Il Patto Civico della Lombardia (Mondoperaio 5/2013)

 

mondoperaio n. 5/2013

dossier/otto settimane e mezzo

Il Patto civico della Lombardia

Stefano Rolando

 

E’ probabile che la trasformazione dei partiti politici da “ascensori” che portano dalle istituzioni alla società e viceversa, di weberiana memoria,in “istituzioni” in proprio sia stato il fenomeno che ha causato la perdita di fiducia e di reputazione dei partiti stessi presso molti cittadini, soggettivamente interessati alla partecipazione politica ma oggettivamente estraniati dalle modalità assunte. Tuttavia lo stesso Weber mise in chiaro che la posta associativa dei partiti non è tanto di carattere cognitivo, ovvero di pura ridistribuzione della conoscenza. La natura dell’azione è diretta alla conquista del potere1. E siccome quella conquista produce più reazioni violente che consensi affettivi, essa genera in via anche difensiva una professionalità organizzata attorno ad un principio alla fine separatorio e distintivo. Da qui il processo separante, per l’appunto, che i partiti-istituzioni, governati in modo assoluto attorno alla mistica del potere, hanno nel tempo – e in tutte le latitudini – generato tra apparato e cerchia partecipativa.

Si annuncia ora nella sinistra, per esempio, la proposta di Fabrizio Barca di ripensare a quella separazione proprio attorno al riconsolidamento di una funzione di “mobilitazione cognitiva”2, per riequilibrare la devastazione di
un modello organizzativo che ha perso per strada la natura costituzionale di “libera associazione” e che si è consacrato solo e soltanto attorno alle regole della democrazia rappresentativa. Se ne vedrà la augurabile capacità contaminativa e la difficile ma non impossibile forza di ricomposizione tra apparati ormai un po’ autistici e circuiti sociali visibilmente ostili.

In qualche modo questo processo di sterilità culturale ha segnato nel tempo il rischio di far ribaltare la grande trasformazione dei partiti da organizzazioni di notabili a organizzazioni di massa, riportando in auge forme oligarchiche costruite rigorosamente attorno al principio della cooptazione, e in molti casi con vistosa assenza di regole di democrazia interna. Si sono configurate così negli anni esperienze di mobilitazione civile intese come “libere associazioni” di cittadini non profilate come partiti, ma capaci di concatenare iniziativa comunicativa e proselitismo attorno a tematiche valoriali e a rivendicazione di diritti. Esperienze non sempre accoglibili nel modello organizzativo dei partiti (caso mai in taluni casi solo fiancheggiabili dai partiti) e molto spesso radicate in contesti territoriali capaci di dare concretezza agli obiettivi valoriali e di creare un perimetro reale di conoscenza interpersonale che è parte della soddisfazione partecipativa degli aderenti. Questo genere di mobilitazione può tentare naturalmente anche di sollecitare consenso elettorale. E questa scoperta ha acceso nel tempo una leva organizzativa tesa al voto dei cittadini e al mandato “di scopo” (che la Costituzione non prevede) che, per semplicità e per richiamo diffuso alla pratica locale, ha preso la forma di “lista civica”.

E’ vero che la Lombardia (per stare ai risultati delle ultime elezioni regionali) ha messo in campo il 25% di astensione e il 35% di proposte “civiche “ (M5S al 14%, la civica di Maroni al 10,5%, la civica di Ambrosoli al 7% e le civiche montiane e di Giannino al 5%), lasciando così i partiti (sedi, organizzazioni, apparati, rimborsi, giornali, eccetera) di destra e di sinistra in oggettiva minoranza di voto (mentre il rapporto ingeneroso dei seggi ha favorito i partiti rispetto ai “civici” in un rapporto di 3 a 1). Per questo la Lombardia eredita ora non solo un problema di qualità della democrazia tra maggioranza e minoranza, ma anche un nuovo più precisato problema tra la politica espressa dai partiti e la politica espressa da organizzazioni di mobilitazione civile (sia pure con caratteristiche e governance estremamente diverse). Quel 35% di voto che non premia liste riferite a partiti tradizionali pone un problema generale di modello appunto extra-partitico del “far politica” la cui evoluzione ora investe molte responsabilità. E che – se si vuole avere a cuore l’interesse generale – ha l’obbligo di confrontarsi con una difficile ma sollecitata esperienza di revisione profonda dell’organizzazione della politica.

Quanto all’offerta politica di movimenti di carattere civico, non è la Lombardia che ha inventato il fenomeno, che ha comunque nella storia della Repubblica più tracce settentrionali che meridionali. Assume un carattere “civico” e antipartitocratico, per esempio, il movimento di Comunità creato da Adriano Olivetti, che si era affermato alle elezioni amministrative nel Canavese dal dopoguerra a metà degli anni ’50, ma che poi non superò nel ’58 lo 0,6% alle elezioni politiche nazionali portando in Parlamento solo il suo fondatore3. Sono storie non legate ad esperienze

elettorali, ma che incidono con molta attrattività sulla cultura degli obiettivi civili tra gli anni ’50 e ’60, tanto i movimenti non violenti di Aldo Capitini e Danilo Dolci4 quanto la rivoluzione educativa del laboratorio di Barbiana di don Lorenzo Milani5. E parte in quegli stessi anni, per proiettarsi nei decenni successivi, la potente capacità di  mobilitazione sociale

attorno a temi civili che ha per protagonista Marco Pannella (e con lui poi Emma Bonino) e che dà luogo a una galassia associativa che – al di là del piccolo Partito radicale che non ha mai trasformato realmente in capitale politico il capitale civile accumulato – ha portato nell’agenda della politica (italiana e non italiana) temi che il sistema dei partiti avrebbe altrimenti tenuto fuori, facendone anche provvedimenti normativi epocali6.
 

