Europcom 2012 – Seconda parte (in Europa quotidiano, 25 ottobre 2012)

in Europaquotidiano on line il 25 ottobre 2012
http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/138022/a_bruxelles_mille_operatori_di_comunicazione_pubblica_riuniti_per_europcom_3

Europa, comunicazione e opinione pubblica / 2

Alla ricerca di una storia da raccontare. Ma a chi spetta?
A Bruxelles mille operatori di comunicazione pubblica riuniti per Europcom 3.
 
I conflitti Stati-UE e tra le stesse istituzioni comunitarie tengono la comunicazione in stallo.
Si applaude all’idea di far ritirare il Premio Nobel da ventisette bambini europei, ma intanto i gabinetti della troika decidono che siano i tre vertici istituzionali ad andare a Oslo.
 
Stefano Rolando
 
 
Christian Blümelhuber, professore tedesco di euro marketing, ha detto in assemblea plenaria a Europcom, nel Parlamento europeo, che davanti alle paure del rapidissimo cambiamento globale bisogna inventarsi una nuova “storia d’amore” per raccontare l’Europa. Lì  molti hanno pensato che il destino ha ora messo a disposizione una bellissima storia d’amore da raccontare. Quella della creazione, con l’Europa unita, del più lungo periodo stabile di pace tra gli europei dal tempo dell’impero romano alla metà del ‘900. Ma qualcuno, ancora più maliziosamente, ha pensato: stai a vedere che i litigi tra le istituzioni comunitarie e la vanità dei contemporanei rovineranno questo bel racconto.
Mentre si diceva a Europcom (due giorni, 14 temi, 65 relatori di cui solo quattro italiani, la vicepresidente europea Neelie Kroes alle conclusioni) che sarebbe comunicativamente forte pensare che il ritiro del Premio Nobel per la Pace all’Unione europea venga fatto da ventisette bambine e bambini, uno per paese, i tre capi di gabinetto di Herman Van Rompuy (Consiglio), Manuel Barroso (Commissione) e Martin Schultz (Parlamento) si mettevano d’accordo (non è ancora ufficiale) perché i tre attuali rappresentanti istituzionali vadano loro a Oslo a ritirare il premio. Che per la verità non è stato attribuito alle loro persone e che per alcuni non ha molto senso disegnare attorno ai poteri attuali dell’Europa.
Schierare tre uomini (per di più “uomini”) che rappresentano l’età della crisi dell’Europa è propriamente investire sulle “storie d’amore”?
 
Comincia qui, con questa magari discutibile opinione, la cronaca di questa conferenzona, piena di giovani, molti funzionari delle varie istituzioni, ma anche operatori pubblici e privati, non solo di stanza a Bruxelles. Intelligente punto di partenza, cioè tema della prima plenaria, i dati di Eurobarometro. Per dare in qualche modo voce alla domanda di comunicazione, cioè per segnalare l’importanza dell’ascolto dei cittadini in questa fase in cui le preoccupazioni sono acute e modificano un po’ l’agenda delle vecchie priorità.
Nel suo rapporto sugli ultimi sondaggi (per la prima volta regionalizzati) Leendert de Voogd (TNS) ha chiarito che il ruolo dell’euro non è stato specificatamente indagato. Il test sulle preoccupazioni dei cittadini riguarda una generica voce “economia”. In quella voce ci stanno scenari generali e bilanci famigliari, ci stanno crisi di investimenti e di crescita e dinamica dei prezzi, eccetera. Una voce che genera ansie, seconde solo a quelle correlatissime sulla crescente disoccupazione. Con l’avanzare della crisi l’attenzione – propria di una società affluente – per l’ambiente e l’ecologia è finita purtroppo in ultima posizione (6%) ed emerge, dieci volte di più, la preoccupazione per l’impiego. Come ha detto  Mercedes Bresso (Comitato Regioni), nella seduta di apertura, non è stata comunicata adeguatamente l’opportunità della green economy di affrontare alcuni aspetti di uscita dalle crisi. Colpisce poi seriamente una certa diffusa crisi della democrazia rappresentativa. Cioè crisi di certezze di fronte alla domanda: di chi si fidano gli europei? Si fidano un pochino degli eletti locali, un po’ meno di quelli nazionali,  a chiazze di quelli europei. E poi c’è ancora fiducia negli eletti, in generale, nei piccoli paesi, ma sempre meno nei grandi paesi. Quanto alla classe dirigente regionale, che ha un discreto credito in Europa, in Italia – vedere la mappa è impressionante – solo in Toscana e in Trentino la gente dice di fidarsi ancora.
 
