Il galateo delle istituzioni (trascrizione integrale relazione “Comunicazione e Cerimoniale”)
E’ stata effettuata la trascirzione della relazione (testo integrale) tenuta in apertura del convegno
su “Comunicazione e cerimoniale” (Consiglio regionale del Piemonte, 25 ottobre 2010).
su “Comunicazione e cerimoniale” (Consiglio regionale del Piemonte, 25 ottobre 2010).
Il galateo delle istituzioni come codice recitativo [1]
Stefano Rolando
(Università IULM di Milano)
Il libro degli arcani
Buongiorno a tutti. Saluto chi conosco da molti anni come il mio amico Renato Cigliuti, Edy Cardini, Paolo Pietrangelo e altri e chi ho comunque frequentato nel corso di esperienze passate nelle istituzioni prima ancora che nell’università. Quando vedo una sala occupata interamente da cerimonialisti sento qualche brivido perché immagino che ci sia un ordine nella organizzazione dei posti e quindi guardo con simpatia in particolare chi siede negli ultimi posti perché mi pare siano coloro che si considerano fuori da ogni e qualunque potere, perché altrimenti non avrebbero occupato gli ultimi posti, quindi li saluto per primi. Non posso non salutare per primi anche chi è in prima fila perché in un convegno di cerimonialisti si sa che una prima fila ha un valore formale.
Io di cerimoniale nella mia vita non me ne sono mai occupato, nel senso che non ho mai gestito un ufficio del cerimoniale. Ho avuto, facendo il Direttore Generale nelle istituzioni per molti anni, uffici del cerimoniale che hanno lavorato nelle aree di cui io avevo competenza e, forse, il laboratorio più interessante che ho avuto a disposizione per ragionare sulla problematica del cerimoniale è avere visto i miei colleghi del cerimoniale al lavoro quando ero il Capo del Dipartimento di informazione a Palazzo Chigi. Il mio ufficio era una specie di fabbrica di prodotti comunicativi rispetto a quello del Cerimoniale che invece gestiva all’interno di Palazzo Chigi una sorta di libro degli arcani. Erano appunto – come le ha chiamate poco fa il Presidente del Consiglio Regionale – le regole di un “galateo istituzionale”. Ho conosciuto almeno tre generazioni di alti cerimonialisti, di specialisti di questo mestiere: il mitico Prefetto Giovanni Bottiglieri che credo fosse li dai tempi di De Gasperi e io ho fatto in tempo a conoscerlo: un capo non rigido, noto per la sua nonchalance nel gestire però regole ferree. Ho conosciuto e direi che ho lavorato per anni con il suo successore che è stato Massimo Sgrelli; che da poco ha lasciato l’incarico, e poi ho conosciuto la terza generazione dei collaboratori e successori di Sgrelli. Senza il libro che lui mi ha regalato nel ’98, un vero e proprio manuale del cerimoniale, io non avrei imparato delle parole che sono straordinarie. Senza il libro di Sgrelli non saprei per esempio che esiste la sfragistica. Ora invece so che esiste. Presidente lei non sa che esiste la sfragistica vero? Devo confessare che nemmeno io sapevo che cosa fosse la sfragistica. Dai tempi di Ludovico Muratori è la scienza che studia la forma, il valore e l’uso dei sigilli. Quindi siamo all’interno dell’interno, dell’interno di un sistema di specialismi. tra l’altro, lo ricordava Paolo Pietrangelo, la Conferenza dei presidenti delle assemblee regionali se ne è occupata in chiave territoriale in una fase in cui attorno ai puti presidiati dal cerimoniale si giocava una partita “politica” .
