Il Brasile visto da fuori. Un nuovo approccio al branding pubblico (SP, Livraria Cultura, 18ago2102

ABERJE- ESPM
Livraria Cultura , SP 18 agosto 2012
Novo Brasil: Múltiplas Identidades.O BRASIL VISTO DE FORA.
 
Stefano Rolando
Duas palavrinhas em português, duas…Queria agradecer muito o ESPM, seu presidente; Aberje, seu diretor, convidado aqui em São Paulo que é uma cidade que tem uma certa importância na minha vida. Na primeira vez fui em São Paulo em setenta e sete trabalhando na Exposição de Arte Cultura e Comunicação Italiana para o fundador do MASP Pietro Maria Bardi, um insigne italiano. Convidado hoje per fazer uma pequeña reflexão sobra o tema do branding público entre Itália e Brasil, um tema que eu acho es ser muito importante para a nossa vida identitaria, nossa atividade de relações. Ahora por respeito ao vocabulário e também al tempo eu voi falar em italiano e… spiegarmi con più velocità.
Il tema che mi è stato assegnato è quello di parlare del brand, cioè della ricapitolazione identitaria del patrimonio simbolico che i nostri paesi e le nostre città posseggono. C’è stata molta fortuna nel corso del novecento, dell’ultima parte del novecento del brand inteso come elemento sintetico di comunicazione delle imprese. E ci si è un po’ dimenticati, nella seconda metà del novecento, del tema del brand delle nazioni. Ma questo si spiega perché nel novecento, nella prima parte del novecento, il tema dei brand nazionali è stato oggetto di due guerre mondiali che hanno prodotto cinquanta milioni di morti ciascuna. Avere costruito in maniera stressata, ideologica, un valore simbolico attorno alle nazioni, ha generato molti conflitti, ha generato molti dolori. Ma ha fatto quello che l’umanità ha fatto per duemila anni. Il brand pubblico, infatti, esiste da quando esiste l’organizzazione umana delle società.
Le legioni romane che giravano per il mondo e lo occupavano reggevano i simboli delle aquile imperiali e quando arrivavano a occupare un paese bastava vedere l’aquila imperiale per capire cosa sarebbe successo: erano un segnale di grande potenza militare, ma anche di diritto; cioè, il paese perdeva l’indipendenza ma acquistava la cittadinanza. Un patto, la pax romana.
Non parliamo di cosa è stata per duemila anni la storia dei simboli nella vita delle religioni, di cosa è stato il brand nel cristianesimo. Il brand pubblico ha avuto, insomma, una storia straordinaria.
Ma nel novecento l’umanità, l’umanità soprattutto con potere d’acquisto, quella che può fare shopping, ha preferito il brand aziendale, il brand delle imprese, perché più leggero, meno impegnativo, meno ideologico, più legato ai valori del consumo, tanto che ci sono oggi moltissime imprese nel mondo e molte in Italia, legate, per esempio, alla moda, per le quali il valore del brand non corrisponde esattamente al valore del prodotto, ma al valore immaginario di quella marca tanto che su quel valore si genera un investimento finanziario che produce maggior valore indipendentemente, appunto, dal valore del prodotto. Non è il costo della stoffa di Armani che fa il valore del brand di Armani, è il brand Armani. E questa politica di Brand equity genera fortune finanziarie o qualche volta anche disastri finanziari.
Questa idea del brand di impresa non è la stessa idea dei nostri brand nazionali, tanto è vero che la polemica “pro logo/ no logo” che c’è da molti anni, è una polemica che non riguarda in realtà il brand delle nazioni, perché il brand delle nazioni non ha proprietari, appartiene a tutti, è generato per ridistribuire a tutti i dividendi, tutti hanno un dividendo che viene dal valore del patrimonio simbolico collettivo e soprattutto è il “produttore” di una cosa molto importante per i nostri paesi: l’attrattività.
Attrattività di persone, il turismo; l’attrattività delle risorse finanziarie, gli investimenti; l’attrattività delle buone idee che viaggiano (perché anche le buone idee viaggiano); l’attrattività dei rapporti umani, l’attrattività dell’informazione, l’attrattività della cultura.
Un paese ha bisogno di attrattività perché attraverso la sua potenziale attrattività diventa più competitivo.