Nella seconda Repubblica si genera una trasformazione violenta dello stile della politica

 

Dalle costole del ’68 si sono staccate schegge violente, ma anche vasta e diffusa esperienza associativa disallineata alla politica ufficiale. E negli anni ’70 è stata la laica città di Trieste a costruire – nell’alveo laico-socialista, con accentuazioni massoniche, ma dissociandosi polemicamente dai partiti – l’esperienza civica del Melone che, per un decennio, ha governato con consenso la città7 ; lasciando in eredità – anche se non diretta – la prima forte prova di un esponente della borghesia produttiva nell’assunzione di responsabilità istituzionali nel territorio, mettendo i partiti in condizioni di frizionare ma anche di collaborare in una visione “a progetto”.

E all’esperienza dell’imprenditore del caffè Riccardo Illy, dal ’93 sindaco di Trieste e dal 2003 presidente della regione Friuli-Venezia Giulia8, fa eco quella di Renato Soru, fondatore di Tiscali e presidente della Sardegna dal 2004 al 2008 (con esiti controversi nel rapporto con il Pd e con il fisco italiano) 9.

L’esperienza dei “sindaci imprenditori” (di cui ha scritto qualche tempo fa Roberto Basso segnalando il declino di un’onda che, all’acme, aveva fatto contare trecento casi di amministratori “in prestito” dal mondo aziendale10) ha poi certamente un

caso travolgente di “civismo” che si è proiettato nella politica italiana, all’inizio in una forma esplorativa ma dal 1994 in una modalità di organizzazione a tutto campo – attraverso l’uso forzante del marketing – di modelli autocratici aziendali, con trasformazione profonda della stessa politica. Silvio Berlusconi ha infatti il suo vero partito nelle reti televisive di cui è proprietario e ispiratore. Ed è su quelle reti che tesse il suo patto con una società che vuole essere intercettata dal sogno e dall’ottimismo, non dal pedagogismo di Stato caratterizzato dalla Tv pubblica e dai partiti politici tradizionali. Il suo partito formale (Forza Italia) trasferisce dirigenti commerciali di Publitalia in Parlamento e si organizza – all’americana – solo con scopo elettorale 11. La comunicazione top down diventa la religione connettiva di un popolo e di una filosofia che porta a

destra un fenomeno antipartitocratico che aveva avuto per altro precedenti (pallidi ma non banali) in alcune esperienze dal dopoguerra in poi, tra cui la più significativa era stata l’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini (anche lui uomo di spettacolo, perché sceneggiatore), un “partito” fondato nel 1944 che chiamava Calamandrei “Caccamandrei”, Salvatorelli “Servitorelli” e Parri “Fessuccio”, e che prese nel 1946 1.200.000 voti, lasciando poi al lessico della politica il termine “qualunquismo”, in uso finora 12.

Con il berlusconismo il “civismo” muore e rinasce. Nella seconda Repubblica si genera una trasformazione violenta dello stile della politica. I concetti di destra e sinistra vacillano e si confondono. I partiti storici della Repubblica scompaiono e quelli che si camaleontizzano vivranno per tutto il ventennio l’effetto anestetizzante che qualcuno chiama “senso di colpa” e altri “perdita della fierezza del successo”. Certo è che, in opposizione al centro-destra de-costituzionalizzato e al centro-sinistra disabile, rinasce nel tempo della seconda Repubblica – per spinte di genere, di territorio, di riformulazione delle istanze ambientaliste, di ricerca di un rapporto tra religiosità e istanze sociali, di rivendicazioni di bisogni irrisolti – un fenomeno di partecipazionismo politico che, respinto o non attratto dalle istanze di partito, cerca di ripercorrere, soprattutto nel territorio, le strade del “fai da te”. Un fronte relativamente nuovo di aggregazione e di opzione civico-culturale si costituisce attorno alla concezione del “bene comune” e dei “beni comuni” – dalla Costituzione all’acqua – offrendo piste all’iniziativa che, tra pubblico e privato, tra Stato e mercato, marca in modo al tempo stesso nuovo ma ancora non del tutto chiarito il solco di tanta parte dell’economia solidale e non profit, le esperienze della sussidiarietà e del volontariato, le nuove frontiere di ciò che a lungo si è chiamato “terzo settore” non solo in senso economico ma anche ideologico13. Un ambito di pensiero e di

iniziativa sociale che trova nei progetti di “cittadinanza attiva” un punto di riflessione sui diritti del cittadino che qualificano in modo più complesso e moderno il profilo un po’ indistinto di società civile 14.

Ma è sul campo elettorale che smottamenti, rinnovamenti, protesta e crescita di bisogni irrisolti devono trovare un punto di sintesi. E soprattutto un punto di emancipazione dell’elettorato civico rispetto a quello legato all’offerta dei partiti. Le amministrative del 2011 sono l’occasione giusta. Il successo elettorale di Giuliano Pisapia a Milano (insieme a quello di De Magistris a Napoli, di Doria a Genova e di Zedda a Cagliari) è certamente dovuto a un punto di equilibrio tra vecchio elettorato dei partiti e nuove spinte partecipazioniste fuori dai partiti: un punto di equilibrio che va caratterizzando (in forma diversa) quelle esperienze e il loro potenziale tratto di contributo allo sviluppo della politica nazionale.


