Giulio Andreotti (6 maggio 2013)

Visto da vicino. Ricordo di Giulio Andreotti
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A fine 2009, quando usci il mio libro-intervista con Marco Pannella, mi colpì il desiderio dello stesso Pannella che Andreotti accettasse di presentare a Roma quel dialogo in forma di resoconto controcorrente di oltre mezzo secolo di storia repubblicana.  Non era  solo un’ipotesi di contrappasso. C’era  anche uno strano affetto. Non ci fosse stata questa non prevedibile venatura forse avrei lasciato perdere. E invece chiamai la segretaria di Giulio Andreotti per avanzare quell’ipotesi. Non  c’era più la signora Enea con cui avevo avuto rapporti, come direttore generale a Palazzo Chigi, dal tempo del VII governo Andreotti e successivamente. Ma una più giovane e a me ignota persona. Che mi disse subito: “Ma lei da quanto tempo non vede il presidente?“. Capii che lo stato di salute era più compromesso di quanto si sapeva. E da quel giorno – nel silenzio pubblico di Giulio Andreotti – mi sono aspettato una notizia come  quella oggi annunciata dalla radio a metà  pomeriggio.
Comincia ora in tv, mentre scrivo, un “Porta a porta” di Bruno Vespa, che immagino sarà un eccesso di indulgenza nei confronti di una icona dell’ Italia contemporanea. Vedremo. Il mio giudizio non è in linea con questa indulgenza, ma non è nemmeno in linea con la criminalizzazione del film “Il Divo” che ha messo Andreotti – in quanto genio del male – nel rango dei politici di primissimo piano della DC. Penso che Andreotti abbia affrontato con realismo l’ idea di misurarsi con il male per ridurne i danni e soprattutto per mantenere la DC in condizione (erronea) di  decidere sul male e sul bene del Paese. Ma penso anche che non fu un leader della statura di Fanfani, Moro e  De Gasperi. Quanto a pensiero anche di Marcora o Donat Cattin.
 

Andreotti correrà il rischio di restare nella storia per le sue  battute. Non è cosa giusta. Andreotti deve stare nella storia per le cose, anche non  visibili o  non accadute,  che uno con la sua realistica tessitura ha forse evitato al Paese. E anche per vicende altrettanto misteriose che sono in cerca di spiegazioni perché rimaste nell’irrisolto.

Certo alcune sue battute lo hanno tolto dai clichet dei protagonisti bacchettoni,  vaporosi, melliflui, allusivi, che il ceto politico DC esprimeva in abbondanza. A me ne disse due o tre, che stanno nel repertorio storico. Ritardava, per esempio, la nomina del portavoce nel suo governo all’inizio degli anni ’90. E dal palazzo mi spinsero a sollecitarlo  con la scusa di dover chiudere in tipografia la rivista “Vita italiana” – da lui  avviata come braccio destro di De Gasperi – ed ebbi la risposta: “Ma quale portavoce! Qui ci serve un portasilenzio!“. Poi nominerà Pio Mastrobuoni, inviato dell’Ansa e ottimo professionista.  

