio gennaio 2013

mondoperaio
n. 1/gennaio 2013
saggi e dibattiti
Elezioni lombarde. Le chances di Umberto Ambrosoli
La Terra di mezzo della terza Repubblica
Stefano Rolando
 
Tra le primarie del centrosinistra, la crisi del governo Monti, le mattane di Berlusconi, le nuove “parlamentarie” del Pd e l’avvicinarsi delle elezioni politiche, lo spazio di attenzione nazionale per le regionali (Lazio, Lombardia e Molise) si è comprensibilmente ridotto all’essenziale. Ma a ricordare la posta in gioco di carattere generale che grava sulle elezioni in Lombardia è intervenuto ai primi di dicembre Roberto D’Alimonte sul Sole 24 ore, spiegando che proprio dalla Lombardia (47 senatori, 26 alla coalizione vincente) dipenderà l’assetto maggioritario del Senato e dunque la governabilità del futuro esecutivo nazionale. Ciò darà al voto lombardo lo stesso senso avuto dall’Ohio per le elezioni di Obama.
Ma non è solo strumentale il senso e la portata del voto nella più popolosa e ricca regione d’Italia: 10.015.209 abitantidistribuiti in 12 province ancora al loro posto e 1.547 comuni in un territorio di 24 mila km quadrati che produce quasi un quarto del Pil nazionale. I nostri lettori non hanno bisogno che si sottolinei che la Lombardia all’inizio degli anni ’70 ha caratterizzato con originale cultura costituzionale la nascita del regionalismo italiano. Né che si ricordi che essa ha espresso per una ventina di anni modelli di riformismo partecipativo che hanno coinvolto cultura e classe dirigente di tutti i partiti politici. E neppure infine che si sottolinei che essa è stata il bastione di una aggregazione particolare della destra italiana, che ha cementato con la Lega Nord (nel cuore del suo gruppo fondatore), Cl (classe dirigente e organizzazione), An (periferie urbane e nuove leve), berlusconismo provinciale (la seconda fila dell’aziendalismo e un po’ di resti del liberalismo lombardo): creando così un ceto politico abbastanza radicato, plasmato da un senso dell’efficienza e dalla disponibilità a far funzionare un certo consociativismo (Compagnia delle Opere e Lega delle Cooperative) per tenere a bada anche una parte cospicua dell’opposizione.
 
Centrodestra, declino di sistema
Dunque un modello anche di governo degli interessi, che ha resistito nel tempo, ha obbligato il suo rappresentante politico (Roberto Formigoni) a stare in scena per quattro mandati al fine di assicurare il più a lungo possibile quella egemonia, e ha garantito a Berlusconi non una fedeltà incondizionata ma certamente un baricentro essenziale del suo sistema di potere.
Il declino di quel sistema è sopraggiunto per molte e alla fine convergenti ragioni: il logoramento di controllo nella selezione del suo ceto politico; l’aumento del deficit democratico; l’ evaporazione di una parte importante degli investimenti in un tessuto produttivo provato da una più forte competizione globale; la minore efficacia dei provvedimenti soprattutto in materia infrastrutturale; la marginalizzazione del ruolo decisionale delle autonomie locali; nonché – come tutti sanno – per una sequenza di scandali che hanno riguardato sostanzialmente il centrodestra, tra piccole e grandi ruberie, uso impunito nel potere, combutte interessate nella sanità e ridicolizzazione del ruolo istituzionale dell’assemblea elettiva grazie all’accoglienza data a personaggi improbabili selezionati dalla Lega e dai capricci di Silvio Diocleziano Berlusconi: un declino in cui si è inserito – come pagina conclusiva di un lungo sconfittismo – lo scoperchiamento del “metodo Sesto” con cui il Pd di Penati ha rivelato il suo fine corsa e la sua impossibilità, da solo, di dare corso ad una alternativa credibile.