Gli esiti elettorali e la crisi di governabilità del paese mettono elettori ed eletti nella necessità di produrre schemi di comportamento accettabili
 

Aveva osservato il sindaco di Milano, dando una risposta precisa al tema dell’allargamento e non del cannibalismo nel rapporto tra partiti e civismo:
 

Partivo da una scelta chiara. Evitare la “lista del sindaco”, come aveva fatto Ferrante, che prese il 7% dei voto togliendoli però ai partiti della coalizione, soprattutto al Pd, dunque a circolazione interna. Per allargare i consensi non era questa la linea giusta. E’ stata una fase di discussione per capire se davvero ci fossero ambiti esterni ai partiti interessati realmente alla partecipazione. Anche senza la sicurezza della vittoria, l’apertura verso i ceti professionali, verso intellettuali e ambiti di cultura politica ormai privi di effettiva rappresentanza, verso associazioni nate per migliorare Milano non con scopi di parte, era indispensabile. Sul come e sul chi credo che abbiamo fatto interessanti esperienze 15.

Al momento delle scadenze elettorali i fenomeni di iniziativa che maturano fuori dai partiti (e qualche volta anche per estromissione dai partiti) non trovano di meglio che appiccicare a un nome (di persona, di luogo, di target valoriale) l’espressione “lista civica”. I limitati ma sicuri consensi che queste esperienze provocano, fino a produrre sindaci e anche forti caratterizzazioni identitarie, fanno presupporre che quell’espressione possa unificare i fenomeni in una sorta di movimento sociale bottom up che contenga i fattori chiave dello stesso superamento dell’involuzione della seconda Repubblica. E su questo si aprono gli interrogativi del presente. Fattori unificanti di questi fenomeni sono la dinamica di rete (in cui la comunicazione mobilitativa in internet diventa anche un ambiente di crescita del movimento) e un rapporto controverso con il potere, invocato ma anche tenuto a distanza nelle circostanze in cui l’elaborazione interna non ha superato le soglie della protesta. Sul piano davvero locale invece la programmazione di obiettivi di “buon governo” – in epoca di drammatica riduzione della spesa pubblica – costruisce alcune positive esperienze di pragmatismo (per derivazione non ideologica di quei movimenti) e quindi di soluzione di problemi avvertiti con favore dai cittadini. Dalla Sicilia che oppone Crocetta al declino di Raffaele Lombardo, alla Lombardia che oppone il continuismo-discontinuo di Maroni (cioè riproduce il centro-destra, ma scalza i ciellini per far posto ai leghisti) al patto-civico (tra Pd e diffuso civismo locale) di Ambrosoli, sono tanti i punti di diversità ma anche i punti di somiglianza di un fenomeno nuovo di rapporto tra partiti tradizionali e insorgenti forme di offerta politica con istanze frammentate e radicate nella società 16.

La sociologia politica offrirà approfondimenti e forse disegnerà prima o poi una geografia del mutamento della partecipazione, una volta analizzati meglio anche i flussi elettorali che hanno permesso al movimento più “civico” che sta insorgendo – quello dei 5 Stelle – di stare al tempo stesso nel sogno della libertà della rete (con il grave limite di concepire la democrazia limitata “a chi c’è”) e nel conflitto tra responsabilità e obbedienza a cui quel movimento è costretto da una governance che un moderno psicoanalista come Massimo Recalcati trova caratterizzata da “una paura puberale della contaminazione” 17 . Finora il carattere di antagonismo frontale rispetto a tutti i partiti nella richiesta di consenso ha fatto

annoverare M5S nell’arcipelago dei movimenti sociali. Anche se Piergiorgio Corbetta ed Elisabetta Gualmini avvertono ora che il profilo evolutivo di questo movimento lo trasferisce, al di là delle piazze e della rete, nell’obbligo classificatorio proprio dei partiti18. Dunque, mentre chi offre categorie per fare storia – ovvero interpretazione della storia – è al lavoro, gli

esiti elettorali e la crisi di governabilità del paese mettono elettori ed eletti nella necessità di produrre schemi di comportamento accettabili. Ed è in questa cornice che nella Lombardia reduce da una sconfitta di misura – dunque, come si è già detto, una Lombardia “resa contendibile” – il centrosinistra riflette sul proprio urgente disegno di comportamenti che hanno al centro due componenti con eletti (il Pd e i civici di Ambrosoli) e cinque o sei componenti senza eletti (ma attive nel territorio e alcune con rappresentanze nazionali). E riflette anche attorno a quel 35% di voto complessivamente finito a una offerta politica “civica” che racconta una mutazione intenzionale degli elettori a cui devono dare riposta tutti: i partiti per modificarsi e i civici per identificarsi. Un dialogo difficile tra i soggetti in campo. Difficile tra destra e sinistra, perché malgrado la convergenza dei temi e dei contesti l’abitudine è al pregiudizio della differenza. Difficile tra partiti e “liste civiche”, perché gli uni e le altre guidati da un codice della diffidenza che non si è del tutto depotenziato. Ma anche un dialogo che è stato inquadrato in una scelta non equivoca. Pierluigi Bersani ha detto in tutto il corso della campagna elettorale: “In Lombardia la scelta degli elettori è netta: tra il civismo con Ambrosoli da una parte e la Lega dall’altra parte“.

 

La partecipazione politica diffusa necessita di strutture organizzative complesse, ma proprio tali strutture finiscono per produrre inevitabilmente condizioni di gestione oligarchica

 

Lo stesso contorno definitorio di “centrosinistra” – che ha retto fino alla scadenza elettorale del 25 febbraio – potrebbe ora apparire più debole, non tanto per scavalcare con disinvoltura steccati, quanto proprio perché non è forse più quella l’espressione chiave della nuova identità del “far politica”. Almeno stando in una fascia culturale che – altrove, in altri tempi, comunque in altre condizioni – prenderebbe il nome di progressisti, riformisti, democratici, o altro. Un’espressione che, per ragioni in parte elettorali in parte valoriali, tiene insieme (e da poco senza trattino) l’idea di convivenza tra chi eredita la tradizione comunista con chi eredita la tradizione democristiana. Ma anche – e forse soprattutto – l’idea di convivenza tra chi è per definizione contro Berlusconi e il suo elettorato e chi può contendere, in posizione più moderata, un po’ di elettorato a Berlusconi.

