Elezioni Lombardia. Analisi del voto, spunti per l’agenda (in Mondoperaio 3-2013)
mondoperaio (n. 3/2013)
Lombardia is different
Breve analisi delle elezioni, spunti per l’agenda del dopo-voto
Stefano Rolando
Il commento generale attorno al voto intercetta prioritariamente il dilemma nazionale. Accresciuto dal rischio della paralisi. Situazione che comporterebbe una certa creatività. Cioè soluzioni inedite per creare condizioni di salvezza delle istituzioni e per non lasciare l’Italia in preda, un’altra volta, al discredito internazionale. Siccome nel braccio di ferro tra destra e sinistra ha vinto (ovvero ha perso meno) la sinistra; e siccome i grillini, veri vincitori, hanno un prevalente interesse, almeno per ora, a giocare di rimessa, è la sinistra che deve fare la mossa. E attorno a questa mossa si giocherà la costruzione di un sentiero intelligente oppure la produzione di una slavina che obbligherà al salto di generazione, al salto di icone, al salto di tradizione. C’è chi, consapevolmente lavora per la slavina. C’è chi pensa che il sentiero possa raccogliere truppe responsabili per affrontare un voto di fiducia e un’elezione non avventurosa del prossimo capo dello Stato. Di mezzo c’è chi pensa di sopravvivere nella palude.
Lombardia in transizione
In tale cornice, che ha in questo fascicolo altre competenti analisi, questa breve nota si limita alla Lombardia. Nell’ottica che provo a sostenere da qualche tempo su queste colonne, secondo cui “Lombardia is different”. Ovvero che il cantiere della transizione trova qui un suo assetto, un suo senso, una sua verifica sia sul lato della politica “professionale” sia sul lato del partecipazionismo civile e sociale.
Dalle elezioni – malgrado la sconfitta – esce questo. Altri modelli di cantiere politico risentono e continueranno a risentire molto del profilo stressato della politica italiana: stressato sul “Palazzo”, quindi sul principio di sopravvivenza di quella che – piaccia o no – si percepisce come “casta”; oppure stressato sulla condizione di “jacquerie” in cui una società reattiva si consegna volentieri a populismo e demagogia credendo che basta agitare una ramazza per fare pulizia.
La Lombardia ha prodotto negli ultimi anni cambiamenti nelle amministrazioni locali (non solo Milano, ma anche capoluoghi intermedi e molti centri minori) estendendo la responsabilità finora dei partiti anche a liste civiche. E ha provato in questa ultima competizione ad accrescere il cantiere del “patto civico”. Cioè il patto tra partiti e soggetti sociali disposti a impegnarsi su interessi generali. Lo ha fatto pur nel quadro di una campagna affrettata, per alcuni versi drammatica, forse ancora povera di teoria e tuttavia con un progetto abbozzato ma non banale, generato in tempo reale e quindi non adeguatamente e profondamente condiviso.
La campagna si è basata sulla percezione di una “Lombardia finalmente contendibile” e nel convincimento che il passaggio dalla continuità al cambiamento – non solo affidandosi alla questione morale – avrebbe sedotto almeno la maggioranza relativa di cittadini. Quelli consapevoli della condizione stagnante dell’economia, della crisi crescente della piccola e media impresa, della “non convenienza” della corruzione, della sterilità di una democrazia che limita l’accesso alla responsabilità solo all’affiliazione. Sempre ricordando che nelle sfaccettature del “different” resta acquisito che la Lombardia, nel suo insieme, tende a non votare nulla che profumi anche lontanamente di comunismo e di “sinistra” ideologicamente intesa.
Il centrosinistra dei partiti ha accettato questa formula e questa “differenza”, pur soppesando con qualche perplessità il candidato. All’inizio endorsato soprattutto dal sindaco di Milano Pisapia. E il candidato – forte e debole della sua diversità – ha accettato di misurarsi nelle primarie per far cadere alibi. E per legittimarsi. Superata egregiamente la prova, la campagna doveva naturalmente svilupparsi con più protagonismo civico che quello dei partiti. Pena far dire che il burattinaio restava il Pd e che il teatrino era solo un’invenzione comunicativa. E la campagna si è dunque sviluppata nel territorio non nei “salotti buoni” di Milano, come qualcuno continua scioccamente a dire perché non sa uscire dai luoghi comuni nel giudicare questa esperienza. E ha schierato tre genere di soggetti : soggetti politici tradizionali (Sel, Idv, Socialisti, Popolari, questi ultimi tuttavia in uno sforzo particolare di novità e di continuità); soggetti politici in trasformazione (Pd e Etico!-a sinistra); e soggetti non partitici (la Civica legata al nome di Ambrosoli). Le urne hanno lasciato in campo solo il Pd e la Civica (il primo al 25%, la seconda a oltre il 7%). Ma le urne hanno fatto mancare quella quota di voto disgiunto per far propendere il testa a testa verso Ambrosoli e non verso Maroni.