Questo accadeva in un momento in cui non era un caso che il tema del posizionamento formale delle autorità nel quadro delle cerimonie non fosse un problema astratto; ma si collocava dentro un periodo di forte battaglia giuridica, politica, istituzionale sul problema degli equilibri di potere tra legislativi e esecutivi. Ho motivo d’immaginare che questa battaglia sia poi stata perduta. Nel senso che il famoso assioma di Giuliano Amato che “poteri e contropoteri hanno lo stesso potere” mi è parso che non si fosse così radicato nella vicenda istituzionale italiana. Nell’interpretazione che il sistema regionale italiano ha dato sul rapporto tra esecutivi e legislativi, credo che sia rimasto un problema aperto: appunto la questione sull’equilibrio dei poteri. Ma a un certo punto – e lo dico per esperienza – ho visto che quella battaglia si è interrotta nel senso che nel sistema regionale italiano poteri e contropoteri erano divenuti intenzionalmente diversi, avevano intenzionalmente diverso potere. La personalizzazione, la governativizzazione del sistema regionale è stata interpretata in Italia in un modo che ha fatto drizzare i capelli a molti filosofi e studiosi della cultura democratica equilibrata. Mi ricordo un bellissimo articolo di Ralf Dahrendorf che spiegava perché se il sistema dei legislativi non ha pari poteri di controllo rispetto al potere esecutivo saltano gli equilibri politici e quelli tout court democratici. E’ un discorso aperto a cui il sistema degli eletti, non solo nelle Regioni ma credo anche nelle Province e nei Comuni, non reagisce più e noi abbiamo per questo dei rischi grossi. A un certo punto il cittadino non riesce più a capire perché si pagano tutti questi stipendi agli eletti che non riescono a gestire fino in fondo il loro potere/dovere di controllo e perché sono a rimorchio in realtà delle politiche degli esecutivi. Proprio ponendo il problema politico si capiva il perché era importante anche verificarne in concreto gli aspetti formali. Quelli nel posizionamento nelle cerimonie non erano dei problemi astratti, erano dei problemi connessi al modo con cui si risolveva un problema, un nodo politico. Che si dica “problema aperto” è sempre bene in questo Paese. Per ragioni politiche, che non hanno a che fare con una interpretazione del ruolo delle istituzioni, che in questo momento sia ripresa una certa dialettica per lo meno a livello nazionale tra legislativo ed esecutivo io credo che questo faccia bene alla democrazia italiana. Quindi non svolgerò delle riflessioni all’interno del problema “tecnico” di cui chiunque qui è più esperto di me perché ci saranno relazioni sul tema; ma credo che se mi avete chiamato – io insegno Teoria e tecniche della comunicazione pubblica e mi occupo da 25 anni di comunicazione istituzionale – non è per parlare tanto del cerimoniale ma soprattutto della cornice del sistema comunicativo e relazionale che rende il cerimoniale un problema sensato, un problema connesso, un problema funzionale. Oppure no, lo rende un problema non connesso, non sensato e non funzionale e cioè quella cornice relazionale che obbliga qualunque istituzione ad avere un dentro ed un fuori e ad avere un quadro relazionale tra dentro e fuori che è la parte fondamentale del proprio esercizio di missione. Fra l’altro nel leggere le carte, i libri, i materiali che producono i cerimonialisti s’imparano sempre cose bellissime. In questo quadernetto che è in cartella e che, grazie ai minuti di attesa ho sfogliato, ci sono delle cose stupende: queste relazioni storiche che spiegano come un addetto al cerimoniale deve sapere in tutte le parti del mondo l’usanza formale del mangiare a tavola, non nel tenere la forchetta in un certo modo, che va da sè . La buona educazione mi pare che sia un pre-requisito del cerimoniale: cioè il cerimoniale viene dopo il problema della buona educazione, se cominciamo con la buona educazione siamo finiti. C’è il problema invece delle culture che riguardano la – come posso dire ? – liturgia della convivialità: per cui in certi paesi si deve lasciare per forza qualcosa nel piatto ed è molto maleducato non lasciarla perché l’idea è che se non lo facciamo siamo degli affamati che portano via tutto quello che c’è sulla tavola. In altri Paesi questa usanza non c’è, ma c’è quella di parlare durante il pranzo mentre altrove non si ha il diritto di farlo. L’elenco che c’è nel libretto è gustosissimo perché ho imparato cose che non sapevo. Quindi dai cerimoniali s’impara ma di cerimoniale adesso io tendo ad occuparmene solo “di lato”. Però prima di parlare della cornice e dei problemi che riguardano la cultura di comunicazione istituzionale dentro la quale il cerimoniale prende senso vorrei provare a dirvi gli argomenti valoriali che secondo me fanno del cerimoniale uno strumento importante di un organizzazione pubblica, cioè il presidio di alcuni valori.
