Guglielmo Trillo. Testo per la cerimonia di commiato (Roma, 20 gennaio 2011)
Guglielmo Trillo
Testo per la cerimonia di commiato
Stefano Rolando
Roma, Chiesa di Santa Lucia al Gonfalone, 20 gennaio 2011

Prima di formulare, insieme ad altri amici, qualche parola in ricordo di Guglielmo vorrei esprimere i sentimenti – credo davvero di tutti i presenti – di viva emozione per la funzione che è stata celebrata. Ringraziando don Franco che ha aperto le porte di questa meravigliosa chiesa di Santa Lucia al Gonfalone a tutti noi, con immediata adesione, porte che lui apre in pieno centro di Roma con servizi concreti a tutte le condizioni sociali e proverbialmente ai più bisognosi. E bisognosi oggi – non sia irriverente dirlo – lo siamo pure noi socialmente privilegiati, lo è certamente la famiglia di Guglielmo, lo è in modo maiuscolo Margherita che ha perso un anno fa il padre, qualche giorno fa il marito e ieri, incredibilmente ieri pomeriggio, la madre.
E ringraziando di cuore anche Enza Degni e la sua angelica voce e Maria Cristina Mariani che suona magistralmente su un organo settecentesco ben restaurato.
Guglielmo. Ancora un mesetto fa, come d’abitudine, l’ultima occasione per vedersi e parlare.
Mai un’esagerazione, da parte sua, sulle condizioni del presente. Rara la nostalgia eccessiva sui tempi migliori di una volta. Qualche sbuffata, senza mai volgarità, sui volgari che ci stanno attorno. Qualche domanda per capire. Cauti ottimismi. Persino sulla salute – accerchiato da guai, con una prima seria operazione alle spalle – conti piuttosto sereni e voglia di combattere. Sostegno, sostegno, alle nostre comuni caparbietà.
Chiunque avrebbe voluto per amico Guglielmo. Un fratello comunque maggiore, pronto a mettere in guardia se vedeva pericolo, se coglieva scorrettezze o illegalità, pronto a confermare anche piccoli frammenti di costruzioni da fare.
Cos’era la pigrizia di Guglielmo? Forse eleganza, senso del limite, educazione, spazio per la vita e per la relazione umana. Noi frenetici, pronti allo stereotipo. Pigro? In questi ultimi anni non l’ho più pensato. Ho pensato sempre più spesso alla sua umanità. Che richiede qualche lentezza.
L’ho avuto per amico. Per quaranta anni senza interruzioni, senza screzi, senza dissensi. Che mi ricordi.
Devo riandare all’inizio degli anni ’70, alla decisione di trasferirmi – studente universitario – da Milano a Roma e di cercare lavoro per sostenermi. Giorgio Pacifici, allora all’ IBM, mi indirizzò ad un suo amico, che dirigeva le relazioni esterne di uno dei più forti comparti dell’industria pubblica italiana, la Finsider del gruppo IRI. Quella direzione occupava il piano terra di un palazzone a Castro Pretorio, stanza dopo stanza ci stavano tanti che poi divennero amici e colleghi, come Luigi Ceccarelli o Carletto Siciliani mentre Dario Faggioni, Giovanbattista Ansaldo o Luciano Rebuffo frequentavano gli uffici provenendo da Milano o da Genova. Nell’ultima stanza, Guglielmo. Pacato, signore, ironico, curioso.
Ai piani superiori i grandi manager, Alberto Capanna, Corrado Antonini, Vincenzo Cappiello. E le relazioni con l’azionista, la curialità dell’IRI già al tempo impersonata da un amico per lui diventato fraterno come Emilio Acerna. Una “casa”, con le regole anche dure degli scontri di potere, ma con i risvolti che un professionista della comunicazione trattava rendendo tutto quel sistema più famigliare.