Ma sarà solo alla fine di un vero dialogo e di un vero confronto tra chi opera nei modelli di partito e chi opera nel quadro di esperienze nel sociale e nelle organizzazioni civili (tra cui prende maggior peso, dopo l’esperienza elettorale, la realtà dell’associazionismo economico e produttivo di tipo solidale) che si potrà verificare se l’espressione centrosinistra (ora ineludibile) potrà andare – come lo fu per il marxismo a Bad Godesberg – nella sua rispettata soffitta. E in quel dialogo-confronto – accanto a temi certamente nuovi, come l’influenza della rete e dell’informazione interattiva, come l’avvento della globalizzazione, come la trasformazione valoriale del concetto di “democrazia” – ci sarà anche spazio per l’aggiornamento di questioni antiche. Come quella dell’organizzazione, senza la quale “far politica” è espressione pressoché azzerata.

All’inizio del ‘900 studiò la cosa il sociologo della politica Roberto Michels (un tedesco naturalizzato italiano che aveva studiato a Londra e a Parigi e che fu consuocero di Luigi Einaudi), secondo cui la partecipazione politica diffusa necessita di strutture organizzative complesse, ma proprio tali strutture finiscono per produrre inevitabilmente condizioni di gestione oligarchica, sia pure sotto forma di conoscenze specializzate19. Da qui il più recente dibattito sulla delega e la rappresentanza, e in alternativa sulla democrazia partecipativa e diretta. Con un punto di riferimento storico, per la Lombardia e soprattutto per Milano, in cui la società civile (espressione controversa ma diffusamente adoperata) ha avuto in più stagioni forse più forza della politica. Ha scritto Piero Bassetti, presidente-fondatore della Regione Lombardia:

 

Milano non è mai stata una grande concentrazione di potere politico. La forza della realtà milanese è sempre stata un’altra: il pluralismo. Mai un solo potere forte. Semmai qualche forte oligarchia e molti poteri medi ma diffusi. Tale continua ad essere: una concentrazione di relazioni sociali, culturali, economiche, legate alla sua caratteristica di città di intermediazione, di collegamento, di nuove sintesi, in questo senso di creatività, di innovazione, nell’autonomia della sua società civile 20.

Civismo e politica costituiscono una relazione studiata da tempo nella diversa combinazione tra nord e sud Italia. Risale all’inizio degli anni ’90 la pubblicazione anche in Italia del noto studio dell’americano Robert Putnam sulle tradizioni civiche delle comunità territoriali in Italia 21, e su questo impianto di analisi molti studi sulla casistica di civismo applicato a cause di interesse generale hanno fatto emergere più che la teoria la pratica stessa della democrazia.

 

Una democrazia intesa davvero in senso ugualitario orizzontale evita la distribuzione dei trasferimenti delle risorse in senso diffusamente clientelare

 

Nel corso della campagna elettorale la questione del rapporto tra partiti e civici ha occupato un certo spazio, con slanci e riluttanze a doccia scozzese. Cercarsi e distinguersi, avvicinarsi e allontanarsi. Alla fine – con residui polemici non del tutto risolti tra liste civiche e Pd – convergere in modo distinto sul medesimo obiettivo, grazie al principio di non lavorare per travasi interni di voti ma in forma complementare. Nella consapevolezza, tuttavia, che la vera convergenza fosse culturale – con approfondimenti identitari separati e comuni – per la quale il clima elettorale attiva energie ma non il setting di analisi più adeguato. Alla domanda “Quale ruolo per il mondo civico avevi in mente e ritenevi non si potesse realizzare per tempo?” Umberto Ambrosoli ha così risposto:

Oggi la credibilità del mondo dei partiti ha raggiunto il livello più basso di tutti i tempi; conseguentemente la fiducia dei cittadini nella politica è bassissima. Le ragioni della perdita di credibilità sono molteplici: non mi riferisco alle centinaia di scandali che ci consegnano l’immagine di responsabilità politiche depravate in affermazioni di interessi personali, ma soprattutto all’incapacità della politica (soprattutto a livello nazionale) di rispondere ai bisogni della collettività. Contemporaneamente vediamo che a farsi carico di tantissime situazioni verso le quali la politica s’è dimostrata incapace, c’è una moltitudine di soggetti che, con generosità ed abnegazione, danno la risposta necessaria. E’ il volontariato, il mondo del terzo settore, la società civile. L’idea è quella di coinvolgere nella politica questi modelli di responsabilità. Per farlo, però, bisogna che quel mondo abbia voglia di “andare con i partiti (soggetti giustamente previsti dalla nostra costituzione) oltre i partiti. Per coinvolgere questo mondo, per convincerlo ad affrontare in maniera organizzata una sfida tanto importante, ritenevo ci fosse bisogno di un tempo non di poche settimane 22.

Anche sul fronte del centrodestra (di parte leghista) l’analisi fatta nel testo di Stefano Bruno Galli dedicato a “Cultura e destino della questione settentrionale”, pur nel riconoscimento dei “tanti nord”, risale alla radice civica per tentare i confini non pretestuosi della macroregione (e per mantenere il punto nella critica anticlientelare al Mezzogiorno). Scrive, con comuni fonti di ricerca ma con distinti approdi, l’ispiratore della lista Civica di Maroni:
 

La civicness – vale a dire quell’atteggiamento virtuoso generato dal tessuto sociale e dalle regole civili – affonda le proprie radici nella tradizione, intesa come cumulazione, nel tempo, di valori e principi che incidono nella percezione individuale e collettiva della vita associata, nei suoi aspetti politici e istituzionali, economici e produttivi. E’ la forza d’inerzia del passato che contribuisce in modo decisivo alla costruzione di quel capitale sociale necessario al buon funzionamento della democrazia. Una democrazia intesa davvero in senso ugualitario orizzontale – à la Tocqueville – che perciò evita la distribuzione dei trasferimenti delle risorse in senso diffusamente clientelare, rispondendo al criterio del familismo amorale studiato da Banfield23 negli stessi anni Settanta. Il sociologo americano teorizzava il familismo amorale proprio della cultura euro-mediterranea, in cui gli individui di una comunità cercano di massimizzare i vantaggi, in particolare quelli materiali, a beneficio della propria famiglia 24.