I 2 punti e rotti in ballo sono stati assicurati dai Pensionati – passati dallo schieramento di sinistra a quello di destra per la disinvoltura di questa cinica ditta famigliare (1 punto) – e dal voto disgiunto dal centro in realtà dato più alla destra, quasi 2 punti che hanno fatto la differenza. Non è bastato il punto trasferito coraggiosamente dai Popolari Lombardi (ex-Udc) dal centrodestra al centrosinistra, lasciando così il differenziale, di 2 punti e qualcosa, in meno per Ambrosoli e in più per Maroni.
Non banale consolazione per il centrosinistra quella di vincere in tutte le città capoluogo della Regione, compresa la Pedemontana fortemente leghista (salvo Varese, ora a distanze raccorciate), raccogliere sulla Civica 380 mila votanti (7%) e risultare come coalizione più forte in Regione del 5% rispetto alla Camera e quasi del 10% rispetto al Senato. Le perdite si registrano nelle campagne, nelle valli, nella profondità. Riproponendo quell’antagonismo tra città e contado che ha caratterizzato la storia moderna di questo territorio e lasciando – in una contesa elettorale corta – soprattutto nella profondità il solo mezzo televisivo a fare la differenza. Laddove Maroni e Berlusconi, leader nazionali, se ne infischiavano della par condicio regionale ed entravano nelle case degli elettori ad ogni ora.
Un progetto da schiudere
Qualcuno caverà dalle righe precedenti un breve inciso e ne chiederà ragione. Il breve inciso è: “senza teoria e con fragile progetto”. Non ritiro le parole. Ma le spiego.
Una teoria (dico una teoria, non una ideologia) non è costituita da qualche libretto magari ben scritto per accompagnare alcuni eventi. E’ un sistema di analisi proteso davvero verso il cambiamento che offre se stesso (soprattutto quando è voluto e accettato dalla politica) per fornire interpretazione e creare ipotesi praticabili. All’elezione a Milano di Giuliano Pisapia questi contesti progettuali stavano nella torre d’avorio. Dopo quell’elezione non hanno fatto grandi passi per manifestare la propria dedizione civile. E la stessa rete universitaria ci ha messo un po’ per dare segnali chiari. Li ha dati – come persone, si intende, non tanto come establishment – in vista delle Regionali. Troppo tardi per generare un pensiero strutturato, ma almeno senza rifiutare che un centinaio di professori e ricercatori sentissero la spinta per partecipare. Cioè per sedersi a ore impervie e talvolta la sera attorno a tavoli di incerta garanzia (per le loro carriere o per il loro bisogno di corteggiamento). E quella “teoria” che si è confezionata è riuscita almeno a profilare meglio il rifiuto di dare continuità al ciclo stra-consumato del formigonismo (ciellini e leghisti in lite su tutto, con il Pdl in vacanza) per restituire etica e ripresa economica ad un sistema disidratato moralmente e materialmente. Forse questo è ancora troppo poco. Quanto al progetto – vedere per credere [1] – il risultato si ritrova in un testo interessante ma frenato, cioè molto vincolato dal quadro di crisi in cui è collocata l’analisi della realtà. Quel risultato tuttavia configura un punto di partenza non insignificante per ragionare di regionalismo e federalismo partendo dal mondo della realtà e non dal mondo dei sogni.
Contro il cinismo di chi pensa che un programma sia un puro atto burocratico, qui c’è almeno un indirizzo di metodo. Metodo per cui le riforme sono possibili a fronte di tre compatibilità severe: limiti del suolo e dell’ambiente (ma inventando soluzioni che generino nuova economia); limiti delle risorse finanziarie (ma sapendo come ampliare gli investimenti); limiti di classe dirigente (ma con un progetto di formazione).