I brand nazionali e quelli delle nostre città sono diventati strumenti di identità competitiva. Per questa ragione attorno ai brand nazionali e delle città esistono molti studi, molte analisi, molte ricerche sull’immaginario collettivo mondiale e come vengano percepiti dall’opinione pubblica mondiale l’immagine dei nostri paesi e delle nostre città.
Ora, vedete, l’opinione pubblica, l’umanità, conosce pochissimo ma immagina molto. E quando immagina, immagina in un modo quasi infantile, immagina per icone. La capacità di vedere se, identificato sinteticamente un paese o una città in una,due, tre, quattro icone è la possibilità di riconoscere in quel paese un valore positivo. Al valore positivo corrisponde un desiderio, al desiderio corrisponde una potenzialità attrattiva e l’economia stima che questo sia un valore potenziale oggi più importante delle armi. È chiaro che tutti i paesi vogliono essere attrattivi e vogliono essere considerati bene e non male. Eppure ci sono molti paesi che sono considerati non solo male, ma malissimo; ci sono molti paesi che producono icone negative che sono fuori dai ranking; ci sono paesi che hanno cercato di produrre buona immagine in maniera propagandistica. Ma qui è necessario avere chiara una cosa: il brand non ammette la propaganda. Ci hanno provato tutti i dittatori, tutti i dittatori hanno cercato di costruire un’immagine artefatta, diversa dalla realtà, diversa dal percepito identitario del popolo. Hanno costruito una meta immagine e hanno cercato di vendere al mondo quella meta immagine. Ci ha provato Mussolini restituendo all’Italia l’idea di essere ancora il paese dell’Impero romano; ci ha provato Hitler costruendo sulla cultura di Wagner, di Nietzsche e di un mondo che andava verso una modernità culturale, l’idea di una superiorità razziale e culturale: gli è andata malissimo. Ci ha provato il comunismo realizzato nel mondo dove alla storia, pensate alla Russia, di un paese ricco di colore, ricco di identità nazionale, ha cercato di costruire una nuova immagine monocolore e costruita sulla mancanza di libertà. Tutti i dittatori hanno fallito, perché al fondo un brand nazionale è una verità percepita da un popolo, trasmessa con tutti gli stereotipi che ci sono, nel popolo e fuori, per cui è chiaro che l’immagine è storpiata, storpiata dallo stereotipo. Bisogna farci i conti. Un po’ di anni fa, io fui invitato – come lo fu un mio inglese che è il direttore dell’istituto che fa uno dei più importanti ranking nazionali di studi e di analisi sull’immagine dei paesi (lo fanno anche gli australiani, lo fanno gli americani, ci sono molti ranking e in questi ranking i nostri paesi sono collocati in maniera diversa: l’Italia grosso modo è quasi sempre tra il settimo e l’ottavo posto, il Brasile invece, nell’ultimo ranking è al ventesimo posto, ma è in ascesa; mentre l’Italia settima, ma è probabilmente in discesa, così forse i nostri due paesi si incontreranno….). Dicevo che sono stato invitato dal governo della Romania. Hanno detto: ma perché la Romania, che è un paese che ha fatto grandissimi sforzi per essere moderno, per entrare nell’Unione Europea, per darsi una tecnologia, per organizzarsi, è fuori completamente dal ranking? Simon Hanolt ha spiegato: non è colpa mia, è quello che pensa l’umanità. L’umanità pensa per icone e quando si dice Romania, escono tre icone. La prima icona che esce è quella di Ceausescu. Anche se Ceausescu è morto da vent’anni Ma non si è proposta un’altra icona nella politica e nell’immaginario collettivo così che è rimasto Ceausesku. La seconda icona che esce è quella di Dracula, anche se forse Dracula non è mai esistito, ma nel mondo si pensa che esista. E la terza, purtroppo, è quella degli zingari, quella dei rom. Non ce se sono altre. E quindi malgrado tutti gli sforzi, non c’è un profilo positivo identificabile della Romania nell’immaginario collettivo internazionale. Mi è così capitato di dire ai governanti della Romania che sarebbe stato importante esprimere – nella misura in cui il popolo la considera propria e non è calata dall’alto – una quarta icona. Credo che non sia ancora risolta la discussione su quale deve essere “la quarta icona” e credo così che, anche quest’anno, la Romania sia fuori ranking. Questo ve lo dico perché il dibattito sull’identità nazionale non si può manipolare, deve nascere nel dibattito della società, nella partecipazione di tutto il sistema, fatto di imprese, fatto di organizzazioni sociali, fatto di tradizione culturale, fatto di università e fatto anche di politica naturalmente. Un dibattito che deve trovare il modo di esprimersi simbolicamente.