Questo testo è scritto nei giorni della diffusione del documento scritto da Fabrizio Barca che, per sostenere la discussione sulla sua “memoria” all’interno del sistema dei partiti, mette fine ad una lunga indipendenza-relazionata dai partiti politici e si iscrive al Pd proponendosi di dare un contributo al suo profondo cambiamento, attorno a requisiti ben delineati fin dalla sintetica introduzione:

 

Serve un partito di sinistra saldamente radicato nel territorio che, richiamandosi con forza ad alcuni convincimenti generali, solleciti e dia esiti operativi e ragionevoli a questo conflitto. Serve un ‘partito palestra’ che, essendo animato dalla partecipazione e dal volontariato, praticando volontariato e traendo da ciò la propria legittimazione e dagli iscritti e simpatizzanti una parte determinante del proprio finanziamento, sia capace di promuovere la ricerca continua e faticosa di soluzioni per l’uso efficace e giusto del pubblico denaro. Serve un partito che torni, come nei partiti di massa, a essere non solo strumento di selezione degli organi costituzionali e di governo dello Stato, ma anche ‘sfidante dello Stato stesso’ attraverso l’elaborazione e la rivendicazione di soluzioni per l’azione pubblica. Serve un partito che realizzi questi obiettivi sviluppando un tratto che nei partiti di massa tendeva a rimanere circoscritto alle ‘avanguardie’, ossia realizzando una diffusa mobilitazione cognitiva. 25

La crisi dei partiti è in atto ma non ha azzerato il potere di chiamata e soprattutto la capacità organizzativa elettorale

 

Anche la riflessione che il progetto del “Patto Civico per la Lombardia” intende promuovere tiene conto di tre concetti qui ben messi in evidenza nella citazione precedente. Il concetto di palestra, che rispetto alla gestione oligarchica oppure alla gestione delle clientele, offra uno spazio partecipativo garantito per una qualità democratica che nei partiti tende a essere marginalizzata. Il concetto di ricerca delle soluzioni che maturi non da travaso ideologico ma da studio e confronto, con la mediazione di soggetti istituzionali che, sollecitati dall’inevitabilità del governo (quella che Carlo Donolo riferisce, anche nell’età della crisi, all’arte di governare 26), razionalizzino il rapporto tra saperi e poteri. Il concetto di espressione di idealità

private (provo a dirla così), che nel testo di Barca è il pensiero alla politica che “muove sentimenti e si separa dallo Stato”, qui è il concorso – separato dal momento della gestione dell’ordinamento costituzionale – ad agire per innovare (misurandosi con le complessità degli altri e del mondo) il meglio del patrimonio simbolico che ciascuno porta con sé e che potremmo chiamare “identità”.

Consapevoli che i cambiamenti accennati sono risultato di un percorso lungo e complesso (appunto la “palestra”), per come si è andata delineando in Lombardia la relazione tra domanda e offerta di politica, sembrerebbero conciliabili i due movimenti: il movimento evolutivo di un partito (o di più partiti se la provocazione sarà più invasiva); e il movimento, ugualmente evolutivo (che non di meno deve ricapitolare storia, ragioni collettive e individuali, analisi di contesto e priorità dei problemi che chiedono soluzioni), che un vario associazionismo – civile ed economico – ha comunque messo in movimento fin qui separatamente (confliggendo e convergendo, come si è detto) rispetto ai partiti.

E’ evidente che la natura del “patto” che vincola contraenti omogenei (aderenti a un partito) oppure contraenti non omogenei (soggetti di profilo e rappresentanza ben dissimili) è cosa diversa. In un caso più profonda e avvolgente; nell’altro caso più leggera e metodologica: ma con un caveat riguardante la positiva influenza reciproca rispetto alla stessa analisi che svolge Barca, che non ritiene la rete sostitutiva dei partiti e che non sembra concedere al “civismo organizzato in politica” – questo sarà un tema da discutere – una particolare dignità di soggetto titolato nel campo 27. E che tuttavia rispetta l’identità di “associazioni del terzo settore” osservando finora
 

la rinuncia dei militanti di queste associazioni, impegnati nella ricerca e nella pratica di soluzioni innovative, a travasare e confrontare le proprie esperienze in una rete aperta, che superi la loro parziale e circoscritta identità e nella frequente tendenza degli stessi a tenersi lontano dalla politica in quanto tale, salvo assumere una posizione meramente richiedente”.

Proprio perché in alcune parti del paese tale rinuncia si è parzialmente modificata in iniziativa, alcune riflessioni si rendono possibili. Si vedrà nel corso degli eventi se vi è una bussola comune per agevolare queste evoluzioni. O se – soprattutto per le ferite e le contraddizioni emerse nel corso dell’elezione del Capo dello Stato – la fase di conflitto e di scomposizione non darà spazio ad analisi serene e di profondità.