 
Le sue battute erano figlie sempre di una certa  idea del potere. A sinistra il potere era cerebralizzato. Voluto e negato, amato e odiato. Andreotti invece lo indossava come un guanto. E molte battute erano frutto del cinismo temperato di chi guardava la realtà da una posizione di potere esercitato senza complessi. A Shanghai mi disse – passeggiando nel giardino del Consolato d’Italia (eravamo casualmente da soli) – “i giapponesi si inchinano troppo, rispetto ai cinesi, che sono più composti, e ti obbligano a chinarti, e così ti fanno venire la gobba! “. Credevo mi prendesse in giro. Forse mi e si prendeva in giro. Stupefacente. In quel viaggio – il famoso viaggio in Cina di Craxi nel 1986 con Andreotti ministro degli Esteri – arrivando a Pechino Andreotti disse, proprio a Pio Mastrobuoni (ancora all’Ansa), la famosa battuta “Eccoci qui, con Craxi e i suoi cari“. Finì  su tutti i giornali e segnò le ombre su quel viaggio che aveva in verità una certa importanza.
Andreotti rispondeva alle lettere dei funzionari. Bisognava arrivare in tempo alla chiusura del faldone che il ministro Leo confezionava per conto del  segretario generale ambasciatore Cavalchini entro le 21 di sera. Poi al mattino eri certo di riavere quella carta annotata a mano e corredata di un fogliettino in cui la sua segreteria trascriveva a macchina il quasi illeggibile graffito. Le lettere ponevano esigenze di servizio, le risposte erano raramente censorie e per lo più facilitanti. Già per questo una mitologia. E nella mitologia c’era anche un rispetto sostanziale – e non frequentissimo nel ceto politico – dell’Amministrazione. Al termine del mandato di quel governo un mio collega (poi divenuto famoso in Italia) che era considerato vicino ad Andreotti chiese al Presidente di elevarlo alla posizione “B” – quella corrispondente ai prefetti di prima classe – a cui non era ancora arrivato nessuno in Presidenza del Consiglio. Lui era a metà  classifica nella gerarchia del grado. Io ero il primo (perché nominato prima della riforma dell’88).  Andreotti non gli volle dire di no (in vista di una sua esperienza all’estero in una organizzazione internazionale) ma volle  sapere almeno chi fosse il primo di quell’elenco. Ed elevò entrambi di posizione. Io lo seppi a cose fatte e dovetti testimoniare che altri, al suo posto, non avrebbero fatto lo stesso.
Mi chiamò nei primi giorni del governo per sapere “da milanese” se “li conoscevo”. Ci misi qualche secondo per capire che si riferiva ai leghisti. Mi disse che Baruffi (suo riferimento a Milano) non glieli aveva spiegati adeguatamente. Capii che non era interessato a spiegazioni sociologiche ma, più concretamente, a conoscere di persona i capi. C’era chi aveva la condizione per favorire questo. Aveva lo sguardo lungo su un fenomeno che, nelle forme, assomigliava pochissimo alla DC del nord. Ma rispetto ad alcuni caratteri quel fenomeno aveva la potenzialità di sottrarre molti voti alla balena bianca.
Le interazioni con Andreotti furono molte perché nella sua iniziativa c’era spazio e attenzione per l’ iniziativa dell’Amministrazione. Se essa era  attiva lui la incoraggiava. Se non era attiva non la biasimava. Adattava in modo non conflittuale ma anche non forgiante il  ruolo della politica rispetto ad un sistema organizzativo delle istituzioni per il quale non aveva pregiudizi.
Quando realizzammo il programma dell’Italia ospite d’onore alla Buchmesse di Francoforte (un grande padiglione storico e trecento eventi culturali nella città) Andreotti arrivò a sostegno dell’evento in compagnia del ministro degli Esteri tedesco Genscher. Aprì così il carosello delle visite illustri che portarono i settanta autori italiani presenti sui media di tutto il mondo. E disse che lo aveva fatto perché lui era uno dei quei settanta autori! E quando si aprì la trattativa comunitaria per la realizzazione del mercato unico – il preludio del Trattato di Maastricht ( di cui l’Italia fu artefice e protagonista) – Andreotti sostenne il nostro progetto di parlare al Paese con efficaci campagne pubblicitarie per popolarizzare una scelta che aveva bisogno di non essere solo accreditata dalla stampa economico-finanziaria ma riguardare tutta la società.
In occasione del G7 di Tokio (la delegazione italiana con Craxi presidente, Andreotti agli Esteri, Goria al Tesoro), ebbi l’incarico di riunire gli italianisti all’Istituto italiano di cultura. Con emozione presentai a presidente e ministri il prof. Nogami, traduttore in giapponese dell’intera Divina Commedia. Andreotti fece un sorrisetto: “Ma Rolando che fa? Mi presenta Nogami? Io l’ ho fatto commendatore trenta anni fa!“. Ripiegai sul traduttore del Manzoni e salvai la faccia.
Mentre finisco questa nota di memoria va terminando anche la trasmissione di “Porta a Porta“, indulgente ma non reticente, in cui i partecipanti hanno complessivamente dimostrato di discutere di storia e di politica con una certa libertà (più accolta dai presenti di quanto mi aspettassi la tesi di Luigi Berlinguer sul consenso cercato troppo a spese  dell’erario), ma anche con comprensione dei valori simbolici nazionali rappresentati in questa storia. Non mi lamento.

Anche chi lo ha visto a lungo da vicino, come i nostri più reputati diplomatici (lui sei volte ministro degli Esteri) si è formato opinioni contrastanti. Per Sergio Romano Andreotti è stato il Talleyrand italiano, per Boris Biancheri il diavolo in persona.

Restano ombre in una storia che vista da una posizione certamente secondaria come la mia è non facilmente  giudicabile. Assolto e condannato, si è detto in questa trasmissione. Virtuoso e vizioso, secondo lo stereotipo del bene e del male che Andreotti ha incarnato proclamando (lo ha ricordato Paolo Cirino Pomicino) “la vita politica come una compresenza di pasque e quaresime“.
La scomparsa di Giulio Andreotti è oggi la fine della fine della prima Repubblica. Che tutti dicono finita ma che – nella deriva evidente della seconda – qualcuno considera ancora viva pur nelle sue malattie.