Il giacobino di Voghera
Mondoperaio n. 2 / aprile 2009
Biblioteca schede di lettura
Il giacobino di Voghera
Stefano Rolando
Voghera è la terza città del pavese. Ha circa 40 mila abitanti. Negli anni ’50 erano 33 mila. Una comunità che dava preferenze ai socialdemocratici perbene. Allo storico direttore di Critica Sociale, Ugoberto Alfassio Grimaldi, mancò una manciata di voti per fare il senatore. Città di italiani noti, destinati a tenere lì qualche radice ma a frequentare foyers più celebrati (da Alberto Arbasino a Valentino Garavani, da Carolina Invernizio a Pino Calvi, da Alfieri Maserati che fondò altrove la celebre casa automobilistica a Sandro Bolchi). Città lombarda di confine dunque, epicentro dell’Oltrepò, terra di vini e acque, colline e torrenti, già fedelissima al Barbarossa (come Pavia) quando Milano cercò di trovare una terza via tra l’imperatore e il Vaticano e fu rasa al suolo dall’energumeno il cui figlio Arrigo VI vi regnò prima che, per lungo tempo, vi regnassero i Visconti.
La seconda guerra mondiale la offese molto, perché l’incrocio delle direttrici Milano-Genova e Torino-Bologna la rese bersaglio strategico. Patria della famosa “casalinga di Voghera”, metafora del suo galleggiamento nell’anonimato provinciale. Per raccontare il quale e, anzi, per dimostrare che esso non era poi così anonimo, Vittorio Emiliani, giornalista di vaglia, figlio di segretario comunale che vi transitò nel tempo dell’avvio dell’università dalla Romagna natia (l’ovile essendo l’impopolare Predappio) a futuri e successivi destini prima milanesi e poi romani.
Quel pezzo di vita a Voghera nella seconda metà degli anni cinquanta – gli anni del boom e del chiarimento a sinistra, della motorizzazione di massa e del mito del giornalismo, del crepuscolo dei bordelli e della trionfante goliardia – è raccontato oggi da Emiliani in 280 fittissime, godibilissime, raccontatissime pagine. Con gli occhi piantati sul nucleo di una classe dirigente provinciale tra politica, università e giornaletti ; e attirata – con la lusinga di una non dissimulata nostalgia – più da Milano che dalla “odiatamata” Pavia. È Milano la meta di bravate intellettuali, ( per aprire con il compassatissimo Renzo Zorzi una collaborazione con l’austera sociologica rivista Comunità sostenuta da Adriano Olivetti), ma anche per sbornie, percezione della politica, cazzotti sul ring, grande jazz, teatri sprovincializzati (come lo era il Piccolo di Grassi e Strehler) e per intercettare nuove leve del giornalismo. Nuove leve che si andranno di lì a poco formando attorno alla avventura – sostenuta dall’ENI di Mattei e diretta prima da Gaetano Baldacci poi da Italo Pietra – del Giorno, testata che doveva accogliere il bisogno della gioventù di un quotidiano innovativo che marcasse le distanze dal Corrierone filo governativo, negli anni della DC di Pella, Zoli e altri doppiopetti diversi da quell’impasto di riformismo, radicalismo, liberalismo, laicismo e progressismo che animava la generazione dell’UGI che voleva anche essere diversa dai comunisti. Arriverà prima il Mondo di Pannunzio a raccogliere alcune energie, poi l’ Espresso di Benedetti (un no sofferto a un posto in redazione) e poi di Scalfari (a Voghera smilzo trentenne, già oratore mitico, più interessato alla bonazza locale che all’elettorato); e infine, lombardissimamente, Il Giorno. Merito di un articolo sulle mondine che portò al “tu” con il già mitico Italo Pietra.
Milano prende quota nei ricordi verso la duecentesima pagina. Prima è scenario occasionale. Il “Cittadino” vogherese è il campo di battaglia. Cronacaccia e sogni, con in municipio – per un po’ – “uno dei nostri”, quell’Italo Betto per cui ancor’oggi c’è qualche parola di reverenza. Alla direzione gli succederà un giornalista che farà strada, Peppino Turani. Camilla Cederna al centro dei ricordi del giornalismo del tempo. E nelle ultime pagine del libro affiora un’intera generazione di firme, da Bocca a Monelli, da Todisco alla Livi.
I “vitelloni” sono metafora dell’Italia provinciale e felliniana che ha messo Rimini in antologia. I “giacobini” sono i figli di una generazione politica che deve ancora fare i conti con le ideologie (i fatti d’Ungheria sono lo spartiacque del racconto) ma che – per letture, smaliziamenti, contaminazioni goliardiche e intuizioni anticipatorie – sente anche l’esigenza del pragmatismo innovatore. Compagni di cordata poi Carandini, Pannella, Mombelli, più segnati dal liberalismo di sinistra che dalla disputa sul leninismo. Il nucleo laico alla fine approdò al PSI (rispetto alla cui vicenda questo libro si aggiunge ad una certa letteratura sulle radici culturali del post-frontismo). Ma stiamo parlando anche della preistoria del PSI di cui hanno memoria gli italiani.
Emiliani scrive di appassionarsi alle colonne di Mondoperaio, quello firmato da Panzieri e Libertini. A buoni conti il tratto generazionale sta in tre cose distinte non tutte oggi resistenti: crescere nelle relazioni di gruppo, credere nel giornalismo di inchiesta, pensare che la radice locale sia un buon posto per cambiare il mondo. Il grande giornalista (che negli anni ottanta dirigerà Il Messaggero e più di recente siederà in consiglio di amministrazione della RAI) stempera la storia con battutine lombarde che sono un racconto nel racconto, cede qui e là alle sue passioni (come la lirica) e ricorda a tutti che Milano era la capitale morale d’Italia. Già.
Vittorio Emiliani – Vitelloni e giacobini – Voghera-Milano tra dopoguerra e boom, pagg. 281, Donzelli, 2009.