Partiti e civici (per chiamarli così, per semplicità) escono dalle urne della Lombardia con l’idea che, se si debba riorganizzare a breve un’altra offerta elettorale, non ci sarebbe formula migliore che il rinnovo dell’alleanza. Nessuno, infatti, ce la fa da solo. L’elettorato si è frammentato e laicizzato. La crisi dei partiti è in atto ma non ha azzerato il potere di chiamata e soprattutto la capacità organizzativa elettorale. Il localismo esercita una certa attrattività ma la sollecitazione del quadro nazionale resta ancora prevalente.

La cornice che si ipotizza ora di scegliere per continuare al tempo stesso questo dialogo interno, ma anche questo dialogo con la società (interpretazione dell’evoluzione dei bisogni) e con l’elettorato (taratura dell’offerta, assegnando compiti complementari ai soggetti in campo) può essere quella del Comitato per il Patto civico in Lombardia, utilizzata in forma solo di garanzia nel corso della campagna elettorale del centrosinistra. E che ora potrebbe ampliare le sue funzioni. Un organismo in cui si può rinnovare la rappresentanza dei soggetti politici (una decina, compresi i gruppi in Consiglio regionale e il coordinamento delle liste civiche), dei soggetti amministrativi (i più significativi sindaci e presidenti di provincia, inevitabilmente aderenti a titolo personale e come portatori della loro “politicità”) e dei soggetti associativi (cercando di fare emergere la percezione più matura del radicamento nell’esperienza sociale capace di raccordarsi con la logica degli interessi generali, qui con decisioni da prendere in ordine a come accreditare la membership). Con un segretariato capace di assicurare iniziativa interna ed esterna e la connessione ad un think tank reale, espressione di una cultura progettuale ed elaborativa (accademica ma anche di esperienza gestionale, di carattere aperto a portatori di saperi in senso anche non tradizionale, sul modello in generale dell’esperienza di Astrid) che ha già prodotto un programma di governo all’altezza delle poste in discussione per affrontare la nuova legislatura e che si dispone ora ad un aggiornamento di riflessioni. Cercando di confinare con ciò che il mondo, l’Europa e il paese vanno producendo in una ormai ineludibile integrazione tematica con le sorti di una regione cerniera che produce un quarto del Pil nazionale.
 

L’approfondimento della questione centrale della crisi della seconda Repubblica è qui, in buona sostanza, all’ordine del giorno

 

Da un lato dovrà emergere una linea di position papers funzionali alla dialettica politica nel territorio, a tutti i livelli istituzionali. Dall’altro lato si cercherà di riportare verso l’interno la casistica economica e sociale più acuta (crisi e opportunità) di una fase storica in profonda trasformazione. Una fase in cui la connessione istituzioni-imprese-università e media (che richiede anche parole comuni per interpretare i fatti, secondo il modello che il Censis ha proposto in Italia per quasi cinquant’anni) non avviene per patti stabili, ma anche per obiettivi legati alla fisiologia democratica.

Dunque la discussione che si avvia è sulla natura del “Patto Civico”.

Se cioè, malgrado incertezze, sconfitte e crisi di molti soggetti, si può creare un deterrente importante per sprigionare energie progettuali e per partecipare al modo con cui la società stessa è capace di generare soluzioni, se adeguatamente stimolata e accompagnata. A questo presidio viene anche chiesto di essere funzionale ai compiti di una seria opposizione, tallonando le responsabilità di governo con analisi puntuali del rendimento e verificando bene ciò che, essendo propaganda, non si trasforma in atti coerenti. L’avvio della discussione fa emergere interesse ma – giusto dirlo – anche qualche pessimismo. Per il momento, comunque, il perimetro programmatico è quello sottoscritto dalla coalizione di centrosinistra in Lombardia a gennaio 2013, avviando la campagna. Frutto di ascolto, di una rete elaborativa che intende oggi operare all’interno di questo nuovo percorso e di segmenti progettuali che la stessa politica ha prodotto riflettendo sulla trasformazione di sé (come è stato il caso della cosiddetta “sinistra antagonista” che ha scelto la via – con Etico! – di sviluppare, al governo, un progetto di economia sostenibile) e che è una base interessante, ma certamente da sviluppare, dell’idea di “Lombardia in Europa” capace di consolidare la sua identità glocale 28. L’approfondimento della questione

centrale della crisi della seconda Repubblica è qui, in buona sostanza, all’ordine del giorno. Ovvero la crisi di reputazione delle istituzioni, dei partiti e della politica, che questa fase storica ha risolto stressando da una parte il populismo come strumento di governo e dall’altra l’antipolitica come alibi. Una crisi che contiene anche – tra globale e locale, tra istituzioni e territori, tra partiti e società – un tumultuoso ripensamento attorno al concetto stesso di sovranità29.

Una lunga storia del civismo – passato, come appena accennato, sotto forme diverse, culturalmente e territorialmente – evolve a questo proposito in un punto in cui acquisisce anche la dignità di essere un soggetto indispensabile nel “fare maggioranza” (e questo vale tanto a sinistra quanto a destra). Ma continua anche la lunga storia dei partiti di massa che potrebbe avere – in Lombardia e in Italia (ma senza esito se non vi è un nesso tra i due “luoghi”) – la possibilità di riproporre un modello identitario e organizzativo che tenti di invertire la rotta di collisione con i cittadini: di risolvere cioè, in un’epoca in cui le specializzazioni sono un fattore competitivo accettato, quell’aspetto autodistruttivo che Michels aveva individuato quasi un secolo fa.

Non un laboratorio teorico, tuttavia. Ma un luogo stabile di dialogo regolato da rapporti di potenzialità tra i soggetti indicati, e per questo mediato dalla componente di per sé tesa a soluzioni pratiche, che è quella degli amministratori locali. Quei sindaci però – proprio come li descrive Fabrizio Barca – che, facendosi carico della ricerca delle conoscenze per “risolvere problemi”, debbono appartenere a un ambito in cui la politica sia anche storia, identità, progetto. Altrimenti si torna alla citata breve stagione dei sindaci aziendalisti, che pensando di equiparare i contesti hanno subito le peggiori delusioni del settantennio repubblicano.
 