- Non me ne vorrete se io ho una lettura della dinamica organizzativa della vita di rappresentanza di un istituzione che si avvicina un po’ all’idea del teatro cioè all’idea di una recitazione: perché noi siamo abituati ormai ad immaginare la politica all’interno di un format che da un po’ di anni ha cambiato i connotati del modo di raccontare la vita politica istituzionale. Sta infatti passando un format televisivo - imposto dal mezzo televisivo – fatto di annunci brevi, sintetici, semplici, tendenzialmente faziosi, costruiti dalla dinamica televisiva come rissosi, a cui è difficile per i politici sottrarsi perché l’accorciamento (30 secondi o poco più) della comunicazione agli elementi essenziali comporta la definizione di un posizionamento e, dentro questo teatrino un po’ violento, è contenuto tutto il modo diciamo semplificato e polemico di raccontare la politica. Questo format si sta imponendo alla cultura comunicativa della politica e anche al modo in cui il cittadino percepisce le istituzioni alla fine del programma. E’ vero che la televisione conta più dei giornali, è vero che entra in tutte le case, è vero che quella televisione è fatta di telegiornali altamente visti; ed è vero che tanto ascolto produce tanti voti; ma il modello è quello e quando si diffonde l’idea che il modello sia quello ogni altra forma sembra banale, secondaria, meno importante. Ma la politica – anche la politica raccontata al cittadino – è sempre stata complessa. E quando dico che è recitazione non voglio dire che sia una commedia, dico che per la grande politica raccontare la politica è sempre stato un po’ come il teatro antico. Il teatro greco che era fatto di senso della tragedia della storia perché non è che si raccontavano le barzellette, si raccontavano cose complesse anche difficili, di solito anche gravi. Se lo concepiamo come una recitazione, con un copione, con una regia, cominciamo a capire che le forme nel sistema recitativo sono tutto, perché non puoi recitare – qualunque parte tu abbia – in un modo sgangherato. I militari lo sanno benissimo perché uniformano sempre tutta la loro interazione a regole formali che resistono. Altrove queste regole formali resistono meno. Nel modo di raccontare le nostre istituzioni al pubblico hanno resistito ancora meno, per cui sta diventando sempre più un segreto, una cosa tra di noi, raccontare formalmente le istituzioni perché l’idea è che si arrivi al cittadino attraverso un altro format semplificato. E’un po’ come fossimo al bar, e siccome al bar si tirano quattro insulti volentieri all’amico, quel modo di raccontare la politica è quello che passa quando la si racconta all’esterno. Ne deriva che il modo formale è più nascosto perché non interessa al sistema mediatico; e quindi noi dobbiamo andare a riscoprire le forme un po’ in controtendenza rispetto alla cultura mediatica che ne ha raccontate altre, ne ha fatte prevalere altre. Ci piaccia o non ci piaccia, siamo di destra o di sinistra, vedo che tutti si stanno uniformando: alcuni con più genialità, altri in maniera più becera. Riflettiamo quindi sul problema del modello rappresentativo delle istituzioni perché li dentro si capisce se il nostro galateo è una storia che ci raccontiamo tra di noi oppure è una storia che deve essere in qualche modo difesa e presidiata perché – tra virgolette – è un “valore”.
- La secondacosa che i cerimoniali presidiano, lo sappiano o non lo sappiano coloro che ci lavorano (ma chi ha esperienza lo sa), è il richiamo alle regole nel rapporto tra interno ed esterno. Cosa vuol dire il richiamo alle regole? Vuol dire arginare l’idea – non voglio dire l’idea democratica della casa di vetro – che l’interno e l’esterno debbano avere aree ombrate, riparate. Quando Berlino è tornata a essere la Berlino che adesso vediamo e conosciamo, dopo la caduta del muro, credo che una delle idee più intelligenti dell’architettura della nuova città sia stata quella di ricollocare il Parlamento togliendogli le mura esterne: Berlino ha un Parlamento che all’esterno non ha le mura, all’esterno ci sono dei cristalli, il cittadino guarda dall’esterno dentro quella casa e vede la gente che passa, che gira, che va, che si siede, che entra negli uffici, che parla. E’ la più esplosiva forma che sia stata inventata per segnalare la dimensione trasparente delle istituzioni. Se poi la signora Merkel con il capo dell’opposizione vogliono dirsi qualcosa di riservato lo possono fare lo stesso, ma l’idea formale non mi sembra banale rispetto al significato dell’istituzione. Il problema del rapporto delle regole tra dentro e fuori è un problema che esiste. Lo dico anche per una forma di educazione del ceto politico all’uso dei palazzi, che non è l’uso di casa tua. A casa tua non ti verrebbe in mente di spegnere la sigaretta nell’ascensore o nel corridoio mentre, a volte, quando la gente si trova nel “pubblico” pensa che si possa schiacciare il mozzicone di sigaretta nell’ascensore o nei corridoi. Per prima cosa quindi c’è problema della casa di tutti e poi che quella casa di tutti ha delle regole un po’ particolari. L’uso dei palazzi non sta solo nel fatto che c’è bisogno di un pass per entrare oppure si fanno entrare senza formalità “gli amici degli amici”. Non vige questo pressapochismo: entrano le persone funzionali all’interazione con le funzioni e missioni del palazzo. In qualche modo il cerimoniale ha un suo presidio sul problema delle regole e dell’azione tra dentro e fuori; e io penso che il sistema dei “lasciapassare” debba essere regolato dai cerimoniali e non dalle intendenze di palazzo. Sarà una battaglia persa dai cerimoniali questa, ma non è banale. Il richiamo alle regole nel rapporto interno ed esterno è un altro grande tema valoriale.
