Il caso Bondi e l’economia della cultura (Finanza&Mercati, 9 marzo 2011)

Con le modalità assunte dal caso Bondi
si è perso di vista il problema di un moderno indirizzo economico dei Beni culturali in Italia
 
Stefano Rolando
 

La crisi di gestione politica dei Beni Culturali può essere letta come una vicenda personale di Sandro Bondi, ministro forse inadatto e distratto. Ma dal momento che essa è stata anche oggetto di una operazione politica di “spallata” arenatasi – insieme alla più generale spallata contro Berlusconi – per mancanza di numeri, il caso Bondi ha assunto valenza emblematica  delle prove di resistenza del governo. Mettendo in secondo piano il dibattito su un profilo ministeriale che quella crisi di gestione stava mettendo in modo più utile al Paese in evidenza. Intanto passa il tempo. Bondi dichiara la propria disaffezione al Collegio Romano, sede del dicastero, e rimette la sua uscita al momento politico in cui la maggioranza potrà fare rimpasti – se li potrà fare – senza aprire risse e ulteriori ferite. In tutto questo può crollare Pompei, può uscire sconfitta la linea del Piave del budget per la cultura, può ritardarsi all’infinito la messa a punto di una politica economica generale sul rapporto beni culturali e fruizione culturale – che sarebbe strategica per l’Italia – perché questa, come altre vicende, tende a dimostrare che il teatro della politica ha il suo copione;  e quello del funzionamento delle istituzioni in rapporto ad attese e bisogni della società e dell’economia ha un altro copione.
Solleviamo il tema su un quotidiano economico-finanziario partendo da un’esperienza interrotta. Quella che chi scrive ebbe come consigliere per le relazioni con il sistema d’impresa del precedente ministro per i Beni e le attività culturali Francesco Rutelli. Mi limito a qualche spunto che potrebbe interessare il sistema di impresa. L’approccio che Rutelli cercò di innescare nella gestione di quel ministero riguardava l’insufficienza – per l’Italia e per la sua competizione - di un profilo dell’Amministrazione orientato più al patrimonio (salvaguardia) che alle attività connesse al patrimonio e soprattutto alla proiezione moderna di quelle attività, cioè il campo della creatività culturale. Da qui la creazione di un comitato di saggi in materia di economia della cultura, con nomi di prestigio; l’orientamento a creare connessione tra cultura e sistemi tecnologici (con un progetto finalizzato al medio termine gestito a mezzadria con lo Sviluppo Economico destinandovi un tecnico di valore come Andrea Granelli); il varo di una commissione di indagine sull’economia della creatività in Italia (presieduta da Walter Santagata, con membri di chiara fama e coordinata da chi scrive, che consegnò il suo rapporto (edito dalla Bocconi come Libro bianco sulla creatività in Italia) stimando in circa il 12% del PIL l’articolazione dei dodici settori di questa trasversalità; insediando infine a Milano il Consiglio nazionale del design, dando finalmente “casa” a un mondo importantissimo della connessione tra creatività e impresa soprattutto per il nord Italia e Milano in particolare. Scopo generale di questa tessitura sarebbe stato quello di cambiare nome e disegno stesso al Ministero orientato a diventare Ministero per la Cultura e la Creatività. Il cambio di governo ha azzerato tutti gli effetti di questo lodevole indirizzo, lasciando solo al presidio di un dirigente, Mario Resca, il compito di tenere aperta la connessione – più che altro per musei e spazi espositivi – tra patrimonio ed economia. Ecco perché il caso Bondi – in cui si sarebbe potuto registrare un profilo di inadatta collocazione trovandosi per tempo soluzioni adeguate a bisogni e attese – è diventato tutt’altra cosa e ha ulteriormente fatto ritardare l’analisi e la soluzione di una gestione improntata a visione complessiva della indispensabile modernizzazione del settore. Se gli operatori collocati entro quel 12% di PIL potessero essere ascoltati ed esprimersi si sarebbero messi in moto meccanismi meno retorici e meno politicamente strumentalizzati che alla fine significano una parola sola, paralisi. Sulla materia vi è chi ha continuato a lavorare ad analisi e proposte (Astrid, www.astrid-online.it; Associazione per l’Economia della Cultura, www.economiadellacultura.it) da cui ripartire sempre che la politica italiana decida di ripartire da dossier reali uscendo dalla fantascienza.