E’ più che urgente provocare un laboratorio autocritico e propulsivo del sistema che fuori dalle esasperazioni delle campagne elettorali non si limiti a rincorse demagogiche dell’antipolitica

 

In assenza di uno sforzo che non veda egemonie preconcette si correrebbero rischi di ulteriori fratture e di salto nel vuoto nel rapporto tra il deficit democratico del “fare politica” e la spinta all’azzeramento del “modello partito” che non va addebitata ai soliti colpevoli in permanenza che sono ormai gli imperscrutabili “mercati”, ma sempre più chiaramente anche alla volontà di cittadini che – come scriveva Simone Weil in anni che credevamo cancellati per sempre in Europa – continuano a vedere nei partiti “salvo un piccolissimo numero di coincidenze del tutto fortuite”, nient’altro “che misure decise ed eseguite contrarie al bene comune, alla giustizia e alla verità”30.

Se la soglia di reputazione dei partiti politici è giunta fino al limite estremo del 4% in Italia (nel corso del 2012, nei dati più volte rilevati da vari istituti), e se le questioni di buon governo che i cittadini continuano a vedere irrisolte dalla politica fatta dai partiti non hanno fin qui migliorato quella soglia, è più che urgente provocare un laboratorio autocritico e propulsivo del sistema che fuori dalle esasperazioni delle campagne elettorali non si limiti a rincorse demagogiche dell’antipolitica ma rifletta su soluzioni: per le istituzioni, per gli elettori e per un modello comunque leggero e rinnovato del “far politica” 31.

Senza voler dire qui che sono i “civici” portatori in quanto tali di soluzioni. Ma il dialogo tra portatori di stili così diversi nel “far politica” (in cui ha posto anche la questione dei costi e dei privilegi) è certamente un luogo e un metodo per facilitare soluzioni. E nelle soluzioni per le istituzioni va ricompreso uno dei fattori di degrado della democrazia in Italia che è stato in questi anni la perdita di funzioni e di senso che un’opposizione capace di controllo e di valutazione saprebbe e dovrebbe svolgere.

Il Comitato per il Patto Civico in Lombardia – perseguendo questo progetto – può mirare a riorganizzarsi rispetto a questi temi e con questo spirito, cosciente di essere puntellato, nell’articolazione di oltre 1500 comuni nel territorio, anche da una spinta di esperienza di governo, in condizioni cioè di maggioranza, nella metà di quelle amministrazioni. Dall’incrocio, insomma, di due storie diverse del “far politica” potrebbe nascere uno stimolo al miglioramento (nella campagna elettorale si è usata la parola “rigenerazione”), ovvero a una condizione capace di avere una propria agenda politica e culturale.

I responsabili di quelle due storie hanno insomma molte ragioni di interrogarsi in mezzo ad una crisi della politica e delle istituzioni che, mal fronteggiando grandi criticità economiche e sociali e in una condizione competitiva internazionale assai più dura, rischiano derive autoritarie. Che come si sa spesso nascono dalla stessa perdita di condizione democratica interna alle organizzazioni del “far politica”, cioè diventano oggettivo abbassamento della guardia rispetto alla fatica, alla lentezza, spesso anche alla sterilità, di una democrazia non adeguatamente riformata e quindi, alla fine, incapace di rendere servizi.

 

Note
 

1 M. WEBER, La politica come professione, traduzione italiana, Armando editore 1997.

2 Il testo del documento Un partito nuovo per un buon governo -. Memoria politica dopo 16 mesi di governo è stato diffuso in rete il 12 aprile (http://www.internazionale.it/news/italia/2013/04/12/il-documento-di-barca-per-rilanciare-il-pd/).

3 Di recente, G. DE RINALDIS, Chi era il socialista Adriano Olivetti, Uni Service 2013. E anche – e non casualmente, rispetto al tema qui in esame – nella ripubblicazione ora di un testo di Adriano Olivetti del 1949, qui presentato da Stefano Rodotà, dal titolo Democrazia senza partiti, Edizioni di Comunità (con la collaborazione della Fondazione Adriano Olivetti), 2013.

4 Un efficace riferimento in A. CAPITINI, D. DOLCI, Lettere 1952-1968, a cura di L. Barone e S. Mazzi, Carocci 2008.

5 Nella vasta bibliografia, A. SANTONI RUGIU, Don Milani. Una lezione di utopia, Edizioni ETS, 2007; E. MARTINELLI, Don Lorenzo Milani. Dal motivo occasionale al motivo profondo, Società Editrice Fiorentina 2007.

6 Uno specifico passaggio su questo tema in M PANNELLA con S. ROLANDO, Le nostre storie sono i nostri orti ma anche i nostri ghetti, Bompiani 2008.

7 Manlio Cecovini, Gran Maestro della Massoneria, intellettuale liberale, fondatore del Melone dopo il Trattato di Osimo, ex sindaco di Trieste ed ex parlamentare europeo. Scomparso nel 2010 ha lasciato molte pubblicazioni tra cui l’ultima: Il romanzo di Trieste. Storia di un autonomismo, Bastogi Editrice Italiana 2005.

8 R. ILLY, Così perdiamo il nord. Come la politica sta tradendo una parte del nostro paese, Mondadori, 2008

9Bellezza e libertà” intervista a cura di Gabriella Saba a Renato Soru, La Repubblica Donna, 28 maggio 2011.

