Emilio Pozzi (22 aprile 2010)
(23 aprile 2010) – Bruno Pellegrino mi da la notizia uscita oggi sulla Stampa (anche i necrologi sul Corriere sono di oggi) della scomparsa avvenuta a Milano di Emilio Pozzi. Questa la notizia “torinesizzata” uscita in cronaca sulla Stampa: “È morto ieri mattina a Milano Emilio Pozzi, 83 anni. Giornalista, è stato direttore della sede Rai di Torino tra gli anni 80 e 90 e dimostrò particolare interesse per la salvaguardia del centro di produzione di via Verdi. Aveva rispetto delle origini e delle professionalità cresciute sotto la Mole e utilizzate, poi, a livello nazionale, anche da Roma e da Milano. Suo era già stato nel 1984 l’allestimento della mostra «La radio, storia di sessant’anni», un’iniziativa itinerante tra Torino Spoleto, Napoli e Bari. Giovanissimo aveva partecipato alla Guerra di liberazione (1943/1945) come partigiano. A 17 anni fu arrestato dai nazisti e rinchiuso a San Vittore. Giornalista apprezzato, ha lavorato a Milano e Roma. Dopo l’incarico torinese, è stato segretario consigliere dell’Ordine nazionale dei giornalisti. Docente di Teatro alla Facoltà di Sociologia di Urbino, negli ultimi vent’anni, da volontario, si è dedicato al recupero dei detenuti di San Vittore”.
Emilio aveva invece una forte milanesità. Quando fu nominato direttore della Rai a Torino avrebbe molto più volentieri fatto rotta su corso Sempione. I suoi legami con il teatro milanese sono stati di una intera vita e tra di essi quello di fondo – a cui La Stampa non fa cenno – con Paolo Grassi. Di cui fu scudiero, vittima, consigliere, perseguitato, aiutato, collaboratore. Soprattutto amico.
In questa chiave la mia conoscenza avvenuta nel 1977 quando Grassi andò a presiedere la Rai.
Grassi era amico della mia famiglia – in particolare di mio zio, che era stato generale comandante del III corpo d’armata a Milano e che aveva concordato con l’allora sovrintendete della Scala il modo di mandare i militari di leva all’opera (cosa che Grassi diceva essere “grandissima”), mentre suo fratello Enzo e sua cognata Titti erano amici dei miei genitori. Mio zio morì tragicamente nell’agosto del 1977 e Grassi – sotto l’infuocata tettoia del padiglione Finsider alla Fiera del Levante a Bari nei primi di settembre (dove andava d’obbligo tutta la nomenclatura del gruppo IRI) – mi chiese notizie soprattutto per dirmi la sua opinione su di lui. Parlammo intensamente. Il giorno dopo fu Emilio Pozzi a dirmi che Grassi voleva vedermi al settimo piano di viale Mazzini. Mi chiese di lasciare tutto ciò che facevo per andare con lui alla Rai. Di quelle proposte che nella vita bisogna essersele sentite fare almeno una volta. Dissi sì senza pensarci un momento. Fu lungo e laborioso l’ingresso. Così, senza mediazioni di partiti, senza le liturgie politiche che per la Rai sono d’obbligo, senza raccomandazioni (anche se questa era una sorta di super-raccomandazione). Le resistenze della direzione generale democristiana dell’azienda a un rafforzamento del presidente socialista (con un posto in più nel suo organico) furono esercitate fino all’ultimo, soprattutto dal vice-direttore generale Fabiano Fabiani. Grassi accettò e mi fece accettare un ingresso non da dirigente (ultima delle resistenze messe in atto) malgrado le funzioni assegnate (dirigenza che poi arrivò oltre un anno dopo la mia assunzione, per prevalente impegno assunto da Walter Pedullà e di conserva anche da Enzo Cheli).
Fu Emilio il tramite quotidiano di quella vicenda. Che temperava entrambi (il presidente e il sottoscritto) e che mediava con l’altro lato del settimo piano. E fu lui a tessere in quei tempi la rete dei socialisti della Rai attorno a Grassi, anche se dal ’76 al ’78 il quadro politico del Psi ebbe il consolidamento di Craxi (e l’arrivo sulla scena della politica televisiva di Martelli). Cosa che mi mise in condizione di salvaguardare quella rete dandovi un carattere che risultò a via del Corso più digeribile. C’era lealtà e realismo tra di noi. Grazie a cui dovemmo soprattutto misurarci con la prolungata malattia di Paolo Grassi rispetto a cui quella presidenza resse le necessità di ruolo e di dialogo con il mondo esterno e anche interno.
Nei primi giorni di dialogo Emilio mi aveva regalato Quarant’anni di palcoscenico il libro edito da Mursia nel 1977 scritto da lui per raccontare la storia tra Grassi e il teatro milanese. Per i dirigenti della Rai era la “bibbia” per scoprire chi fosse questo mitico presidente capitato a viale Mazzini a presiedere un elettrodomestico che non gli piaceva. E dal libro si capiva il perché. Un libro appassionato, datato, milanese, prezioso.
Poi i rapporti tra Grassi e il Psi si fecero difficili. Alla fine del suo mandato anch’io non riuscivo più a tenere certi equilibri. Grassi, in uscita dalla Rai, si adombrò anche con me. Ma Emilio capiva il quadro che si era delineato. Lui, interno, poi ebbe dignitose collocazioni. Io feci due anni con Sergio Zavoli alla presidenza e andai nell’82 a dirigere l’Istituto Luce. Con Paolo si riprese poi il dialogo e anche affettuosamente. Con Emilio Pozzi – andando lui a Torino – le relazioni si diradarono. Lui aveva però sentimenti non più sereni nei confronti delle nuove classi dirigenti (un po’ a ragione e un po’ a torto) e, per anagrafe, credo che anch’io feci parte di un certo raffreddamento. Ma dal 1985 andando a lavorare a Palazzo Chigi la mia strada fu oggettivamente diversa e ritrovammo in alcune occasioni la possibilità di avere insieme parole buone e affettuose sulle cose del recente passato.
La vita è così. Accadono cose di una certa importanza. Il vento si alza e ti scompiglia i capelli, ti fa volar via l’ombrello, ti disorienta. Sei altrove, magari sotto un riparo, e non fai in tempo a riordinare le idee sulle tue storie, sui tuoi rapporti, su chi hai perso di vista, chi magari hai trascurato, che poi non è più il vento a turbarti, ma la notte.
I lutti recenti mi fanno questo effetto. E i congedi in questi casi mi paiono più difficili.