Un brand è un conflitto di brand. Dentro un brand ce ne stanno tanti in conflitto: qualcuno prevale, qualcuno muore, qualcuno riesce a rappresentare la realtà, qualcuno non ci riesce. Il risultato è quello che noi siamo misurati e sappiamo a che punto siamo della classifica.
Ora che vi ho detto questa cosa per la quale ci sono studi universitari, studi professionali, fattori di misurazione, vi dico brevemente qualche parola su ciò che sta provocando la febbre in tutto il mondo, sulla possibilità di misurare il brand nazionale in occasione di un grande evento.
Questa cosa è in sé positiva, perché il grande evento ha lo scopo di obbligare a fare un racconto di sé, quello che viene chiamato nel gergo lo storytelling, raccontare cioè la propria storia. Però ha anche il difetto che rischia di essere un fine e non un mezzo di un percorso. Non ha senso costruire un brand per un evento. Un paese costruisce un brand per sé, per la sua identità, per la sua storia, per il suo cambiamento, passa attraverso gli eventi e gli eventi lo comprovano, gli eventi lo confrontano. Questa cosa è importante perché, da quando negli ultimi anni ci sono gli expo universali, le olimpiadi, i mondiali di calcio, gli avvenimenti di questo genere, tutti si sentono obbligati ad arrivare col brand a posto, cioè con una immagine “in ordine”. Il brand non è mai a posto, non è mai in ordine, è sempre conflitto, è sempre disordine, è sempre in mutazione. Dentro un’immagine di un paese, di un grande paese, ci sono complessi fattori che – legando storia e presente – fanno vivere e fanno morire storie. Quindi dinamiche complesse.
 
Allora guardiamo tre storie   che sono all’ordine del giorno e introduciamo così il tema del Brasile.
Avete visto tutti l’apertura delle Olimpiadi a Londra. C’è qualcuno ancora che pensa che il brand sia la scritta “London 2012”? Non è quello il brand. Il brand è la storia che gli inglesi hanno raccontato facendo la cerimonia di apertura delle Olimpiadi e organizzando le conclusioni (in cui si è anche inserita una storia di otto minuti del futuro paese olimpico, cioè il Brasile).
Insomma, quattro ore di racconto, sette anni di lavoro, una grande equipe che ha lavorato senza grandi influenze del Governo, senza grandi influenze del Governo, davvero credo senza grandi influenze del Governo. Avete visto che la regina arrivava così, dall’alto in un gioco teatrale che ha dimostrato molto humor. Non so se avete notato che nella cerimonia di chiusura la casa reale inglese doveva essere rappresentata dal principe William, ma William non c’era, c’era suo fratello. Sapete perché? Perché il giorno prima, l’aeronautica militare, la RAF lo ha richiamato in servizio e lui non ha potuto andare alle Olimpiadi. Caro Giovanni Bechelloni – un mio stimato collega universitario che sta qui in platea con mia sorpresa – dimmi se questo è immaginabile in Italia… credo che sia inimmaginabile… non so in Brasile.
Bene, il racconto che l’Inghilterra, cioè la Gran Bretagna ha fatto al mondo è un tipico racconto di brand. Quale è stato il racconto? Raccontare in principio un brand nazionale. Il paese ospitante racconta infatti la sua storia. Quando le Olimpiadi si sono svolte in Cina il racconto è stato molto meno preciso, molto più astratto. Sapete la Cina dice di essere “l’Impero di mezzo”, tra la terra e il cielo; e quindi ha fatto un discorso mezzo in cielo più che mezzo in terra. Gli inglesi sono molto “per terra” e quindi hanno fatto un discorso su fatti concreti della loro storia. Una cosa che può piacere, e che può non piacere. È la storia di un paese che nasce nella felicità agricola, che fa l’evoluzione della rivoluzione industriale come una sofferenza, ma è la sofferenza della conquista del benessere e che genera l’età moderna dentro i conflitti del nostro tempo, tra cui i più tragici, le guerre. È stato un discorso onesto? Io penso di sì. Quello che era importante è che la Gran Bretagna voleva raccontare nella sua cerimonia di apertura il punto di equilibrio tra un brand nazionale e un brand globale: ha scelto duecento pagine della sua storia che appartengono infatti alla storia di tutti, alla storia di tutto il mondo e quindi, pur essendo una storia molto nazionale, era vissuta anche come una storia molto globale. Questo era il punto di approccio culturale a quell’evento.