- Il terzo tema valoriale, il più importante, è che il cerimoniale in qualche modo presidia la dimensione simbolica dei poteri e dei palazzi connessi alla gestione e all’esercizio di quei poteri. Codici antichi e, in alcuni ambiti ancora oggi, nodi essenziali antropologici prima ancora che formali. Oggi questa storia della dimensione simbolica è qualcosa che sta riprendendo piede pesantemente. Permettetemi una piccola digressione: non c’è più un azienda che funziona oggi sul mercato, che produca nel manifatturiero o soprattutto nel sistema dell’economia immateriale (prodotti di consumi avanzati) che non sappia che il suo brand vale più del suo prodotto. Già, per alcune aziende di vecchia manifattura, come la FIAT per esempio, il brand conta molto, più del suo prodotto. Tanto è vero che in queste aziende c’è una persona che si occupa solo di fare brand equity, cioè di fare rivalutazione continua del valore del brand. Figuratevi in aziende moderne che producono moda per esempio. Cosa conta in Armani il brand o il vestitino? E’ evidente che il brand è tutto e che il sistema aziendale è sempre più orientato a presidiarlo in maniera forte in tutto il suo valore simbolico. Ma attenzione, il brand non è un segno grafico: è uno scrigno che racchiude una lunga storia sedimentata di senso simbolico rappresentato da quella parola per cui se tu dici Torino evochi un brand che ha certi significati. Vedi la barba di Cavour, vedi i baffi di Vittorio Emanuele, senti palpitare il Risorgimento, pensi al Museo Egizio. Ti vengono in mente cinquanta cose simboliche dentro quella parola e ti scattano tutte le associazioni possibili che sono contenute nel valore di quella parola. Amministrare il brand di Torino francamente è più facile che amministrare il brand di Partinico, perché il sindaco di Partinico deve superare un po’ di stereotipi se vuole parlare del suo brand come io ho visto fare a certi sindaci di paesi mafiosi con un coraggio straordinario dicendo: “no, io adesso sono qua e voglio tentare di rivalutare il mio Comune perché questo devo fare: prendere il brand della mia città e ridargli dignità”. Vasta e complessa missione quella di rimuovere gli stereotipi che stanno attorno ad un brand deficitario. Straordinario lavoro quello di stare dentro il presidio di un brand che vale nel cuore della gente perché che ci si identifica e il potere identitario, aggregativo di un brand per chi vive dentro una dimensione territoriale è fondamentale. Lo è anche per chi non conoscendolo lo desidera, è diventato un indicatore economico. Sapete qual’è la città che nel mondo in questo momento ha il valore di immagine più alto? Un mio amico inglese, bravo professionista, Simon Hinolt, fa tutti questi ranking, cioè le graduatorie, mi dice che in questo momento nel mondo la città che ha il valore più immaginario e quindi il valore simbolico attrattivo più alto, anche se non indovineremmo mai e ci verrebbe da pensare a Londra, Parigi o New York, è Sidney. Lo so che avreste voluto che dicessi Torino, ma non è Torino. Io son rimasto sbalordito perché appare evidente che, in queste cose, conta un alto potere attrattivo semplificato e altamente iconizzato. Ora ci sono delle città al mondo che sono riuscite a fare la semplificazione e la iconicità in maniera straordinariamente brillante, Sidney è una di queste e sul mondo anglosassone ha avuto una grandissima presa. In più nel panorama internazionale la gente non dice New York perché il mondo islamico non vuole New York; Londra e Parigi si fanno la guerra e Roma è quarta. Tutto questo per dire che dentro il presidio alla dimensione simbolica sia del valore delle istituzioni, dell’esercizio del potere connaturato a quella istituzione, c’è un lavoro che qualcuno deve fare. Nelle aziende c’è il management e ci sono persone a dedicate; nelle istituzioni non c’è nessuno dedicato a questo. I cerimoniali si candidino al lavoro attorno a questo tema perché non è banale, è un pezzo di valore aggiunto per le relazioni tra l’interno e per l’esterno. La recitazione, il racconto, per l’istituzione è una cosa importante. Una delle cose che dobbiamo’imparare a non fare è di lasciare ai media di essere l’unico luogo di questo racconto perché nel momento in cui i media diventano l’unico luogo che racconta la vita di un istituzione ci siamo messi nelle mani di un sistema dove si crede di avere tanti amici, dove si crede che ci facciano tanti piaceri, ma in realtà il