Giampaolo Fabris (20 maggio 2010)
Nella settimana a fine maggio in cui ho girato per le università brasiliane (un congresso, tre seminari e un incontro con associazioni professionali) pensavo – ritornando in alcuni luoghi dopo oltre trenta anni – che devo elevare un pensiero di riconoscenza per una condizione di salute che mi permette ancora corvées. Faccio ancora davvero fatica a riposarmi. E’ un pensiero che non svolgo di questi tempi in modo consolatorio, ma sempre più apparendomi l’immagine di chi so in sofferenza o in qualche serio impedimento.
E arrivando da Porto Alegre a San Paolo, nella concitazione di incontri, preparazioni di slides, partecipazione a cene e trascinamento di bagagli, mi è apparsa – in piena Avenida Paulista – l’immagine, metà ironia metà stupore, di Giampaolo Fabris. Con la memoria recentissima di una breve mail in cui declinava con dispiacere l’invito a tenere una speciale lezione al mio master in Iulm sul transito teorico dal marketing al societing perché – per dire le sue parole - “te lo dico con un eufemismo, ho disdetto tutto perché non mi sento troppo bene”.
Alla sera, quando ho potuto mettere gli occhi su un computer, ho appreso con grande dispiacere (e colpito dal pensiero pomeridiano) che se ne era andato.
Vorrei dedicare qualche ricordo personale – come faccio in questo angolo del mio sito – attorno ad un rapporto di colleganza, di collaborazione e di stima, non posso arrivare a dire di amicizia che è parola che comporta certo genere di confidenzialità, che si è svolto nel corso di vent’anni. Quando ho cominciato ad insegnare in Iulm, su invito di Marino Livolsi, con Francesco Alberoni rettore, Giampaolo rappresentava ciò che con altro gergo si chiama una “ètoile”.
All’origine sociologo del lavoro era da un pezzo l’interprete più sensibile della sociologia dei comportamenti di consumo, con un occhio attento allo sviluppo del branding nel sistema di impresa e l’altro occhio attento alla continua variazione degli stili di vita. Il suo libro La pubblicità. Teoria e prassi è stato un classico (prima metà degli anni novanta) già appena pubblicato. Ebbe, già venti anni fa, attenzione per il mio punto di osservazione: la modernizzazione relazionale e comunicativa delle istituzioni. Tema che suscitava generali prudenze, se non diffidenze nell’area di studiosi più sensibili alla società e all’impresa che allo Stato, ma nel suo caso, curioso di vedere come la mutuazione che tentavo già all’epoca di alcune categorie manageriali “aziendali”, poteva adattarsi con credibilità a processi invocati dal mondo imprenditoriale ma considerati ancora più “annuncio” che “cambiamento”. Avevamo avuto occasioni, anche simpatiche, di collaborazione. Tengo alle pareti della mia stanza in Università un manifesto che incornicia un raccapricciante panino imbottito di un libro, a ricordo di un divertente convegno che nel maggio del ’94 coordinammo insieme al Salone del libro a Torino per far parlare di “letteratura e consumi” un vivace panel composto da Acheng, Gillo Dorfles, Inge Feltrinelli, Bernard-Henry Lévy, Luigi Malerba, Leonardo Mondadori, Ben Okri, Giuseppe Pontiggia e Annamaria Testa.
Quando lasciai l’amministrazione centrale e poi il breve impegno dirigenziale in Olivetti, feci perno su Milano e accentuai il rapporto con l’università. E Giampaolo mi propose di sviluppare insieme un osservatorio sulle potenzialità della customer satisfaction nel settore pubblico. Tralascio qui di analizzare il punto critico che alla fine quell’Osservatorio generò (pur con una brillante sperimentazione che facemmo grazie alla modernità di un mio amico, Valerio Neri, direttore del marketing dell’ACEA a Roma), tra un approccio troppo avanzato di Giampaolo – che operava con gli americani nella definizione di un algoritmo di analisi dei parametri per creare indici misurabili nel campo dei servizi pubblici – e la condizione culturale di un settore pubblico che aveva preliminari interessi ma anche ritardi culturali e metodologici pesanti per spianare la strada ad una vera operatività.
La mia spiegazione sulla politica che amava poco le “valutazioni intermedie” rispetto alle elezioni e soprattutto che non aveva lo stesso approccio ai cambiamenti organizzativi “urgenti” per l’impresa e “flessibili” per le strutture pubbliche, lo lasciavano sempre convinto che le ragioni del suo “punto innovativo” avrebbero dovuto prevalere. Così tra il ’98 e il ’99 scrivemmo un libro a quattro mani sulla Customer satisfaction nel settore pubblico per raccogliere materiali di uno splendido convegno da lui promosso in Iulm e adattarne il significato ad interlocutori che avrebbero dovuto maturare consapevolezze. Un libro anticipatore che incise tuttavia poco su quel sistema. Considero un peccato non avere ripreso insieme questo argomento dieci anni dopo quando vi erano condizioni molto più mature per ottenere risultati culturali, professionali e arrivo a dire anche politici più soddisfacenti.