La crisi anticipata della legislatura non ha permesso l’emergere e il consolidarsi di alcuni fenomeni rigenerativi possibili: quello della Lega, che si è scrollata propagandisticamente di dosso l’immagine patetica di Bossi e della sua corte, ma non avendo un vero e proprio ceto politico di ricambio si è accontentata della scopa agitata in piazza da Roberto Maroni, non in grado di far credere sul serio che un potente dirigente, ministro in posizioni chiave, fosse all’oscuro di tutto; quello del Pd, in realtà in grado di uscire dalla crisi in cui era finito nelle precedenti elezioni del 2010 (quando aveva raggiunto il minimo storico con il 33% dei voti) grazie a molti giovani dirigenti di migliore presenza, ma ancora con difetti non risolti (leadership, conflittualità interna, adeguamento di analisi e di proposta, subordinazione alla transizione nazionale, eccetera); e quello di un centrismo senza bacino elettorale e troppo oscillante (con la stessa Udc nettamente divisa in una parte pendente verso il centrosinistra e una parte pendente verso il centrodestra), in attesa di una evoluzione sempre annunciata e mai veramente esplosa dell’ipotesi nazionale “montiana” o di qualche altro miracolo per restituire autonomia e visibilità al proprio progetto.
 
La Lombardia ha cercato risposte ispirate a un laboratorio possibile del cambiamento
La scoperta di infiltrazioni della ‘ndrangheta nelle stesse stanze del governo regionale (offerta accettata di voti per l’assessore alla Casa Domenico Zambetti, politico di origine meridionale e di lungo corso democristiano e post-democristiano arrestato il 10 ottobre) ha posto fine alla prolungata e alla fine isterica resistenza di Formigoni all’attacco giudiziario e mediatico (con la prolungata parodia di Crozza che ha chiuso ogni speranza di salvaguardare la diversità del caso lombardo nel panorama del centrodestra), e ha interrotto ogni tentativo dei gruppi politici esistenti in Consiglio regionale di immaginare un rinnovamento riconducibile solo al sistema dei partiti.
E’ vero che i lettori sanno più o meno tutte queste cose accadute. Ma rileggerle in sintesi tutte assieme mostra con evidenza che la storia, quando accelera, disegna opportunità non intraviste, spazi non chiari, condizioni di gioco non dichiarate. E’ così che la situazione della Lombardia nell’autunno del 2012 è divenuta improvvisamente il terreno di sperimentazione di ciò che i manuali di scienza politica identificano come un principio necessario di rottura e di piena discontinuità, pena la perdita irreparabile di fiducia dell’elettorato e l’esplosione di irrazionalità che un sistema socialmente ed economicamente complesso come la Lombardia evidentemente non può permettersi.
Infatti la Lombardia non può permettersi una soluzione alla parmigiana, con riferimento alla città di Parma in cui l’insopportabilità di continuismi di destra o di sinistra (nel caso di sinistra) condotti nello schema autoreferenziale di partiti incapaci di vedere l’intolleranza dei cittadini per il professionismo privilegiato della politica, ha consegnato la città alla turba impreparata di grillini pronti anche a litigare con il loro leader per affermare il proprio diritto di godersi l’autonomia del potere conquistato, a prescindere dalla dimostrazione di essere capaci di saperlo reggere.
La Lombardia ha cercato risposte ispirate a un laboratorio possibile del cambiamento con il proposito di non gettare dalla finestra segmenti utilizzabili di classe dirigente. Presi tutti un po’ alla sprovvista, le risposte sono state date tutte con qualche improvvisazione.
A destra è sceso in campo per primo Gabriele Albertini, con un posizionamento un po’ smarcato dai partiti e con una fragilissima impalcatura civica, nel tentativo di utilizzare un po’ di centrismo disoccupato e un po’ di quadri del Pdl in parcheggio per consentire una via di uscita al formigonismo in rotta: un’operazione povera dal punto di vista della cultura politica proponibile e senza vere ricette per le soluzioni necessarie nel quadro del prolungamento della crisi (Albertini in politica propone sempre la sua ricetta del buon amministratore di condominio); ma una zattera accettabile per una candidatura abbastanza blasonata (sindaco di Milano ed europarlamentare) e per alcune garanzie offerte al sistema degli interessi. Con in più, alla fine, la pennellata montiana, “benedetta” dal premier più per consolidare lo smarcamento formale da Berlusconi e, di fatto, per dividere in modo più netto il centrodestra. 