Mi affidò due articoli per Rivista Finsider, allora molto ben pagati. Grazie al primo fui spedito a Parigi, all’inaugurazione del Museo Beaubourg, tutto acciaio, per un’intervista – poi fatta a Pegli – a Renzo Piano, che si rivelò la prima data ad un italiano su quella spettacolare e provocatoria costruzione, una sorta di nuova Tour Eiffel nello scenario del più tradizionale quartiere di Parigi. Per contro il secondo articolo comportava un ben più mesto impegno: parlare del centro delle pre-lavorazioni siderurgiche del gruppo a Paderno Dugnano. Trattai la materia con pari entusiasmo e mi conquistai un estimatore. Anzi un amico, che tale fu poi per tutta la vita. Con dentro la vita e il lavoro, gli affetti e le speranze, i sentimenti civili ascendenti e quelli un po’ infangati, una certa idea dell’Italia e degli anni ‘70 e ’80.
Socialista, sampdoriano, fumatore (straordinario il ritratto che gli fece Laura Fedeli, una sorta di quadro fiction e di estetica datata), onesto, generoso, diplomatico non farisaico, coerente.
Ebbe in Clelia la costruzione della sua famiglia. Trovò poi in Margherita una roccia affettiva, un contesto di concretezze e di stabilità. E io feci con allegria – insieme a Renata Treves – il testimone alle sue seconde nozze. A poco a poco il figlio Dido, trovando il suo spazio nel mondo della regia cinematografica e televisiva, divenne non più una preoccupazione ma un fattore di fiducia. Fece la professione delle PR e della comunicazione di impresa negli anni in cui era possibile sviluppare esperienze maiuscole, per le quali Mario Lucio Savarese era stato un fragoroso stimolatore, con Guglielmo a raffreddarne un po’ le esuberanze, ma come sempre attratto dall’intelligenza e dalla creatività, dunque non censore, non disfattista, adattatore. Attraversò tante esperienze nel settore pubblico: Italsider, Finsider, Eni con presidente Franco Reviglio, Sme con Mario Artali, Ministero delle Partecipazioni Statali, affiancato da Gianni Patriarca. Fu sempre fedele a Gianni De Michelis – che prenderà poi la parola – condividendone le varie sorti.
Quando diressi l’Istituto Luce Gianni De Michelis lo mise nel consiglio di amministrazione: mi aveva amichevolmente diffidato di far funzionare “troppo” la società, i socialisti puntavano sulla consorella Cinecittà, lì si era minoranza e i meriti li avrebbero presi i democristiani (amministratori) e i comunisti (autori). Gianni sapeva che non si frenava così l’entusiasmo operoso di un giovanissimo direttore generale che pensava che risanare un’azienda-patrimonio fosse un compito ineludibile. Anziché metterci uno spigoloso controllore mise un amico benevolo e saggio e il sodalizio produsse una certa egemonia del buon senso.
Gli piacque occuparsi della Scala stando all’Eni, del Milan stando alla Sme, del Giorno stando all’Eni (poetico, qui, il quadro che gli dedicò Ottaviano Del Turco per le sue funzioni manageriali presso quel giornale che fu bandiera della modernizzazione).
Lavorò senza mai menare vanto, senza mai tradire un pensiero plumbeo sui contesti che doveva correttamente rappresentare ma capace di dire al momento giusto e alla persona giusta una parola per raddrizzare storture o difetti. Ha presieduto a lungo e con eleganza la FERPI, la Federazione italiana delle relazioni pubbliche. Come i suoi predecessori, penso ad Attilio Consonni (avrebbe parlato oggi qui, ma un’influenza lo ha trattenuto a Milano), anche i suoi successori – da Toni Muzi Falconi a Gianluca Comin – gli hanno fatto sempre l’onore di ricordarlo con stima e amicizia. Questo costume – visti altri contesti, direi “raro” – gli procurava un sorriso, un sentimento di essere parte di piccole sensate eredità.
E’ stato l’esempio dei tantissimi socialisti per bene a cui è stata sottratta una casa, una storia, per molti anni anche una legittimità.