modo di gestione della notizia da parte dei media è legato al trattamento della patologia. Perché un giornale tratta 5000 notizie al giorno e ne pubblica 500. E’ evidente che scarta il 90% di notizie, non può fare altro. Cosa scarta? Scarta tutte le notizie che riportano fisiologia e tiene in gran parte quelle che riportano patologia e su quello costruisce il teatrino. La regola è quella! Non si può rifare la testa ai giornalisti perché il loro mestiere è quello. L’idea comune e dunque che i media siano l’unico luogo di racconto dell’istituzione. E’un suicidio, è difficile organizzare altri luoghi di racconto ma uno intanto sa che il palazzo stesso, la sua vita, le cose che avvengono tra dentro e fuori sono un modo di racconto, anche se parziale. E non si deve andare tutti i giorni a “Porta a porta” per parlare della vita tua. Ci sono anche luoghi piccoli, c’è anche la hall del tuo palazzo che conta, conta per 400 persone ogni giorno e deve essere esemplare quel luogo di recitazione. Qualcuno ci deve pensare al modo con cui esso viene gestito. Io mi ricordo che a Palazzo Chigi Andrea Manzella, quando era Segretario Generale diceva che ciò andava chiamato “la cultura della casa”: era una bella espressione perché la cultura della casa era la modalità con cui qualcuno presidiava le “regole”. Regole che andavano dalla pulizia, ai pass, agli spazi, dai rapporti tra dentro e fuori ai movimenti del Capo. Il complesso della forma e delle regole che muovono il palazzo nel suo insieme, nelle relazioni tra interno e esterno. Questo considerava Manzella, una parte di gestione di un cerimoniale, un aspetto professionale. Ha detto poco fa Pietrangelo: “avrete un 2011 di lacrime e sangue! tagliano la spesa anno per anno, tagliano da tutte le parti”. Tagli alla spesa ne vediamo dai tempi di Quintino Sella, non è che ci fanno una paura straordinaria. Ogni anno si taglia la spesa e dovremmo essere arrivati a sotto zero, ma attenzione: il taglio della spesa nell’area che ci interessa penalizza soprattutto i prodotti di comunicazione, ma valorizza il non costo dell’attività relazionale. Cioè, è evidente che l’attività relazionale è destinata a supplire alla caduta d’investimento sul prodotto. A un certo punto ci saranno anche i licenziamenti – come sta facendo ora David Cameron – però nel frattempo, salvando un po’ il personale, tu lo impieghi o lo reimpieghi. E’ ora che le istituzioni scoprano che il sistema relazionale, presidiato in maniera professionale e intelligente, investito, funziona. Ho fatto l’esempio della cura del palazzo, per dirne una, ma ne potrei farne altri cento sulla relazionalità. Con il mondo della scuola voglio averlo o no un rapporto? Se lo vuoi avere prendi tre persone intelligenti della tua organizzazione, le metti a lavoro e vedi quanto ti rende investire la tua istituzione, vedi quanto conta fare e quanto cerimoniale ci sarebbe dentro. Non lo vuoi fare, non ti interessa, pensi che l’unico problema sia andare sui giornali? Chiudi tutto, tieni solo l’ufficio stampa e non se ne parla più! Ma la politica che pensa questo è una politica suicidaria, per se stessa suicidaria, perché in realtà il primo giorno si becca il soffietto convenuto, il secondo l’articolo di convenienza, il terzo viene massacrata. E’molto meglio che, per tempo, si faccia un lavoro programmato e precostituito di attività relazionale che porta consenso nel momento in cui ti apri, ti fai vedere come sei, migliore di come ti sei raccontato nel solito rissoso dibattito televisivo. Ecco, se noi chiudiamo il problema del cerimoniale al problema del posizionamento delle autorità nelle cerimonie e non lo mettiamo dentro questa serie di questioni noi perdiamo di vista il contorno strategico della funzione. Io so benissimo che il Presidente del Consiglio Regionale si scoccia quando, eletto a capo di un Assemblea, in occasione di un evento – per come sono sistemate oggi le cose nelle Regioni – quasi non viene nemmeno riconosciuto. Viene spogliato delle sue caratteristiche personali e lo mettono in terza fila, no! Si arrabbia e vuole che qualcuno, per tempo, dica “io sono qua a rappresentare tutti gli eletti e quindi tutte le componenti di un pluralismo istituzionale e se non c’è la prima fila me ne vado ma non perché sono una primadonna ma perché la intendo così”. Diciamo che se tutto avesse funzionato, se quel palazzo si fosse raccontato in una maniera giusta, se i rapporti con il sistema fossero