Expo 2015 e il patrimonio simbolico di Milano
Intervenendo agli Stati generali per Expo 2015, nella sessione dedicata al format, mentre da un certo tempo sovrastano polemiche e i media per lo più si occupano di questioni immobiliari (spesso per denigrarle e per denunciare la stella polare dell’Expo negli affari), ho sollevato la questione del patrimonio simbolico. Ovvero del patrimonio simbolico di una città e di come un evento mondiale – con lunga rincorsa – ha la facoltà di incidere sull’aggiornamento e, si spera, sulla riqualificazione di come quel patrimonio viene percepito.
A Milano, in Italia, nel mondo. Patrimonio simbolico che le aziende chiamano brand e che hanno tra le cose più care e attenzionate. Condizione di successo sul mercato. Tanto da giustificare un presidio costante (brand manager) e investimenti per migliorare il valore che quel simbolo rappresenta (brand equity). In tante parti del mondo di recente si è assistito all’accostamento di città, regioni e nazioni ad una politica seria di branding pubblico, che non è semplice adattamento formale di un logo e neppure mera tecnica di marketing territoriale. E’, piuttosto, capacità complessa di organizzare il racconto di sé, di quella città e di quel territorio, attraverso soggetti credibili, attraverso contesti o eventi facilmente iconizzabili, attraverso la divulgazione e la semplificazione dei cambiamenti intervenuti in una economia, in una cultura, in un sistema di patrimoni d’arte, cultura, produzione e scambio. Non solo attraverso i media e la comunicazione ma in tutta la rete relazionale. Città fuori da posizioni importanti nel ranking mondiale dell’immagine (non valore astratto, ma condizione della desiderabilità di una città e di un territorio e dunque condizione per acquisto, conoscenza, viaggi, trasferimenti) hanno mirato in questo campo a politiche precise, programmate, investite nel tempo e nei manufatti urbani che diversamente ne hanno connotato il percorso, diventando città importanti nell’immaginario collettivo mondiale, da Bilbao a Sidney (per non citare quelle che stando già ai primi posti hanno ben difeso le posizioni mantenendo politiche e presidi sulla materia). Città che provenivano dall’ombra protratta per decenni dalla cortina di ferro hanno agito sugli eventi, sul rinnovamento della qualità urbana e soprattutto sul carattere dello sviluppo culturale ed economico per offrire nuove caratterizzazioni. Chi aveva radici – arte, letteratura, storia – ha ottenuto grandi risultati, da Berlino a San Pietroburgo, da Dresda a Budapest. Expo 2015 è ora un evento che consente a Milano (e al largo territorio che circonda la città che nel mondo ha come simbolo Milano) cinque anni di investimenti che non riguardano solo infrastrutture materiali. Da non sprecare, da non sottomettere alla classica ridondanza di una città ricca, pluralista e piena di soggetti in competizione ciascuno dei quali ha suoi racconti da fare e quindi suoi simboli da promuovere. Milano non è Torino, non è facilmente coordinabile, per il suo antico carattere borghese. Ma questa prova la deve tentare e questa regia la deve trovare. Recenti ranking sull’immagine delle principali città al mondo mantengono Milano in classifica (dal 15° al 20° posto in fluttuazione, dunque non così male). Ma i corredi analitici spiegano un profilo un po’ in stallo. Come se il tema non venisse adeguatamente governato lasciando ai panel internazionali sequenze non a fuoco. Il passaggio dalla città industriale alla città creativa non è ben attestato, il rapporto tra città e nazione presenta zone d’ombra, il conflitto tra le tante icone che esprimono simbolicamente Milano non trova ragionevoli priorità. Siccome il racconto simbolico di sé è come l’annuncio di un sogno allo psicoanalista, esso traduce verità. Verità gestibili ma non manipolabili. E dunque traduce un percorso (per Milano ormai quasi ventennale) di crescita e cambiamenti ma anche di regia debole e di eccesso di conflittualità nella propria rappresentazione. Nell’intervento al Dal Verme – nella manciata di minuti a disposizione – ho svolto anche un’altra connessa riflessione che proveniva da un recente sopralluogo compiuto nelle zone del terremoto in Abruzzo da cui si è ricavato uno dei progetti che l’Ocse ha ritenuto degno di attenzione per orientare un programma di sviluppo economico del territorio, dedicato ad un laboratorio sulla comunicazione di crisi e di emergenza. Non paia un richiamo artificioso. La riflessione è sul destino apparentato – dal punto di vista della rigenerazione dei valori simbolici – che Milano e L’Aquila esprimono nel caso italiano con appuntamento a metà del prossimo decennio. Per una città sarà la buona riuscita dell’evento a premiare (o al contrario a non premiare) questa delicata operazione innovativa (il brand di Milano è ancora disallineato a quello del paese e su di esso pesano più fattori di economie declinate che valori culturali e dell’economia della conoscenza); per l’altra sarà la prima fase di chiusura effettiva di una spaventosa ferita a dire se la città avrà saputo cogliere la condizione “speciale” dell’ictus territoriale per generare su di essa nuove funzioni e nuove economie. Mentre corrono, in entrambi i casi, forti investimenti sulle infrastrutture e sull’edilizia – quella da ampliare o quella da rigenerare, quella da espandere o quella da sanare – è debole l’investimento sul tema del “palazzo immateriale” che il valore storico del nome di una città evoca, suscita, scandisce. Costruendo – su profili desueti oppure innovativi, su mode tramontate oppure insorgenti – identità. Un’identità che può corrispondere tanto al desiderio quanto all’indifferenza.
Segretario generale di Fondazione Università IULM