Elvira Sellerio (3 agosto 2010)


La scomparsa di Elvira Sellerio –  “donna di grande finezza animata da forte passione civile”, ha ben sintetizzato il presidente Giorgio Napolitano –  obbliga a qualche annotazione questo mio piccolo angolo di sito che registra da qualche tempo le sempre più frequenti occasioni di doloroso congedo personale da frammenti di vita che la vita delle persone tiene sempre in condizione di completarsi, di integrarsi, di mutare; mentre la loro morte un po’ li pietrifica, comunque li ripone nello scrigno nella memoria.

I giornali di oggi (4 agosto) consacrano uno spazio importante e danno “dimensione” a quella intelligente e voluta “sottodimensione” con cui Elvira Sellerio ha trattato la maggior parte della sua produzione editoriale, i celebri quadernetti blu capaci di diventare best-seller senza nessuno dei caratteri tipografici del libro-vetrina oppure i meno noti libretti verdi che hanno raccolto e dato grande valore moderno a infiniti pregevoli materiali dell’identità culturale siciliana. La sua scomparsa segnala che il Mezzogiorno italiano è stato capace di grandi cose nel panorama culturale italiano, sapendo – per chi l’ha conosciuta e vista nel suo contesto – che ciò era sorretto da molta passione personale e di pochi collaboratori negli uffici di via Siracusa ma non certo dalle strutture della grande editoria del nord. In ogni caso un segnale di cui il sud Italia – che rischia ormai il distacco definitivo (come sostiene Giorgio Ruffolo nel suo ultimo libro attorno a cui è dedicato un mio lungo colloquio con lui che uscirà in autunno su Mondoperaio) – è stato capace non solo di non distaccarsi ma anche di fare meglio. Si dirà che la Sicilia è un altro sud. In parte ciò è vero e in parte ciò non è vero. Grosso modo queste parole, mescolate a amarezza per le condizioni di reattività sociale di Palermo, le sentii dalla voce stessa di Elvira Sellerio, quando mi invitò – allora io all’inizio delle funzioni di direttore generale dell’editoria alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – a colazione al ristorante dell’Ippodromo di Palermo insieme ad Enzo Sellerio, per una sorta di accreditamento che Elvira compiva nei confronti delle istituzioni segnalando la necessità di cooperare ad un progetto di grande senso non solo per Palermo e la Sicilia ma per tutta la cultura italiana. Vi è chi poi ha criticato quel po’ di cooperazione che è stata possibile tra le istituzioni e la casa editrice (noi più morale, la Regione Sicilia più materiale), critiche che basterebbe vedere con animo sereno il catalogo di quarant’anni di lavoro per capirne la miseria. Argomento che abbiamo condiviso un giorno con Giovanni Puglisi, mio rettore e parte significativa – oltre che suo amico personale – dell’evoluzione editoriale di Elvira Sellerio.

Era stata colpita da una “prolusione” che mi era toccato di fare appena arrivato a Palazzo Chigi, a 37 anni, sulla memoria di Luigi Capuana, “trascinato” alla società Dante Alighieri dal prof. Giuseppe Padellaro (storico direttore generale che mi aveva preceduto, padre di Antonio) e voleva che trasformassi quel testo (che neppure esisteva) nella prefazione alla riedizione delle Favole appunto del Capuana. Non considerai quel testo degno di una prefazione e ne facemmo una post-fazione che ancora è in quel magnifico libretto che contiene anche alcuni sapori della mia infanzia (che lì spiego). Ma ci fu tutta una più complessa vicenda di coincidenze, anche stupefacenti, che ho raccontato nel paragrafo Le favole del Capuana in Quarantotto (Bompiani 2008). Coincidenze che spiegano l’arcano della coincidenza nelle questioni di Sicilia e che spiegano i rapporti che a volte in modo speciale si creano tra le persone che ne sono in qualche modo portatrici. Un mio testo – dedicato al frammento di storia familiare siciliana (Sotto la palma di Villasmundo) – era finito due anni prima sul suo tavolo, con benevola lettura poi dello stesso Sciascia, ma con tempi di realizzazione troppo lunghi così che finì stampato altrove. E anche lì si crearono coincidenze. Che proseguirono nel quadro di rapporti con Vincenzo Consolo (che mi succeddette alla presidenza del Premio internazionale Unione Latina) a proposito del suo Retablo e dei rapporti con Fabrizio Clerici, cosa che anch’essa ho raccontato in Quarantotto parlando appunto di Clerici e di una meravigliosa storia personale che ha anche ispirato Le pietre volanti di Luigi Malerba.   E coincidenze si erano soprattutto create nel 1982, quando – negli ultimi mesi della mia esperienza alla Rai, al tempo assistente di Sergio Zavoli che presiedeva l’azienda (ma che presiedeva quell’anno anche il Premio Campiello) – seguii la caparbia idea di Sergio di far vincere il Campiello ad un meraviglioso outsider, che era Gesualdo Bufalino con il suo capolavoro La diceria dell’untore. Vincere un premio – del genere, poi – sono tante piccole cose che non merita neppure di dire, ma la felicità (di lettore prima di tutto) che provocò in me quel successo, il cui merito essenziale fu nel rapporto tra Zavoli, Elvira Sellerio e la straordinaria personalità di Bufalino che da quel Premio divenne una voce autorevole della cultura italiana, fu grandissima e indelebile. Quando due anni fa arrivai, con mia figlia Amelia in un giro della Sicilia, alla Fondazione Bufalino a Comiso, rinnovai il piacere di vedere che una volta tanto la Sicilia non seppelliva le sue glorie ma cercava di tenere pulsante il messaggio. Inutile dire che – nella gestione dei Premi della Cultura della Presidenza del Consiglio – ci fu l’occasione, da me molto curata,  del giusto riconoscimento a Elvira Sellerio. Che comunque – come ricorda Paolo Di Stefano oggi sul Corriere – “non fu succube di nessuno, ascoltava Sciascia ma spesso faceva di testa propria, pure a costo di litigarci”. Coincidenze e piccoli legami forti che passano attraverso corrispondenze anche impalpabili di senso, rendono i rapporti duraturi, anche se non alimentati dalla cronaca della vita. Cosa che un giorno – facendo ormai altra vita – con Elvira Sellerio rincontrata a Roma ci siamo detti. Ed è stata l’ultima.