Ha seguito con un contributo concreto un mio sforzo recente di ricerca per la Fondazione Craxi (a proposito Bettino Craxi reagì un giorno a chi gli disse “un certo Trillo” dicendo: “volevi dire il mio amico Guglielmo!” e qualcuno ha mai sentito Guglielmo, in certi anni, vantarsi di ciò?). Quello sforzo di ricerca è stato teso a ricostruire la vicenda complessa della relazione del Partito Socialista con il sistema dei media e con la comunicazione diretta con gli italiani, che ha prodotto due anni fa il libro “Una voce poco fa” presentato con un certo eco alla Camera dei Deputati.
Abbiamo dedicato tempo, parole soppesate, silenzi riflessivi, agli interrogativi di una lunga stagione – per noi così importante (soprattutto per gli anni in cui avevo attraversato a Palazzo Chigi dieci governi a stretto contatto con le punte più avanzate del gruppo dirigente socialista mentre lui aveva affiancato politici e manager di rango nelle aziende e nel governo stesso) - rispetto a cui abbiamo esercitato il diritto di difendere (e in un certo senso anche di difenderci) contro la calunnia e lo stravolgimento, ma senza negare involuzioni, degenerazioni, errori.
Abbiamo condiviso l’impegno del comitato scientifico della Fondazione Nenni. Mi ha abbracciato per il consenso che ha sentito di esprimere per la relazione che ho fatto, nella sua Liguria, solo due mesi fa, per il ventennale della morte di Sandro Pertini, sul tema della “questione della libertà in Italia” come sempre leggendo prima i testi, contribuendo anche se per dettagli, a migliorare o a precisare l’argomentazione.
Negli ultimi dieci anni ha preso parte allo sforzo, a volte all’ostinazione, con cui con Rivista italiana di comunicazione pubblica (a cui Margherita ha dedicato dieci anni di impegni) e con Civicom, si è cercato di fare emergere una visione non angusta e non burocratica di una disciplina e di una professione. Lavorando insieme ad avvicinare le ragioni delle istituzioni e le ragioni delle imprese, in un raccordo di cui entrambi sentivamo l’importanza contro le vestali conflittuali di questi due mondi professionali e associativi. Da presidente di Civicom è stato prezioso per la sua prudente e realistica valutazione delle cose (in particolare nella gestione della complessa materia della comunicazione nel settore dell’energia nucleare) in una dedizione sempre anteposta ai suoi interessi personali.
Ha sdrammatizzato cose dure e amare. Ha mantenuto fiducia nei valori e nei pensieri di una vita leale. Ha accettato sempre il presente per non cadere nel ricatto psicologico del “ricordo”, quello che secondo Tommaso Landolfi, grande nostro scrittore, è comunque “un compromesso”. Ha avuto comprensione e benevolenza per la mia vita un po’ tormentata rispetto a cui ha riservato la stessa quota di affetto a tutti i miei affetti, incoraggiandomi sempre nella mia un po’ tardiva paternità. Ha combattuto con coraggio l’insieme dei mali che lo hanno afflitto negli ultimi tempi. E soprattutto fidandosi in questi anni della forza con cui Margherita ha retto questa, insieme ad altre prove; e regge ora, insieme alla dolorosissima scomparsa della mamma, la prova maggiore, quella della lontananza estrema da un uomo amato e quotidianamente protetto, prova per la quale tutti noi qui l’abbracciamo fraternamente. Come abbracciamo Clelia e Dido qui presente con altri familiari tra cui la piccolissima figlia Ludovica che Guglielmo ha conosciuto. Dopo la prima operazione chirurgica alle Molinette, ha combattuto anche con rinnovata speranza. Non ha retto, nella notte tra l’8 e il 9 gennaio, alla seconda operazione, che forse nascondeva un futuro di gravi precarietà.
Ti ho voluto bene, Guglielmo – “amico mio e non della ventura”, come scrisse il Sommo - come tutti i tuoi veri amici qui raccolti ti hanno voluto bene. Ci manchi e ci mancherai sempre. Tra un po’ ce ne andremo tutti, qui all’angolo, a prendere un caffè. Te lo diciamo noi. Tu – come ci ha ricordato Dario - avresti senz’altro detto la tua storica frase: “Dove siete? Caso mai vi raggiungo”.