Con questi corredi qualcun altro dirà che si combatte male contro la demagogia del “75% di tasse da trattenere in Lombardia” (dopo che si è dimostrato che già ne resta il 78%) o contro la sollevazione dei pensionati in coda all’Ufficio postale per farsi restituire l’Imu. Ma questo è il quarto e forse invalicabile limite: se la sinistra affonda il suo briciolo di razionalità dentro l’annegamento comunicativo propagandistico, perde l’anima per sempre. Può forse anche vincere, ma solo per omologarsi ad una sorta di masaniellismo indistinto in cui conta solo la propaganda e la seconda scarpa del comandante Lauro.
Monti senza lungimiranza
Si comincia a dirlo: nel quadro impervio del rebus nazionale, il centrosinistra vincente in Lombardia sarebbe stato un contenuto politico importante da mettere ora sul tavolo delle soluzioni del Paese. Chi produce un quarto del Pil nazionale, se lo vuole, può entrare in questa partita. A condizione di essere già in grado di rappresentare efficacemente tutte le reti che contano per la ripresa (impresa, lavoro, ricerca, welfare, cultura, eccetera) cosa che – è inutile nasconderlo – il nuovo centro-sinistra del Patto Civico non poteva del tutto vantare. Troppi soggetti alla finestra, troppi legami forti con il vecchio potere, troppo opportunismo “borghese”.
Non dico che è per questo che si sia perso, ma è certo che il mancato voto disgiunto tra centro e centrosinistra risponde al tema. Avrà anche ragione Walter Veltroni a dire che Monti ha posto un argine alla destra, ma il Monti “albertinizzato” in Lombardia è stato un atto di improvvisazione e una mancanza di lungimiranza. Per arginare davvero la destra doveva schierarsi in Lombardia per Ambrosoli non frenare.
Solo partendo da cosa avrebbe potuto rappresentare oggi una diversa Lombardia nel contesto assai critico nazionale (tra l’altro togliendo dall’isolamento la capitale economica d’Italia, cioè Milano) viene da rivolgere – oltre a quella a Monti (e all’indecisionismo involuto di Casini) – più di una critica al ritardo con cui la politica nazionale del centrosinistra si è mossa sulla questione nord e sulla questione Lombardia. In particolare non facendo tutto quello che era necessario per la miglior soluzione possibile che la società lombarda aveva messo a disposizione per chiudere per sempre la strada alla Lega e togliere la ridotta a Berlusconi, cioè Umberto Ambrosoli. Fino a dieci giorni dal voto i più pensavano alla Lombardia solo come il passaggio per regolare il voto al Senato. Non alla soluzione in Lombardia della chiusura della “seconda Repubblica”. Quest’ultima percezione la si è sentita da Enrico Rossi, presidente della Toscana, accorso a Brescia. Poi l’hanno evocata nei loro tour Bersani e Renzi. Ma eravamo già a fine corsa. Tra dicembre e gennaio, quando il Corriere della Sera (13 gennaio), solo in base a un sondaggio congiunturale di Mannheimer, ha intitolato a più colonne la prima pagina sul sorpasso di Maroni su Ambrosoli, per segnalare che l’establishment non era per niente pronto al cambiamento, nessuno ha fatto un plissè. Un clima di incertezze annegato nello sconfittismo dell’elettorato di centrosinistra della Lombardia che, per buona parte della campagna (dati Ipsos) – raddrizzandosi cioè solo alla fine – ha dichiarato di votare Ambrosoli pensando che il vincitore sarebbe stato Maroni.
In due tempi
Ora partiamo da un deficit di consensi e da una condizione di minoranza in Regione. Ma anche dalla percezione di una coalizione ammaccata ma coesa a fronte di una maggioranza composta da frazioni in lite, di incerta stabilità e di perdita di consenso in tutti i rilevanti contesti urbani.
Dunque, come si è detto, una “Lombardia contendibile”. Una Lombardia in cui, attenzione, M5S è al 14% contro il 25% nazionale, a dimostrazione che – pur togliendo voti alle Lega e al Pd – le ragioni d’urto della proposta grillina hanno trovato nell’originalità di posizionamento di Ambrosoli un muro importante. Un muro che – nel quadro di una doppia opposizione al centro-destra che profila molti punti programmatici in comune tra 5 Stelle e Centrosinistra – mette lo stesso Ambrosoli nelle condizioni di scegliere di collocarsi non nei ruoli formali dell’opposizione in Aula (Ufficio di presidenza e guida del Gruppo) ma in quella alleanza tra politica e civismo che, in forma di movimento, aveva lui stesso costruito per le primarie e poi per la campagna elettorale. Cioè il “Patto Civico”. Quindi scelta di territorio, scelta di continuità di dialogo con la società, l’economia e la cultura. Scelta di rigenerazione del rapporto tra società e politica anche fuori dalle città.
