I prefetti nell’età repubblicana. Presentazione libro di Stefano Sepe

Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione
Convegno
Un’elite amministrativa della Repubblica
di presentazione del volume
I prefetti in età repubblicana
a cura di Stefano Sepe (Il Mulino, 2007)
SSPA Aula Magna Roma, 14 gennaio 2009
 
Interventi di Valeria Termini (Direttore SSPA), Marco De Nicolò (Università di Cassino), Giuseppe De Rita (Censis), Stefano Rolando (Università Iulm, Milano).
 
Intervento di
Stefano Rolando
 
Il pregevole testo di ricerca che viene presentato oggi sull’evoluzione del ruolo prefettizio in Italia è costruito su una originale ricerca identitaria, effettuata sui fogli matricolari dei prefetti italiani. Cosa che ha permesso di imbastire un’analisi interpretativa basandosi su preziosi elementi strutturali (la provenienza geografica, gli studi, i percorsi di carriera, la qualità e la tipologia degli incarichi, eccetera).
Insieme a Stefano Sepe – che si occupa delle culture e delle esperienze dell’amministrazione dell’Interno da tempo – vi sono poi i saggi di Laura Mazzone, Giovanni Vetritto e Michele Fianco. Le interviste a dieci prefetti della Repubblica e la presentazione del prefetto Carlo Mosca, completano l’ampio dossier.
E’ la stessa Laura Mazzone a dirci che l’istituto prefettizio viene da molto lontano (il praefectus era un funzionario romano) e che all’atto dell’unità d’Italia la classe dirigente cavouriana scelse alla fine il modello costituzionale francese basato sulla centralità dello Stato e sul ruolo dei prefetti rispetto al modello per il quale pure batteva il cuore di quel parlamento, ovvero il modello federalista, in realtà perché si temeva che all’epoca il controllo del territorio vedesse troppa forza nei preti e nei briganti così da non suggerire per il momento ipotesi di decentramento e di federalismo.
La ricerca di Sepe e del suo team consente quindi di esaminare fatti legati alla formazione di un ceto professionale pubblico e esaminare fatti legati al rapporto tra funzioni e poteri. Credo che altri relatori qui abbiano più autorità e competenza di me per intervenire su questi aspetti. Il mio punto di preferenziale attenzione è quello dello sviluppo di un profilo simbolico circa il ruolo dei prefetti, ovvero quello della percezione identitaria. Innanzi tutto di sé stessi, poi da parte della società italiana e poi del sistema mediatico.
Per fissare un punto alto nella auto-percezione dei prefetti oggi operativi, segnalo una riflessione di Carlo Mosca contenuta nella sua presentazione, che si inquadra tacitamente nel lungo ciclo di crisi e poi di fuoriuscita dalla crisi che il sistema dei prefetti italiano ha espresso a partire dagli anni settanta (con l’avvio del sistema regionale) e che poi si è riacutizzata negli anni novanta nel quadro di un accentuato dibattito sulle riforme istituzionali. Scrive Carlo Mosca: “Bisogna riscoprire le ragioni per cui i prefetti aderiscono pienamente a una cultura istituzionale fondata profondamente e con assoluta indipendenza sulla logica del servizio pubblico e sul senso dello Stato”. Una linea che il prefetto Mosca ha dimostrato di indossare personalmente anche in contesti difficili e delicati e pagando prezzi personali.
Questa riflessione qualche anno fa sarebbe sembrata ovvia. A me sembra che – letta nel contesto culturale e politico del paese oggi – essa non sia affatto scontata. Il senso di appartenenza ha qui motivi molto mirati per esprimersi.
Naturalmente noi dobbiamo riferire questo discorso sul tema della percezione in un quadro più ampio di percezioni. La presenza qui di Giuseppe De Rita induce a mettere al primo posto il tema della cultura istituzionale degli italiani, ovvero di cosa resta di un lungo e negli ultimi anni tormentato dibattito su come è formata oggi l’idea di Stato, di Patria e di Nazione (concetti distinti ma complementari) nella coscienza collettiva degli italiani.
Qui si colloca anche il tema della “meridionalità” della pubblica amministrazione italiana, che in particolare nel sistema dei prefetti mi fa ricordare (io nipote di un prefetto siciliano) che negli anni in cui ero di ruolo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri si diceva che il prefetto nato più a nord di tutto il sistema era il prefetto Carlo Gelati nato a Parma. Ho scritto più volte che non si può rimproverare ai meridionali di avere scelto – nel quadro di distinte vocazioni forzate dello sviluppo dei territori italiani – la via del lavoro nell’amministrazione quando la borghesia del nord per tutto il novecento ha considerato una diminutio immaginare per i propri figli un lavoro nella cosiddetta “burocrazia”.
Vi è poi il tema della collocazione valoriale dello Stato nelle nuove geometrie istituzionali intese non come il rigido sistema amministrativo ma come l’ambito di differenti perimetri in cui si esercitano le forze dell’economia e dei consumi. E quindi alla fine anche delle decisioni sugli interessi collettivi. Parlo dell’Europa – che obbliga a cedere sovranità – e parlo della dimensione glocal che non è governata da istituzioni ma che è il teatro di realtà sempre più condizionanti.
Noi dobbiamo avere la forza di misurare il ruolo dei rappresentanti più ortodossi della statualità, come lo sono i prefetti, all’interno di queste geometrie che differenziano il rapporto tra poteri e interessi. Penso che scopriremmo sia fattori di tenuta che di spaesamento. Ci torneremo tra un attimo.