10 R. BASSO, Sindaci imprenditori, Rubbettino 2009.

11 E’ impressionante la bibliografia italiana dedicata al fenomeno politico elettorale costruito da Silvio Berlusconi. Si veda il centinaio di titoli raccolti in wikipedia (che prendono le mosse da A. ABRUZZESE, Elogio del tempo nuovo: perché Berlusconi ha vinto, Costa & Nolan 1994). Il link:

http://it.wikipedia.org/wiki/Bibliografia_su_Silvio_Berlusconi

12 La creazione di una teoria politica del “qualunquismo” trovò la sua formulazione in G. GIANNINI, La Folla-Seimila anni contro la tirannide, Editrice Faro 1945.

13 Sulla scia del premio Nobel assegnato nel 2009 a Elinor Ostrom (insieme a Oliver Williamson) per la teoria della governance dei beni comuni – con una caratterizzazione teorica di tipo liberale – si apre una stagione di pensiero e di iniziativa sociale e politica in Italia e in generale in Occidente più radicale, affascinata dall’espressione stessa “comune” che ha offerto anche in Italia sviluppi ramificati: dall’autonomismo territoriale al radicalismo no Tav, da nuove esperienze di economia solidale alla riprogettazione del principio di sussidiarietà. Tra i molti contributi, U. MATTEI, Beni comuni, un manifesto, Laterza 2011, che ha continuato di recente la sua riflessione in Contro riforme (nel senso di accusare la nuova accezione del “riformismo” come leva per la dismissione del patrimonio), Einaudi 2013; S. SETTIS, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, 2010; ID., Azione Popolare. Cittadini per il bene comune, Einaudi 2012. Una critica all’uso indiscriminato – culturale e politico – dell’espressione “bene comune” viene ora da E. VITALE, Contro i beni comuni. Una critica illuminista, Laterza, 2013.

14 Cittadinanzattiva è un’organizzazione fondata nel 1978 con il nome di Movimento federativo democratico che conta ora quasi centomila aderenti e un forte orientamento attorno ai diritti del malato. Molti i fautori; e tra coloro che hanno dato contributi di pensiero politico e costituzionale allo sviluppo dei diritti di iniziativa politico-costituzionale non della società in termini indistinti ma del singolo cittadino: G. ARENA, Cittadini attivi. Un altro modo di pensare l’Italia, Laterza 2011; C. IAONE, L’Italia dei beni comuni, Carocci 2010; G. COTTURRI, Il valore aggiunto. Come la sussidiarietà può salvare l’Italia, Carocci 2011; G. MORO, Cittadini in Europa. L’attivismo civico e l’esperimento democratico comunitario, Carocci 2009.

15 G. PISAPIA con S. ROLANDO, Due arcobaleni nel cielo di Milano (e altre storie), Bompiani 2011.

16 Sugli argomenti della lista Civica promossa da Roberto Maroni che ha costituito l’ossatura della sua comunicazione elettorale orientata al modello “bavarese” di partito S.B. GALLI, Il Grande Nord. Cultura e destino della Questione settentrionale, Guerini e Associati 2013.

17 Nell’intervista di Massimo Recalcati a Lilly Gruber sul tema La politica italiana ha bisogno di psicoanalisi?, 8 e mezzo, La 7, 5 aprile 2013.

18 Nel saggio, chiaro fin dal titolo, Il partito di Grillo, Il Mulino 2013.

19 F. TUCCARI, Dilemmi della democrazia moderna : Max Weber e Robert Michels, Laterza 1993.

20 P. BASSETTI, Milanesi senza Milano, Mursia 1999. Per la Lombardia questo quadro sociale policentrico va naturalmente anche messo in relazione a una articolazione identitaria dei territori che la rendono tollerante ma poco disponibile a lasciare a Milano l’egemonia politica, come ha ben ricordato Giorgio Rumi nell’introduzione a La formazione della Lombardia contemporanea, Cariplo-Laterza 1998.

21 R.D. PUTNAM, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, 1993.

22 U AMBROSOLI con S. ROLANDO, Liberi e senza paura – Cronaca di una candidatura in Lombardia – Sironi editore, gennaio 2013.

23 E.C. BANFIELD, La basi morali di una società arretrata, Il Mulino 1976.

24 GALLI, op.cit.

25 F. BARCA, op. cit, pag. 3

26 C. DONOLO, L’arte di governare. Processi e transizioni, Donzelli, 2012.

27 Ciò pur essendo evidente il legame tra partiti e società che Barca incoraggia a consolidare, come scrive del resto anche Michele Salvati (Corriere della Sera, 14 aprile 2013), secondo cui i processi di partecipazione democratica privilegiati nella sua proposta sono “ indipendenti dallo Stato e strettamente legati alla società civile”.

28Europa, sviluppo, lavoro, legalità” il documento sottoscritto il 24 gennaio 2013 e tuttora in rete al link http://www.ambrosolilombardia2013.it/wp-content/uploads/2013/01/Progetto-per-la-Lombardia-Umberto-Ambrosoli-Presidente.pdf

29 Il Censis dedica l’ultimo quaderno “Un mese di sociale” a fine 2012 (FrancoAngeli) , al tema La crisi della sovranità, in cui con riferimento agli argomenti qui trattati – e in particolare allo spostamento di sovranità dallo Stato e dai partiti – si possono vedere le conclusioni di Giuseppe De Rita.

30 Simone Weil scrive queste parole tra il 1942 e il 1943, anno della sua morte in un sanatorio del Kent, nella Note sur la suppression génèrale des partis politiques, che ha trovato una recente edizione italiana in Senza partito, a cura di M. Dotti, con scritti di M. Revelli e A. Simoncini, Vita-Feltrinelli 2013.

31 E’ Marco Revelli a ricapitolare su questo tema i caratteri profondamente mutati dei partiti generati in età industriale dal modello fordista che ha avuto in politica costi insostenibili e modelli organizzativi pesanti (in Finale di partito, Einaudi 2013).