stati ampiamente relazionati, se la scuola ti conoscesse, i bambini avrebbero parlato di te a casa. Potrei andare avanti per un ora a dirvi che cos’è il “sistema relazionale”. Ma il problema di dover discutere sulle precedenze non esisterebbe nemmeno perché una cosa che serve, che esiste, che è radicata, che ha a che fare con la società viene riconosciuta; e quindi il problema del posizionamento delle autorità ne consegue non ne precede. Io la vedo così, quindi leggo il problema del posizionamento non come una battaglia estrema fatta un minuto prima che arrivi il Presidente, ma una battaglia piana, intelligente, calma, predisposta, fatta un anno prima che il Presidente arrivi perché quella è quella che da i risultati. Così, il cerimoniale è visto come presidio dei valori simbolici della rappresentanza e della rappresentazione del potere, non come una segreteria behaviorista del comportamento delle autorità. Va considerato poi che uno può essere un operaio, nemmeno con grande istruzione e grandi modi, ma essere eletto dal popolo e avere bisogno di qualcuno che lo aiuti. Non tutti nascono “imparati” e la politica deve rispettare qualunque tipo di cultura conosciuta dal popolo elettore. Di conseguenza che ci sia all’interno un efficace strumento al servizio del miglioramento del comportamento delle autorità non è banale, è un provvedimento di sensibilità al miglioramento. Più i politici sono saggi, più sono coscienti dei loro limiti, più li ho visti – anche molto in alto – rispettosi di quello che viene loro dedicato. Quando chiedono una cosa vogliono sapere com’è esattamente, senza far squillare mille telefoni, per far sapere che sono importanti, ma ascoltando, per capire di cosa sta parlando la persona che hanno davanti. Più li ho visti piccini più li ho visti pieni di telefoni. Ti fanno aspettare per ore senza poi prendere le cose che hai preparato per loro, fanno finta di saperle e invece non le sanno. Ho lavorato per dieci Presidenti del Consiglio, signori di varia taglia e peso, ma anche di esperienza, e li ho sentiti dire spesso: “fammi capire” Vi racconto una storia di uno di loro. L’ultimo o il penultimo anno che ho lavorato a Palazzo Chigi mi sono occupato della gestione della comunicazione del G7 a Napoli e il primo Governo Berlusconi era appena arrivato. Sulle forme lui non è proprio esemplare, la politica delle pacche sulle spalle la conosciamo e sappiamo che ha dei vantaggi e degli svantaggi. Non voglio entrare nel merito, ma parlare di una cosa di dettaglio sul rapporto con la capacità della struttura amministrativa di dare dei consigli sui comportamenti. Quando Berlusconi capisce che il G7 è alle porte non c’è tempo di darsi un’altra dimensione, lui non poteva studiarsi la storia del mondo in dieci giorni, allora gli abbiamo detto: “presidente lei affronterà la sala stampa in chiusura del G7 e ai 300/400 giornalisti accreditati non gliene può importare di meno che lei sia arrivato l’altro ieri; loro vogliono sapere da lei, a capo dell’evento, quello che pensa su tutte le criticità mondiali: cioè, si alza uno e le chiede della Polonia, uno della Bosnia, un’altro le chiede del Burundi e lei non può non rispondere. E’inutile che lei pensi di risolverla con la battuta di simpatia. Se in quella conferenza stampa finale lei buca le dieci domande sulle criticità del mondo il G7 è andato male”. Allora lui, per prima cosa, ha messo a capo della sala stampa, non il suo addetto stampa abituale, ma ha messo un “numero uno”. Seconda cosa, ha detto: “ditemi cosa devo fare” e, con tutta franchezza, cosa fa un tecnico del mestiere? Gli dice: “guardi, l’ANSA fa per noi un dossier di cento pagine con la sinesi di tutti i problemi e le criticità del mondo; lei ha tempi stretti provi a studiare il dossier”. Lui se l’è imparato non so se a memoria, ma certo piuttosto bene, in una notte;: è andato al G7 rispondendo su tutto e io mi ricordo che Rodolfo Brancoli – che poi sarà l’addetto stampa di Prodi, quindi un giornalista che gli era avverso – fa un editoriale su Corriere della Sera dicendo “tanto di cappello” perché si era studiato tutto il dossier e aveva risposto a tono. E’ importante avere una affidabile struttura che ti aiuta nei comportamenti, avere un collaboratore che non è uno scocciatore e nemmeno uno yes man ma uno che quando sbagli te lo dice e tu lo ascolti. Ho visto tanti politici capaci di ascoltare, di cambiare, non perché questo sia il potere della