Bene, potremmo andare avanti a parlare molto della Gran Bretagna, un grande paese colonialista che è stato un grande Impero, che ha realizzato un Commonwealth, che è di per sé un paese globale e parla una lingua parlata da mezzo mondo.
Sarà più difficile per la mia città, Milano, gestire nel 2015 l’Esposizione Universale, l’Expo, dedicata a un tema tipicamente globale: nutrire il pianeta. Qualcuno pensa che questo tema dell’Expo significa “mangiare”. Non significa mangiare, significa dar da mangiare al pianeta che per un terzo muore di fame e per un terzo mangia troppo ed è obeso. Il problema è che non basta scambiare, bisogna cambiare la politica alimentare nel mondo. Qual è il problema dell’Expo? Che l’Expo è fatto da padiglioni nazionali che esprimono – per loro natura – quasi sempre propaganda. E il problema della mia città è che Milano è una città che ha una grande storia di libertà, di diritti e anche una grande storia spirituale, durata duemila anni. E fatica una città così a sopportare che ci sia un esposizione in cui prevalgano contenuti propagandistici su uno dei temi principale del diritto universale, quello dell’alimentazione. Non dico che sarà così, dico che bisogna evitare il rischio che sia così. Quindi la mia città discute con Expo e c’è da augurarsi che questa discussione sia vera e che esprima risultati di rispetto per la storia della città.
Milano è una città come San Paolo, disallineata dall’immagine nazionale, per scelta.
Qual è l’immagine dell’Italia? Il bel giardino, la cultura, l’arte, l’ambiente. Milano ha scelto da più di un secolo di essere la città industriale. Quando io ero bambino c’era un grande quartiere a Milano di cinquecentomila persone, dove c’erano tutte le grandi industrie di Milano. Si chiamava Sesto San Giovanni. Si producva l’acciaio, c’era la classe operaia, c’erano le grandi imprese. Io sapevo tutto di Sesto San Giovanni, sapevo tutto della mitologia operaia di Sesto San Giovanni e non sapevo nulla del Museo di Brera che è uno dei più grandi musei del mondo, dove ci sono anche delle cose davvero importanti che ha l’Italia in materia artistica, ma pochi se ne interessano perché Milano non “deve” essere una città di cultura, deve essere una città industriale. Dopo un secolo, però, non c’è più l’industria e quindi che senso ha tenersi un brand industriale? È arrivata infatti la moda, il design, la scienza, la ricerca, la tecnologia che spingono per entrare di più nel brand della città, ma ancora in termini imprecisi e un po’ pasticciati. Tra quello che rimane del tempo industriale e quello che non è ancora del tutto arrivato della post industria e della creatività. Questa transizione è una verità. Milano è una città creativa ma non è riuscita a mettere ancora ordine nel suo brand. Ha ancora qualche anno di tempo per fare questo lavoro. Ve lo sto dicendo in grande sintesi. E’ chiaro che questo passaggio non si esprime con un segno grafico, è un’immagine che si fa con un grande dibattito pubblico, coinvolgendo la gente a discutere sulla propria identità, a ragionare sul potere della rappresentazione e sul conflitto della rappresentazione.
E veniamo al Brasile: un tema che a me e al mio amico Paulo Nassar interessa molto. Noi lavoriamo su questo tema, il Brasile. Permettete di dire che per un italiano il Brasile è anche un po’ casa propria. Stamattina sono stato al Museo della Lingua Portoghese dove c’è un pannello in cui si vede che dal 1870 al 1930 tra le grandi immigrazioni la più grande immigrazione in Brasile è stata quella italiana. Quindi la più grande famiglia immigrata in Brasile oggi è quella italiana. Si parla di venti-venticinque milioni di persone di origine italiana. Quindi io sento la questione dell’immagine e dell’identità del Brasile veramente anche come un problema nostro, che ci riguarda molto da vicino e siamo molto fieri, molto orgogliosi di vedere il cambiamento straordinario, forse persino un po’ troppo veloce per avere riflessi sulla definizione identitaria. Ma questo cambiamento fa sì che il Brasile, oggi, superata una storia complessa, molto complessa, sta portando a esiti sorprendenti. 