La candidatura di Albertini – se fosse proceduta in un quadro di unità del centrodestra con l’ex-sindaco – avrebbe significato mettere la Lega in condizioni subalterne in casa propria. Una Lega invece all’assalto di una trincea impossibile, quella di una perdita importante di consensi recuperabile solo a condizione di svolgere un compito da protagonista. Da qui la candidatura – in sé disperata, ma al tempo stesso coraggiosa e piuttosto organizzata – di Roberto Maroni, nuovo segretario nazionale del partito, costruita con una frettolosa marcia indietro a proposito dell’antieuropeismo e del sogno leghista dell’intero nord Italia capace di dare lezioni alla Roma di Monti e alla Bruxelles degli eurocrati. La possibilità (per ora ancora contrastata) di consolidare l’alleanza nazionale tra Lega e Berlusconi mette la candidatura di Maroni in testa (“La Lombardia in testa” è il suo slogan, che si presterà a ironie nel corso della campagna) alle possibilità del centrodestra, obbligando Albertini a prendere le distanze dalla sua appartenenza al Pdl per tentare un posizionamento più centrista.
 
Primarie sì, ma non quelle dei partiti del centrosinistra con il Pd egemone
Il Pd ha visto alcuni suoi candidati tentare la via personale alla corsa. Schierati nelle varie correnti e anche secondo i vari personalismi di una fase storica più flessibile dell’antico rapporto tra partito e disciplina, l’apertura del teatro di battaglia ha messo in pista rappresentanti a diverso titolo usciti con irrequietezza dal travaglio dell’ultimo e interrotto Consiglio regionale: Fabio Pizzul, di tradizione popolare; Pippo Civati, ex-renziano poi battitore libero (entrambi poi ritiratisi a favore di Ambrosoli, come Roberto Biscardini che aveva avanzato la sua candidatura sotto le insegne del Psi); ma anche Alessandra Kustermann, impegnata nella medicina ospedaliera e iscritta da sempre ai partiti della tradizione comunista: senza la quale forse le primarie avrebbero avuto un significato più fragile e meno fortificante, perché di natura più confermativa.
In realtà nessuno avrebbe davvero potuto impersonare una stagione di ricambio capace di assicurare convinte adesioni interne ed esterne al tradizionale elettorato. E nessuno appariva così connesso all’esperienza della svolta milanese per avere almeno le spalle coperte dal bastione più forte del centrosinistra in Lombardia, la giunta di Giuliano Pisapia, forte della maggiore sconfitta inferta in Italia al berlusconismo. A sinistra – cercando di rappresentare con più modernità i partiti di continuità comunista, ma anche imbarazzando Sel e tentando persino alcuni segmenti del Pd – la candidatura del direttore della rivista economico-ambientalista Valori, Andrea Di Stefano, intenzionato a restare in gara nelle primarie e possibilmente anche dopo se con qualche buon esito al primo round.
E’ nella cornice di tutti questi fattori che si è collocata, dopo alcune titubanze che hanno creato persino una provvidenziale attenzione nei confronti della decisione, l’opzione favorevole a sostenere la corsa di Umberto Ambrosoli, avvocato penalista milanese, 41 anni, indipendente dai partiti, membro del Comitato Antimafia del Comune di Milano, impegnato da anni nell’associazionismo civile attorno ai temi della legalità nelle istituzioni, e capace di raccogliere – anche per le sue note vicende familiari – l’insieme delle potenzialità simboliche per avere un importante ruolo in una crisi ricca di fattori appunto simbolici.
Primarie sì primarie no, la titubanza è durata poco. Primarie sì, ma non quelle dei partiti del centrosinistra con il Pd egemone: perché, limitando la proposta al loro perimetro, il film delle sconfitte di quasi vent’anni avrebbe riprodotto la scena finale, il no delle urne. Nell’opzione che ha fatto da cornice politica alle primarie, poi svolte, si riconosce il lavoro che su Milano e ora sulla Lombardia si va facendo da almeno un paio d’anni (e sui cui su queste colonne si è più volte scritto) di un terreno di possibile scomposizione e ricomposizione di una sinistra di governo, meno ideologica, non subordinata all’egemonia del Pd (che per la verità è anche quella dei numeri, e quindi in sé legittima, ma non quella della sensibilità maggioritaria dell’elettorato), in grado di accettare una spartizione dello spazio politico – e quindi anche della responsabilità di governo – tra soggetti politici e soggetti espressi dalla cittadinanza attiva. Il modello sperimentato con l’elezione di Giuliano Pisapia, attorno a cui hanno lavorato,in una condizione di laboratorio post-novecentesco, varie componenti intellettuali e politiche, tra cui quella originata da una cultura riformista alla quale chi scrive ha dedicato qualche impegno, e che a Milano ha avuto una voce alta e costante nella partecipazione di Guido Martinotti ad ogni occasione di confronto e di dibattito, non sempre condiviso dai più anche se sempre rispettato.
