Il giorno in cui varcai le porte di Cinecittà (su rivista “8 e mezzo”, marzo 2014)
La rivista “ 8 e mezzo” – realizzata editorialmente dall’Istituto Luce e diretta da Gianni Canova – pubblica una serie di contributi in occasione dei 90 anni dell’Istituto Luce. Sul n. 13/marzo 2014 i primi due contributi, di Ernesto G. Laura (amministratore unico dell’Istituto negli anni ’70) e di Stefano Rolando (direttore generale dal 1982 al 1985).
Questo il contributo di Stefano Rolando
Il giorno in cui varcai quel mitico cartello blu con scritto “Roma”
Stefano Rolando *
Il giorno del primo ingresso nella mitologia di Cinecittà (il Luce occupava la palazzina sulle alture di destra del perimetro, con sguardo sul Teatro 5) passammo in auto davanti al cartellone immortalato dalle fotografie dell’arrivo degli americani a Roma nella seconda guerra mondiale, quello con la scritta Roma costellata da pallini in rilievo, come i brillantini delle insegne dei teatri. Un cartello storico, che guardai con affetto ma dicendo a Angelo Zingaretti (veterano di Cinecittà che faceva, su una improbabile 128 blu, l’autista tuttofare all’Istituto Luce, della cui amicizia non avrei potuto privarmi e che, con qualche spericolatezza sindacale, trattenni in servizio oltre età per tutto il tempo della mia permanenza): “Ma siamo ai limiti dell’urbe, praticamente nelle praterie!”. “Ennò – rispose – da qui in poi c’è solo cinema e quando capita un buon vino bianco”.
Ci rimasi tre anni, dal 1982 al 1985, come giovane direttore generale che le Partecipazioni Statali avevano distaccato dalla Rai per rilanciare un’azienda presieduta con nobile flemma da Marcello Sacchetti, amico di Andreotti e composta da una metà morta (l’Italnoleggio) e una metà boccheggiante (il Luce). Anni nei quali avviammo l’informatizzazione dell’archivio storico; portammo a casa un centinaio di commesse di documentari istituzionali e di impresa; rigenerammo l’attività distributiva con una trentina di film in esercizio, parte prodotti e co-prodotti, parte in distribuzione Italia; mettemmo in cantiere sette opere prime (atto dovuto per il cinema pubblico) e portammo a casa orsi d’argento, palme d’oro, leoni ai principali festival cinematografici, cominciando con Gian Maria Volontè a Cannes per La morte di Mario Ricci, intuizione di Giancarlo Zagni (vicepresidente) che assecondai a occhi chiusi; poi imponendo a Venezia i sette leoni per l’interpretazione maschile in Streamers di Altman che nessuno voleva in distribuzione e dopo facendo da soli nella produzione di una delizia di Pupi Avati, Noi tre, che vinse il Leone per musiche ed effetti. Poi ci furono riconoscimenti maggiori. Ma questa partenza rimise il Luce in carreggiata, lo riconsegnò ai rapporti con i produttori (un pensiero speciale va a Franco Cristaldi) e autori (un pensiero inevitabile per Fellini), fece arrivare molti copioni in esame; mise il Ministero dello Spettacolo (allora ministro Lelio Lagorio) in condizioni di avere una leva operativa per una politica di qualità nel settore. Soprattutto – anche se con più fatica del previsto – si ragionò con le reti Rai in termini coproduttivi. Grazie a Giovanni Minoli (Rai2) la post-produzione del Luce generò un filone di documentarismo storico tuttora vivo che permise di recuperare rapporti con studiosi e registi di qualità (da Lizzani a Quilici, da Farina a Baldi, da Carpi a Gagliardo, ad altri, che tornarono ad una produzione fondata sulla memoria). Grazie a Paolo Valmarana (Rai1) si ricominciò a progettare cinema dando un contributo produttivo e distributivo alla cinematografia italiana (in listino entrarono il Ginger e Fred di Fellini, Bellocchio, Rosi e altri) e aprendo strade per l’importazione distributiva del cinema internazionale di qualità (memorabile l’operazione negoziata con l’URSS, dopo due partecipazioni al Festival di Mosca, per portare in Italia tutto Mikhalkov, ma importante anche il lavoro con i francesi, per Resnais, Rohmer, Bresson). Nel campo delle produzioni storiche cito solo il “coraggio”di avere fatto un contratto di consulenza a Vittorio Mussolini, figlio del duce, per ricostruire con lui ciò che senza memoria diretta non si poteva fare, per comprendere l’applicazione delle regole da parte del fascismo su produzione e censura. Il mio rapporto con il gruppo si incrinò attorno a due progetti di sviluppo a cui lavorai: l’acquisizione delle sale Gaumont fermata dalla politica e il progetto – che negoziai con vertici Rai e soci francesi – per sviluppare la partecipazione in TeleMontecarlo in una sorta di progenitrice delle pay-tv ugualmente frenato. Era venuto il momento delle marce basse, che in fondo la politica preferiva, per poter dire la sua su piccoli interessi, tanto che la stagione che seguì prese vie meno ardimentose (con fondi però finalmente a disposizione) e, diciamo così, più clientelari.
Dopo tre anni di indimenticabile esperienza e di connessione amorosa con la tribù del cinema italiano, con i suoi straordinari sceneggiatori, con il personale tecnico di primissimo ordine, con autori e creativi che al tempo erano una stella brillante nel firmamento internazionale, lasciai quelle mura e quella dedizione, lasciando anche la Rai (in cui ero stato assistente dei presidenti Grassi e Zavoli), perché il Governo (l’allora sottosegretario Giuliano Amato) mi chiamava, come direttore generale a Palazzo Chigi, ad un’altra ricostruzione dalle ceneri del fascismo, quella forse più delicata dell’informazione pubblica.
Se cerco tre immagini nella memoria di quegli anni, trovo il presidente Pertini in saletta di proiezione nel 1984 a Cinecittà per l’Oblomov di Michalkov splendidamente doppiato a cui dedicammo il capodanno al Teatro Argentina; mi trovo con Giuseppe Bertolucci a Palermo nell’anniversario dell’assassinio del generale Dalla Chiesa per presentare il suo Segreti segreti primo film del cinema italiano sul terrorismo, dopo Colpo al cuore di Amelio; mi trovo con Edgar Reitz in conversazione di notte al bar dell’Excelsior a Venezia per la pazza decisione presa di portare tutte le sue undici ore di Heimat nelle sale prima di farle approdare a Rai3.
Alla domanda di Gianni Canova di concludere sul tema di cosa dovrebbe essere il cinema pubblico oggi, rispondo che dovrebbe essere quello che ho qui raccontato per sommi capi: amore, alleanze, qualità.
* Direttore generale dell’Istituto Luce-Italnoleggio cinematografico dal 1982 al 1985. Attualmente professore di ruolo di Teoria e tecniche della comunicazione pubblica e di Politiche pubbliche per le comunicazioni all’Università IULM di Milano.