Abbiamo parlato di ruolo e abbiamo parlato di simboli. Ora la relazione tra valori simbolici e valori reali è espressa dalla comunicazione, da un racconto, da una rappresentazione di sé. E anche qui i prefetti che sono in sala si daranno da soli una risposta: di quanta cultura di comunicazione dispone oggi quel Ministero e quel corpo professionale per procedere con forte o meno forte presidio a quel racconto, a quella rappresentazione?
Come si capirà non parlo della comunicazione che è prevista e prescritta dalla legge 150. Parlo di quella complessa capacità interpretativa che si esplicita nell’attività di accompagnamento della società, di intervento civile sui cittadini e sulle imprese. Parlo di una più generale cultura di branding che investe ormai in modo importante le istituzioni. Parlo della coltivazione della relazione come leva strategica dello sviluppo delle proprie funzioni.
Ebbene, mi sia consentito ricordare che alla fine degli anni novanta l’allora ministro dell’Interno Rosa Russo Iervolino mi chiamò per propormi di progettare qualcosa di simile a ciò che avevo appena finito di realizzare al Ministero della Pubblica Istruzione chiamato da Luigi Berlinguer a disegnare il profilo organizzativo dell’attività comunicativa – prima inesistente – di quell’amministrazione, fino a costruire una riattivazione di 1500 posti di lavoro che con provvedimento normativo ebbero il via proprio nel 1999 sulla base di un mio rapporto di ricerca. Dissi al ministro che sarebbe stato velleitario fare un progetto prescindendo completamente dal quadro di volontà e di resistenze interne e che era bene procedere prima con una serie di riservate interviste a tutti i direttori generali. Quella che mi impegnò di più fu quella con il prefetto Masone, capo del Dipartimento di PS. Ebbene quel Dipartimento aveva il 90% delle risorse e del carico operativo di comunicazione di tutto il Ministero. L’attività cosiddetta civilistica – tutta – non arrivava al 10%. Era chiaro che ciò schiacciava su una funzione “patologica” (ovvero di intervento sulle patologie) l’intera azione di un corpo professionale pubblico che non doveva invece essere letto solo come un ministero di Polizia. Lo stesso prefetto Masone capiva il problema del riequilibrio purché non gli si sottrassero risorse. Cambiò repentinamente il ministro e quel rapporto fu sotterrato. Anche culturalmente. La distorsione rimase. E i risultati si sono visti.
Alla luce degli spunti che ho brevemente presentato arriva così il punto da fare su un nodo storico circa il ruolo prefettizio, che investe anche tutta l’alta amministrazione italiana. Si può correttamente parlare di “classe dirigente”? Nel senso di riconoscere in pieno nel loro operato i tre caratteri della competenza, della decisionalità e della responsabilità?
Il vocabolo stesso “prefetto” viene dal latino prae-facere cioè mettere a capo. Dovrebbe dare già una risposta. Ma nella realtà il breve ricordo che ho citato mi induce a fornire questi elementi: l’amministrazione non ha proceduto ad un vero riequilibrio tra le sue anime; la formazione dei prefetti non ha avuto una svolta rilevante nei confronti delle materie socio-economiche, rispetto ai canoni tradizionali della formazione giuridica, così da sintonizzare meglio il ruolo con le dinamiche che la società esprime producendo anche crisi e conflitti; l’innovazione della regia nel territorio presso le prefetture delle presenze istituzionali decentrate non ha avuto serio sviluppo (ricordo lo sforzo, poi frustrato, fatto in questo senso a suo tempo a Milano dal prefetto Caruso) per l’indisponibilità delle amministrazioni centrali di avere altri riferimenti decisionali per i propri terminali.
Insomma per questi – e forse anche per altri – aspetti noi dovremmo essere prudenti nel considerare tutti i prefetti  classe dirigente di per sé, solo per il nome che si porta e il ruolo formale che si riveste.
Naturalmente va presa in seria considerazione l’argomentazione che il professor Sepe sviluppa nell’introduzione in ordine proprio al profilo di “élite amministrativa” con la plausibilità del sostenere che essa sia  parte delle classi dirigenti del paese.
E’ vero infatti che i prefetti hanno agito negli ultimi anni anche a fronte di due contesti in cui sono stati capaci di presidiare nuovi bisogni e quindi nuovi spazi di ruolo incidente. Uno è l’ampliamento degli eventi collocati nell’area della crisi e dell’emergenza in cui i prefetti (e ben inteso il corpo dei Vigili del Fuoco), più di altri copri dello Stato hanno dimostrato di cogliere un adattamento a fare sintesi ed efficacia che in molti casi ha portato a vivere esperienze che hanno mostrato l’ineludibilità del ruolo.
L’altro è il porsi come tessitori di rapporti tra Stato e territorio laddove tradizionalmente era il ceto politico a esercitare pienamente questa mediazione ma, laddove lo scadimento di capacità e di qualità di questo ceto politico ha aperto varchi, il sistema ha chiesto interlocutori a fronte di tendenze conflittuali da governare e i prefetti che hanno visto il varco hanno utilizzato questa interlocuzione dando anche più volte valore aggiunto alle prestazioni.
Ciò ci consente di leggere il ruolo prefettizio oggi come un ruolo vivo nel rapporto tra professioni pubbliche e paese, ma nel quadro di problemi irrisolti propri e dell’amministrazione nel suo complesso.