 
Il “Patto Civico” interpreta il cambiamento politico
Prima dell’estate del 2012 avevo proposto (con il saggio La buonapolitica, recensito da Mondoperaio nel fascicolo n. 9/2012), l’ipotesi che accanto al cantiere Milano (con Pisapia) e accanto ad un cantiere Italia (con alcune componenti del governo Monti, segnatamente quella del ministro della Coesione Fabrizio Barca) si sarebbe potuta delineare una “terra di mezzo” assai significativa per irrobustire le prove generali di un passaggio alla terza Repubblica, fondando le garanzie costituzionali di fedeltà al metodo democratico non solo sui partiti politici, pur posti in condizione di esprimere una adeguata autoriforma, ma anche attraverso la assunzione di responsabilità politiche di nuclei organizzati della società civile. Per evidenze del declino prima descritto, quella “terra di mezzo” era indicata nella Lombardia, pur non individuando chi e come – solo pochi mesi fa – avrebbe potuto interpretare meglio questo disegno. La risposta che Umberto Ambrosoli ha ottenuto con la costituzione del “Patto Civico per la Lombardia” da un sistema di partiti capace (in quanto a Sel bisognerebbe dirlo con qualche precauzione) di dominare molte resistenze interne, è stata la prova di responsabilità verso una candidatura che veniva sollecitata al tempo stesso dal sindaco di Milano, da esponenti del cattolicesimo liberale lombardo, nonché da frange laiche della cultura intransigente per la legalità nelle istituzioni.
Il nuovo gruppo dirigente del Pd ha tuttavia ragionato in questo delicato passaggio investendo sulla possibilità di aprire un laboratorio in cui la cultura di governo, pressata da esigenze di dare soluzioni (possibili) a crisi in atto, avrebbe dato soluzione anche alla liberazione di energie compresse da troppi anni di gioco al chiuso, di rendita di posizione, di rinvio di ogni vera sfida. Per questo investimento sarebbe stata necessaria non solo una candidatura adatta ai caratteri moderati della Lombardia, ma anche una candidatura capace di interpretare quella svolta generazionale che – senza nessi stretti con la vicenda della Lombardia – la sferzata di Renzi aveva impresso a tutta la sinistra italiana nel corso delle primarie nazionali. Accettando la caduta delle primarie dei partiti e aprendo alle primarie del “Patto Civico” i partiti del centrosinistra (Pd, Sel, Idv, Psi) hanno anche vinto quella “cultura della percezione” che ha ispirato infinite sconfitte e molti dolori a quella sinistra che subordina strategie inclusive di successo alla retorica delle parole d’ordine e alla presunta purezza di una vecchia teoria autodistruttiva: pas des ennemis à gauche.
Alle primarie lombarde hanno votato – sotto la neve – più di 150 mila elettori: ben al di sotto di quanti hanno votato per le primarie nazionali, ma in numero superiore a ogni previsione. Ambrosoli ha vinto con quasi il 58% dei voti, mentre l’elettorato “militante” ha riconosciuto a sinistra in Di Stefano una ragione di rappresentanza politica (con il 23,23% dei voti) e nella Kustermann caso mai un caso personale che ha ritenuto di sollecitare il voto non tanto su un disegno politico ma sulle ragioni di genere e di settore (19,11%). In province come Brescia o Mantova il successo di Umberto Ambrosoli è stato dal 70 all’80%.