Quando sono venuto a ottobre invitato da Paulo Nassar e da Aberje a tenere una conferenza, quella volta sono andato a vedere il Museo del “futebol” qui a San Paolo. Non so se i miei amici qui in sala sono stati a questo museo, è molto bello, dentro uno stadio anni trenta con tutta la mitologia del football nella cultura antropologica del paese. Da Pelé a Neymar c’è tutto il Brasile. Ma a un certo punto si passa per un piccolo cunicolo e schiacciando per terra si accende uno schermo. Si è obbligati a fermarsi e a vedere un vecchio cinegiornale che fa vedere una partita di calcio. Ti fermi e vedi un pubblico degli anni cinquanta, vestito borghese, allo stadio si andava con le collane, con i tailleur, vestiti in maniera elegante. Era il Maracanã ed era la finale del Campionato del Mondo del 1950. Il telecronista, in maniera compassata, raccontava una partita di calcio che avrebbe segnato definitivamente la gloria moderna calcistica del Brasile. Dopo circa 1 ora, la mezz’ala sinistra dell’Uruguay, mio idolo durante l’infanzia, Juan Alberto Schiaffino, fa il primo goal contro il Brasile. La scena si ferma, in pubblico guarda smarrito. il telecronista con una voce grave dice: – O coração do Brasil está parado. A quel punto la regia, la post produzione fa un elemento di drammatizzazione e la scena avviene d’ora in poi con il battito cardiaco, bum..bum..bum…bum… E a un certo punto, Ghiggia, ala destra dell’Uruguay (altro giocatore molto noto in Italia) fa il secondo goal contro il Brasile. Scene di terrore, pianti e lacrime, comincia la storia della crisi di autostima del Brasile che è durata cinquant’anni. Non è una storia piccola, è una grande storia e al Brasile, quando stava uscendo dalla crisi di autostima, gli è arrivata in testa la dittatura militare. È uscito dopo anni dalla dittatura militare e ha recuperato – grazie a due grandi presidenti della Repubblica che hanno raddrizzato equità ed economia – la sua problematica di autostima. Si candida così ad essere tra i primi cinque, sei, sette grandi paesi al mondo. Noi siamo orgogliosi di questa cosa. E siamo contenti che perderemo il nostro posto in favore del Brasile: penso sinceramente che sia meglio perderlo in favore del Brasile che perderlo in favore della Cina.
Ma, come il Brasile guadagna il suo posto nel mondo? Con la realtà, con la competizione e quindi con alcuni fattori molto precisi. Quali sono questi fattori? Le materie prime, l’oro, il petrolio, la finanza, le infrastrutture, la classe dirigente. Non si diventa quinta potenza al mondo senza classe dirigente. La capacità di costruire una multietnia senza i gravi conflitti che ci sono in America, dove c’è la stessa multi etnia ma fonte di grandi conflitti. In Brasile c’è pregiudizio ma non c’è conflitto grave e quindi la multietnia è un valore. Poi c’è un grande patrimonio ambientale, c’è l’Amazzonia e infine c’è un paese allegro e creativo. Queste sono le ragioni per cui il Brasile diventa la quinta potenza al mondo. Dovrebbe esserci un brand chiaro con questi elementi, con uno, due o tre di questi elementi. No. Nel brand del Brasile, nel’immaginario collettivo nazionale e internazionale, gli elementi sono altri e sono, come è noto a tutti, la samba, il carnevale e il futebol.
Qual è il problema? Non c’è problema! Ci teniamo un brand disallineato dalla realtà, perché è il brand della nostra felicità, è il brand della nostra gioia, è il brand della nostra allegria.