Il secondo ricordo riguarda la vicenda conflittuale del secondo mandato rettorale di Gianni Puglisi. Giampaolo guidò l’opposizione. Cercò di fare leva anche sugli studenti, convinse una parte significativa degli ordinari, ma non andò oltre.
E non andò oltre perché non mise se stesso in gioco. Alla fine Puglisi rispondeva del suo operato e assicurava (o non assicurava) in proprio. Giampaolo – non entro nel merito di ragioni e torti, lui ora terribilmente assente – ritenne di poter svolgere solo una regia mantenendo la sua vita largamente consacrata all’attività professionale. Vinse Puglisi che era totalmente dedito a quella battaglia. E io scelsi – in un vasto brontolio silenzioso dei colleghi – la posizione di chiarezza che Puglisi rappresentava. Fu uno scontro aspro tra loro, che portò ad una sorta di “scissione” verso il San Raffaele (Fabris, Livolsi e Siri), con scambi di lettere e argomentazioni non lievi. Si profilò in qualche modo anche uno scontro “politico” e disciplinare. La stagione della leadership dei sociologi concludeva il suo ciclo. Non riuscì mai a cominciare il ciclo quella degli economisti. Cominciò invece un certo ciclo quella degli “umanisti” (filosofi,letterati, linguisti). La mia minoritaria visione che – in quel genere di ateneo – fosse possibile l’affermarsi delle scienze della comunicazione come nuova disciplina affrancata da dipendenze, malgrado l’arrivo (proprio per succedere a Livolsi) di Alberto Abruzzese (uno dei più accreditati in questo senso) – rimase minoritaria. Con Giampaolo fu possibile passare quel duro guado senza che volasse una sola parola non dico di conflitto ma neppure di tensione (al di là di pensieri privati e qualche rammarico).
La recente scrittura del prof. Fabris di un libro che tornava sui postulati del cambiamento del rapporto tra pubblico e privato tale da dover guardare al marketing in forma cresciuta rispetto alle valenze sociali, politiche e pubbliche, produsse un libro che ha inciso: Societing.
Scrissi a Giampaolo il mio apprezzamento e la mutuazione di alcuni concetti si ritrovano oggi nel testo che ho pubblicato con CEDAM sui profili di convergenza tra comunicazione pubblica e di impresa. Gianni Puglisi, nell’introduzione, ha fatto esplicito riferimento alla maestria di Fabris attorno ad alcuni concetti che il mio contributo svolge. E questo ha chiuso il ciclo della lunga scissione. Senza purtroppo dare il tempo di sviluppare una nuova possibile stagione.
Ma quello che voglio qui ricordare è l’apprezzamento a sua volta che Giampaolo ha ritenuto di esprimermi per due libri che – al di là della scrittura professionale e accademica – ho realizzato nel 2008 e nel 2009 per un indilazionabile bisogno di riprendere la parola su questioni a metà tra memoria e politica. Quarantotto (un bilancio generazionale, pubblicato da Bompiani) gli ha fatto dire generosamente che “è stata una grande scoperta dell’estate del 2008, lo considero un libro molto importante”. Mentre un suo abbraccio in pubblico il giorno dell’ultima inaugurazione dell’anno accademico mi ha ripagato del libro “Le nostre storie sono i nostri orti”, a colloquio con Marco Pannella, rivelandomi la sua forte inclinazione per i radicali (era stato nel team di sostegno di “Emma for president”) cosa che, all’apertura della mia brevissima esperienza elettorale (poi fermata dagli impedimenti formali delle leggi sulle firme) fatta in occasione delle recenti regionali di marzo, lo ha indotto a incoraggiarmi, chiedendomi di mandargli le mie mail di osservazioni critiche e assicurandomi con un’ultima lettera il suo voto. Questo genere di scrittura non mi ha portato a rapporti così calorosi e interessati – diciamo così – nell’ambiente accademico. Giampaolo – che se ne va poco dopo Emanuele Pirella, con cui condivideva amicizia e un comune senso della visione civile della cultura e della comunicazione – è stato il più assertivo nell’incoraggiamento verso questo impegno di “chiarificazione” che ho svolto e che intendo continuare a svolgere.
Per varie ragioni che qui ho cercato di ricordare ma anche per una ragione – diciamo così identitaria – che suona alle mie corde affettive. Giampaolo era nato a Livorno, la città di mia madre. E, come mia madre, diceva che niente era importante per lui “quanto l’odore di salmastro e l’amore per il mare”.