Su Eurobarometro già nella precedente corrispondenza si sono fatti alcuni rilievi. Aggiungiamo qualcosa. L’efficacia di Eurobarometro nell’orientamento delle politiche pubbliche viene considerata in generale molto modesta. E quindi da riconsiderare anche alla luce dell’art. 11 del Trattato di Lisbona sull’obbligo di ascolto e partecipazione dell’opinione pubblica. Ciò che richiederebbe una regolamentazione sulla formazione dei dossier decisionali tesa a rendere funzionale l’investimento importante che la UE fa da anni su Eurobarmetro.Il contesto conoscitivo per la comunicazione di istituzioni e imprese sull’Europa, malgrado la qualità riconosciuta dello strumento, è anch’esso fragile. In prevalenza politica e economia usano ormai la ricerca non a scopo di conoscenza generale, ma per posizionare specifici interessi secondo una restrittiva leva di marketing. Qui, in verità, non c’è molto da fare, né leggi, né regolamenti. E’ una involuzione culturale della domanda di ricerca che riguarda tutti i nostri paesi e rispetto a cui la lobby dei ricercatori – poco sostenuti in questo dalle università – si è rivelata debolissima.Fragile resta anche l’efficacia mediatica e il ritorno comunicativo all’opinione pubblica. Ci sarebbe spazio per dare importanza allo strumento, perché i media hanno bisogno di dati. Ma in questo caso non si rispetta la regola generale secondo cui i media preferiscono i sondaggi alle statistiche (cioè preferiscono la percezione alla realtà) perché il sondaggio deve essere pilotato in forma coerente con la regola di “cosa fa notizia”, che per i media significa (spesso) primato della patologia rispetto alla fisiologia. 
Insomma tra ricerca sociale, politica e racconto (cioè comunicazione) che fatica in Europa a fare sistema!
 
Eppure nel corso del 2012 Eurobarometro ha posto molti punti di domanda che avrebbero dovuto e dovrebbero stimolare i comunicatori. Ma lo stallo dei rapporti tra l’Europa dei governi nazionali e l’Europa comunitaria e l’ingessatura dei rapporti tra gli stessi diversi palazzi della UE (ai tre centrali si aggiungono i Comitati Regioni-Città ed Economico-Sociale e naturalmente la Banca europea) ha reso le risposte al di sotto delle necessità.
Nella crisi economica i cittadini europei segnalano preoccupazione al 70% e relativa tranquillità al 30%. Tranquillità con punti di evidenza in Svezia e Lussemburgo e un po’ meno in Germania, Finlandia, Danimarca e Austria. Ma non altrove, con Italia, Portogallo, Spagna e Grecia ai margini di ogni ottimismo (in Italia siamo 96 a 4). Alcuni fattori emergono. L‘opinione pubblica nella UE considera priorità assoluta la modernizzazione dei mercati del lavoro per creare occupazione e sostegno ai poveri e alle persone socialmente emarginate. Oltre 8 europei su 10 ritengono che, a seguito della crisi, gli Stati membri dovrebbero cooperare più strettamente. La condizione di immagine generale – dunque di reputazione media – della UE flette tuttavia dalla primavera 2011 alla primavera 2012 quasi del 10 %. La questione fiscale non è nei punti alti delle preoccupazioni degli europei (9%) rispetto a lavoro (46%), economia (35%) e prezzi (24%); ciò che rende anomala la situazione italiana (il 30% considera da noi le tasse il maggior problema). L’elemento più importante è lo sguardo a medio termine (2020) che migliora un po’ la flessione di immagine. Per la gente il mondo non offrirebbe opportunità così forti (i pro e i contro la globalizzazione si neutralizzano nell’opinione pubblica europea). E i governi della propria nazione ottengono in media metà della fiducia che si esprime genericamente verso l’Europa. Così da rendere possibile la “demoscopia degli auspici” sul futuro prossimo dell’Europa. A fronte di ciò una parte – difficile da quantificare, forse due terzi –  del prodotto comunicativo delle istituzioni sta su aspetti solo descrittivi delle competenze. Mentre una parte robustamente minoritaria cerca di leggere queste ansie per servire con maggiore interattività la società verso una fruizione migliore di diritti e opportunità.
 