 
I cittadini andranno alle urne con in mano la scheda elettorale della Lombardia insieme a quelle per eleggere il Parlamento nazionale
Ora – a fine 2012, mentre scriviamo – si prepara una veloce e dura battaglia elettorale che durerà due mesi. Insufficienti forse per spiegare un programma alternativo, ma decisivi nel far comprendere se il centrodestra, ancora con Berlusconi coinvolto, sarà in grado di far pesare l’artiglieria comunicativa fino al punto da confondere il disegno storico di un declino evidente, contenendo i danni e recuperando – attorno a crisi, chiusure di fabbriche, criticità di investimenti e ulteriori rischi occupazionali – quel sentimento di paura per “i comunisti” che ha permesso per anni di estendere a soggetti improbabili la fiducia che il contado lombardo aveva espresso per quasi cinquant’anni alla Democrazia Cristiana. E d’altro canto anche decisivi per verificare se quello stesso elettorato troverà più convincente lo slogan di Ambrosoli (“Liberi e senza paura”), con cui si tenta di gettare le basi di un nuovo processo di inclusione e di un progetto di rilancio della competitività dei territori della regione in una chiave globale.
Il 24 febbraio i cittadini – da Mantova a Sondrio – andranno alle urne con in mano la scheda elettorale della Lombardia insieme a quelle per eleggere il Parlamento nazionale. Si domanderanno se vi è coerenza e corrispondenza tra quelle schede. Anche se è ancora presto per dirlo, troveranno su quelle nazionali Berlusconi (non importa come impersonificato), la Lega (non importa se in proprio o accucciata), l’area montiana (non importa se con Monti fisico o simbolico), Bersani e un Pd in risalita (con i suoi alleati Psi e Sel), una sinistra antagonista che comprende l’arancionismo (trafugato) di De Magistris insieme ai rossi epigoni della tradizione comunista e ai verdi senza fissa dimora, con vecchi e nuovi magistrati in declino (come Di Pietro) e in ascesa (come Ingroia). Ha ragione Emanuele Macaluso ad invocare il buon senso dell’unica alleanza possibile per far prevalere la salvezza del paese.
Quanto alla scheda regionale, dovrebbe essere Berlusconi ad accucciarsi alla Lega sotto le insegne di Maroni; dovrebbe essere Albertini a rappresentare l’area montiana; dovrebbero tentare la sinistra dell’Udc (che, con Enrico Marcora a Milano e Valerio Bettoni a Bergamo, ha rotto con Casini) e la destra dell’Idv (che ha rotto con Di Pietro) a fare l’ala destra di uno schieramento che veda dalla parte opposta una formazione di sinistra consapevolmente trasformata da Andrea Di Stefano in una lista ambientalista ragionante. In mezzo una forte lista del Pd (con a fianco una caratterizzata lista di Sel) disposta a lasciare lo scettro al civico Umberto Ambrosoli, forte anche di una vera civica che si va formando in tutte le dodici province lombarde. E ancora – per parlare di ambiti ad alta fragilità organizzativa – una lista dei socialisti, mentre i radicali si dibattono fino all’ultimo tentando una presenza caratterizzata per la battaglia sulla condizione carceraria che minaccia (si scrive il 4 gennaio) un poco sensato patto con l’uomo d’ordine Albertini sostenuto da chi proprio i radicali hanno attaccato alla baionetta chiamandolo “Firmigoni”.
Quanto alla lista propriamente civica (“Lombardia con Ambrosoli presidente”) Umberto Ambrosoli ha combattuto fino in fondo per evitare il riciclaggio della politica promuovendo in poco tempo il miracolo di un patto associativo tra la miriade di aggregazioni civiche nel territorio così da presupporre la nascita di un “movimento” che potrebbe avere ruolo nella legislatura anche in forma dialettica rispetto ai partiti. 
Non c’è bisogno del buon senso di Macaluso per compiere la scelta che consenta discontinuità e governabilità alla regione. E non c’è bisogno di troppa comunicazione per spiegare al sistema dell’operosità organizzata della Lombardia produttiva che se un ciclo è finito la democrazia non lascerà questo sistema e i suoi molteplici soggetti senza una responsabile interlocuzione e dunque senza un progetto di riorganizzazione del rapporto tra bisogni e regole. Per queste ragioni Ambrosoli potrebbe ragionevolmente chiudere dopo 17 anni la stagione del centrodestra in Lombardia e impedire alla Lega, mal rattoppata dopo i suoi immensi guai, di fare filotto al nord.