Noi facciamo attrattività con un brand che non è quello con cui noi conquistiamo la posizione al mondo. Si può o non si può? Alcuni dicono che bisognerebbe trovare il modo di fasare brand e realtà. Non si dovrebbe infatti vivere in maniera schizofrenica. E allora si dovrebbe aprire un dibattito ma io questo dibattito, per dire la verità, non l’ho visto ancora davvero aperto. Apro tutti i giorni lo Estado de São Paulo, la Folha de São Paulo, il Jornal do Brasil, O globo, e pur trovando articoli sui temi identitari non trovo ancora questo dibattito. Mi stupisce un po’ che un paese ricco di intellettuali, ricco di studiosi – ho comprato oggi, qui alla Livraria Cultura, questo bellissimo libro di Sérgio Buarque de Holanda, Le raíz do Brasil, ho seguito le cose che scrive il nostro, il tuo amico – caro Paulo Nassar – socio-antropologo, Roberto Damatta, su l’ Estado de São Paulo, è un paese pieno di intellettuali che lavorano sull’identità, ma non si è aperto questo dibattito sul fatto che il paese non dovrebbe presentarsi al mondo nel duemilaquattordici e nel duemialsedici con una realtà così diversa dal suo brand.
Se si aprire il dibattito probabilmente si aprirebbero tre possibili scenari di discussione, attorno a cui concludo il mio intervento e vi rilascio alla discussione futura. Prima ipotesi: ci teniamo un brand disallineato dalla realtà. Abbiamo la forza di essere grandi, adulti e “guerrieri” in senso economico nella realtà ed essere felici e bambini nel brand, perché lì c’è la nostra fanciullezza e la nostra sdrammatizzazione. Lo dico con rispetto e lo dico come lo avrebbe detto Vinicius de Moraes, una fanciullezza non dell’ingenuità, ma della tradizione culturale che sostanzialmente ha seguito una sua storia e non un’altra storia.
Questa è una cosa possiible, ci vuole una grandissima forza, ma vedete ieri ho parlato con operatori professionali della comunicazione di questa città che mi hanno detto: “ma questo dibattito lo deve produrre il governo”. E io ho detto: “no, questo dibattito lo deve produrre la società, lo deve produrre l’impresa, non il governo”. Il governo deve registare il dibattito, ma non è pensabile che un dibattito sul cambiamento identitario lo faccia il governo. Primo problema di modernità: la società è in grado di farlo? L’impresa è in grado di generarlo? Questa è una domanda molto seria.
Seconda possibilità: Il Brasile apre un dibattito sulla sua “quarta icona” e cioè cerca di trovare una quarta icona per accordare le sue icone storiche, in un certo senso di autocompiacimento della sua storia creativa, come elemento di modernità. Cosa sceglie? La multietnia? Oppure fa come la Romania, si mette a discutere se è meglio la sostenibilità o la multietnia, le materie prime o la tecnologia e alla fine non sceglie?.
Qui c’è un rischio. Il rischio è che l’opinione pubblica mondiale che immagina, ma percepisce perché è attraversata dai media, è attraversata dagli stereotipi, è attraversata dall’informazione anche della concorrenza. Il Brasile da fastidio ai suoi concorrenti. Gli intellettuali brasiliani spiegano spesso che la Cina sta per saltare per aria e gli intellettuali cinesi spiegano che il Brasile è un po’ un pallone gonfiato. È evidente che c’è competizione. E non vorrei che, nel mondo, la quarta icona non la scegliesse il Brasile ma la scegliesse l’opinione pubblica internazionale. E lì il Brasile corre un rischio: che la quarta icona sia la violenza. È un rischio, ma c’è nell’opinione pubblica internazionale questa idea e non si è ancora formata in maniera talmente forte da avere lo stesso potere di immagine della samba, del carnevale e del football: la corsa è breve.
Oppure: terzo scenario. Il Brasile apre un dibattito sulle sue múltiplas identidades e se ne infischia delle Olimpiadi e dei Mondiali. Non è importante arrivare per il duemilaquattordici, è importante arrivare a ragionare su questo tipo di tema che è quello delle multiple identità nel profilo locale e globale. Io lì per esempio penso che il Brasile ha uno strumento di immagine fortissimo che non usa molto e che sono le sue due grandi città: San Paolo e Rio, ormai la stessa città, un insieme umano globale che si presenta al mondo in maniera meno feroce di altre città globali e su cui si potrebbe molto lavorare per costruire la quarta icona.

Ma qui il dibattito spetta a voi. E per quel po’ che contano gli italiani in Brasile, un po’ anche a noi. Vi ringrazio per avermi ascoltato