burocrazia, ma perché un burocrate competente qualche volta ti salva la vita. Bisogna viverla però questa problematica, da una parte e dall’altra, e farla funzionare. Ecco, un cerimoniale che funziona così non lo mettiamo fuori, slegato da tutto il resto del “sistema del fare”. A questo punto lo mettiamo dentro e speriamo che ci sia un alto dirigente, un Segretario Generale, un Direttore Generale capace di fare i raccordi per gestire l’U.R.P., il sito, lo sportello per le imprese, i public affairs. Cose complesse, sistemi di aziende che arrivano per modificare la tua decisione. Come arrivano? Con quali dossier? Con quali carte? Con quali format? In quale modalità di rapporto? Dentro le audizioni o nei rapporti privati? Una istituzione ha il dovere di star dentro a questo tipo di interazione, naturalmente in una visione generale che deve avere forme e regole. Quindi il cerimoniale deve esser parte di questa cosa e se non lo è finisce che si occupa solo della seggiola del Presidente e questo non va bene! Vuol dire prendere delle culture formate radicate con dentro storie e buttarle via, alle ortiche, perché il capo ufficio stampa la pensa in un altro modo. Ma chi se ne frega di quello che pensa il capo ufficio stampa! Il modello organizzativo deve essere tale da tenere in relazione i comparti relazionali, da tenerli in connessione perché così uno fa prodotto e uno fa regola, uno agisce e uno riesce a convincere il capo. E’ quello il comportamento da adottare.
- Aggiungo due altre riflessioni poi chiudo. Prima cosa siamo in un Paese tendenzialmente e cattolico: il che vuol dire che da noi le cerimonie importanti sono le cerimonie sacre, come i funerali per esempio. Quando muore una persona importante è evidente che si va in Chiesa, c’è il feretro, il cardinale dice delle cose, tutti piangono. C’è questa orrenda abitudine di applaudire, ma ormai non si riesce ad evitarlo. Pensate invece al silenzio come valore comunicativo rispetto all’applauso, ma lasciamo perdere. Girando un po’ il mondo, quello che ti da un po’ di magone è la mancanza di cultura della cerimonia laica che è una cosa importante in tutte le dimensioni istituzionali. Non voglio svilire il momento della cerimonia religiosa, ma la cerimonia laica è fatta di comportamenti in cui tutto conta: la parola, il silenzio, il modo, il tono. Sarà perché io ho dei militari in famiglia, ma penso che sia rimasto solo da loro il luogo di presidio di certe forme nelle cerimonie laiche. Solo che sono laiche fino ad un certo punto, perché in qualche modo c’è dentro la specificità della cultura militare, una cultura molto gerarchizzata che ha senz’altro il suo valore. Una cerimonia laica istituzionale, per sua natura è democratica, è aperta a tutti, non ha il problema della prima fila e della seconda fila, non ha il problema dei sentimenti, né delle precedenze. E’solo una cerimonia laica democratica, fa parte di una invenzione borghese, la troviamo dalla Rivoluzione Francese in poi ma forse l’avevano già inventata i romani. Allora il problema del presidiare la cerimonia laica non in alternativa alla cerimonia religiosa ma in completamento: nel senso di dare senso e forma alle cose istituzionali è importante. Qualcuno se ne vuole occupare? Qualcuno ha la cultura per occuparsene? In conclusione, dopo aver approfondito tutti gli aspetti tecnici dei cerimoniali, è necessario collegarli alla modalità con cui il cerimoniale è inserito nel sistema complesso del rapporto tra alta amministrazione e politica quando trattano la questione della relatività istituzionale. Io temo che siamo in un brutto periodo e, lo dico ormai fuori da responsabilità istituzionali e da professore universitario, vedo che la qualità della modalità della relazione formale tra istituzione e cittadino è peggiorata, vedo che la capacità negoziale dell’alta amministrazione rispetto alla politica è addirittura scesa a dei livelli che considero - parlo della mia categoria – indecenti. Cioè l’effetto di spoil system o altro ha creato oggi nell’alta dirigenza una sostanziale incapacità di confrontarsi. Io ho il sereno ricordo di aver “litigato” con tutti i miei presidenti, Renato Cigliuti mi intende, nel senso di negoziare da un punto di vista responsabile, come fa tutta l’amministrazione europea. In Italia invece si è entrati in una apnea silenziosa e questa cosa secondo me è un punto di criticità fortissimo per servizi che vengono fortemente impoveriti per questo.