Elementi da collegare a ciò che si è appreso in edizioni precedenti di Europcom, quando Dominique Mégard – oggi presidente di CapCom in Francia – ha spiegato i dati di una ricerca secondo cui due terzi (guarda caso !) dei comunicatori pubblici in Europa (il 65%) non ha accesso agli ambiti decisionali delle proprie organizzazioni. Ma – attenzione – un terzo lo ha. Si potrebbe dire che quel terzo è più consapevole di orientare la comunicazione verso un ruolo di accompagnamento della società sul terreno sia identitario che competitivo.
Quali sono allora le risposte per la vasta armata degli operatori? Operatori che – uffici stampa, sportelli, call center, comunicazione integrata, relazioni sociali, eccetera – sono centinaia di migliaia in Europa, decentratissimi, sutura spesso irrinunciabile nel rapporto tra istituzioni e cittadini, con un futuro che nella crisi assume senso solo se distaccato da ogni ipotesi di propagandismo e se collocato in una condizione di gestione vera della bilateralità e dell’organizzazione dell’ascolto.  Quale è il bilancio dell’innovazione nel sistema europeo della comunicazione pubblica? Quale è il principio di sussidiarietà veramente applicato, per cui i messaggi non sono più verticali ma interattivi e centrati sull’ascolto?  Sta qui il punto critico che investe istituzioni comunitarie e nazionali. Molti governi, anche quello italiano, hanno subito involuzioni, rachitismi e marginalizzazioni delle funzioni.
 
Il dibattito degli operatori europei – nella conclusione di Europcom che avviene mentre la città si blinda per il vertice europeo – è su questi interrogativi. Li rilancia anche il direttore generale del Consiglio UE Rijo Kemppinen, che si rivolge alla platea dei più giovani per avere riposte. E anche la VP della Commissione Neelie Kroes – responsabile della Agenda digitale europea – accoglie la parola d’ordine del momento: largo ai giovani. Naturalmente punta sui contenuti delle sue competenze per generare risposte strutturali e valide per rilanciare la crescita. Il capo dell’Associazione europea delle agenzie di comunicazione Dominique Lyle arriva addirittura a presentare uno spot in cui una bambina rompe con rabbia il vetro che racchiude, nel vuoto, il patrimonio culturale immoto dell’Europa – statue, palazzi, libri in marocchino – per rivendicare che il suo futuro è internet (ma nello spot sfugge la gaffe di rottamare così una biblioteca in cui spiccano Darwin e Platone !). La risposta più organica – va detto – viene da un americano, il capo di social@Ogilvy John Bell che spiega che un responsabile moderno della comunicazione pubblica si deve considerare un “organizzatore sociale”; deve attivare un “digital acceleration team”; deve fare entrare la trasparenza nella creazione di valore per istituzioni, cittadini e imprese. In breve, deve riorganizzare la relazione in senso orizzontale. Lo applaudono. Ma le pratiche del grosso delle nostre istituzioni, soprattutto governative, sono ancora trattenute dal “dilemma”. Caso mai si preparano discorsi appunto interrogativi per la sequenza dei convegni che esse stesse producono.