- Bisogna da ultimo stare attenti ad alcuni fenomeni. Secondo me :
– Che non si sposti tutto il luogo della rappresentazione sui media.
– Che si lavori sul problema della cultura istituzionale del ceto politico e che tutto il sistema non sia organizzato come era prima della legge 150, cioè tornare alla pura autoreferenzialità, ma si cominci a capire che il problema centrale oggi della comunicazione è che la società sia dentro il sistema. Mi ha fatto impressone sentire di recente l’ex Presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida dire: “beh sarebbe venuto il momento che la società civile si riappropriasse delle istituzioni”. Sembravano parole enormi ma se ci pensate è proprio questo il problema, cioè la società civile non si sente più padrona delle istituzioni, pensa che siano occupate da una casta che comprende anche un pezzo dell’amministrazione. Ora la cultura democratica non è questa, è quella che la società civile sente le istituzioni sue e se tu non costruisci la politica relazionale comunicativa secondo questa filosofia, te ne freghi di andare nelle scuole, di parlare all’associazione degli imprenditori, di aprire le porte, di portare i giovani dentro le istituzioni a vivere l’esperienza della democrazia - esperienza che qualunque Parlamento ha fatto - non puoi pensare di cominciare a costruire questo tipo di politica.
– Il punto quindi è essere dentro una relazione fruttuosa tra l’istituzione, che svolge un compito, e al tempo stesso dentro la democrazia rappresentativa ma anche dentro la democrazia partecipativa. Per raggiungere lo scopo si deve riconoscere che da una parte vive il principio della rappresentanza e dall’altra parte deve vivere il principio della interazione. E siccome oggi l’interazione è ampia – e la tecnologia la permette addirittura in tempo reale – e anche co-decisoria. E’evidente che il sistema relazionale, cerimoniale compreso, deve sentirsi nella missione di tenere aperto il rapporto con la società. Il rapporto oggi non si apre come una bottiglia gettata nel mare. Quando apri la porta, non è che esce solo il Presidente, entra anche il cittadino e, vivendola così, tu rimetti in tiro quell’istituzione rispetto all’equilibrio di appartenenza. Allora, il cittadino ti sente come tuo e si sente appartenente. Qui io ho il dubbio che i cittadini che sentono le istituzioni come propria appartenenza siano la metà della popolazione – perché noi abbiamo mezza Italia che è organizzata da poteri non istituzionali, e lo dico con enorme dolore, ma lo vediamo tutti i giorni, ci sono intere parti del paese in cui non è il quadro istituzionale padrone del territorio. Per quale ragione se il mio lavoro me lo da la ’ndrangheta, la mia prospettiva di vita me la da l’organizzazione familistica locale, il mio matrimonio me lo organizza il padrino, mi deve importare delle istituzioni. Ma che cosa me ne importa a me del Parlamento? della Regione? Neppure i sussidi mi interessano. Allora questa è una patologia! Siamo in Piemonte, non ne parliamo nemmeno. Però è il valore complessivo delle istituzioni che dobbiamo ricercare anche attraverso le forme e quindi attraverso una modalità formale diversa distinta: il rapporto di entrata e di uscita e quindi di scambio con il cittadino a tutti i livelli. Il cittadino è la signora Maria ma è anche un ragazzino di dieci anni ed è anche la grande impresa ed è anche una associazione di professionisti che quando hanno a che fare con te hanno un livello di domanda molto alta e ti chiedono cose molto difficili. Devi essere molto preparato a rispondere, sotto tutti gli aspetti. Questo fa la differenza! Nel nostro Paese disuguale, che io temo si stia anche avviando verso evidenti forme di rottura, auspico sempre che ci siano forme di tenuta e le forme di tenuta sono quando le regole comuni, le regole preliminari, i valori considerati pre-condizionali sono condivisi. Un buon cerimoniale fa regole normalmente condivise all’interno della casa, ed è già molto. Poi, quando sa anche comunicare, e le regole sono condivise anche dal cittadino, è moltissimo.
[1]Relazione (registrazione e trascrizione dell’intervento live) al convegno promosso da CRP e ANCEP su “Cerimoniale territoriale e pubbliche relazioni”, Consiglio Regionale Piemonte, Corso Stati Uniti 23, Torino, Lunedì 25 ottobre 2010.