Mentre questa nota è in scrittura vi sono solo primi annunci di questa posizione ma ci sono anche migliaia di messaggi che chiedono di “non mollare!”. Siccome la Lombardia ha mollato ad ogni sconfitta e ha ricostruito ogni volta daccapo, oggi la lezione dovrebbe essere ampiamente acquisita e le stesse tematiche difficili della campagna (fisco, questione nord, rappresentanza sociale, pubblico-privato, garanzie per welfare) possono essere iscritte in un percorso di consolidamento sia teorico che di movimento.
A un quarantenne che ha spostato in alto l’asticella dei consensi e ha allargato il perimetro del dialogo tra politica e cittadinanza attiva dovrebbe essere concesso il progetto in due tempi.
Condizioni per l’agenda politica della riscossa
Non basta tuttavia la condizione simbolica di una buona candidatura per organizzare la traversata notturna che la prolungata opposizione in Lombardia ora comporta. Il problema adesso non è strettamente il consenso, è piuttosto l’organizzazione. Allo stato non è detto che tutto ruoti a favore. E comunque questa riorganizzazione passa attraverso la riformulazione chiara di alcuni obiettivi. Presto per ridefinire un progetto che ha bisogno di ripartire dal basso, da assemblee, da opinioni diverse da far convergere. Ma alcuni punti – che sono già il frutto dell’intensa esperienza svolta – potrebbero essere riepilogati.
- Va ripresa in mano la stesura del progetto elettorale per ritagliare le parti che possono costituire premesse di una interpretazione del cambiamento strutturale del nord e della Lombardia in particolare. Non basta citare la biblioteca di tradizione (da Cattaneo a Turati, da Vanoni a Miglio, per citare quattro illustri lombardi) per aggiornare le riformabilità. Oggi senza una analisi sociale ed economica capace di leggere la seria antinomia tra la condizione localistica e quella globale della Lombardia non si mette in piedi nemmeno un banale provvedimento di programmazione finanziaria dell’anno solare. Senza una lettura martinottiana (che sarà una voce molto rimpianta in una fase come questa) dei “confini interni” non si capirà perché città e profondità sono in conflitto non solo elettorale. Senza una spietata analisi della crisi dell’università, intesa come centro attivo di socialità e centro d’avanguardia nella ricerca applicata, non si daranno le gambe a nessuna ipotesi di integrare saperi e decisioni. Senza una coraggiosa ripresa del ruolo delle scienze politiche e sociali nella formazione della partecipazione i partiti non discuteranno il loro nuovo possibile modello (e sbrigativamente si affermerà invece il modello bavarese di Maroni) e soprattutto il civismo non comprenderà se stesso come fonte di un modo nuovo di fare politica (argomento su cui, salvo uno spunto encomiabile di Mauro Magatti nell’unico giorno di riflessione culturale che la campagna ha concesso, non si è approfondito adeguatamente, almeno per come il “civismo” è stato sbandierato).
- I modelli di democrazia partecipativa (ne ha fatto un cenno lo stesso Ambrosoli annunciando la continuità del suo impegno) possono essere proposti e sostenuti da una convergenza pragmatica tra il centrosinistra e M5S. Hanno, insieme, la maggioranza dei consensi elettorali, sono sollecitati da elettorati e corpi intermedi che hanno su questo tema una loro domanda forte che non deve essere tradita. E’ un tema limitato ma qualificante. Prima di immaginare, con scorciatoie di vecchia politica, facili sogni, si può tentare qui un laboratorio legittimo. Ed è l’Europa più avanzata ad essere un modello di riferimento, assicurando anche normative importanti in materia di dibattito pubblico. E chissà che questa pratica riduca un po’ l’antieuropeismo di partenza dei grillini che – insieme alla scarsa democrazia sostanziale che ancora pesa sulle loro pratiche di gruppo – sono allo stato i limiti maggiori di un movimento che deve ancora produrre la sua identità post-protestataria.
- L’approccio ai tavoli delle crisi in atto (imprese-sindacati-istituzioni) è un obiettivo da perseguire con una urgenza, una intensità e una progettualità che il centrosinistra lombardo deve avere, forte di una sua maggiore connessione, ovvero di una minore avversione dei leghisti, con l’amministrazione centrale e le istituzioni comunitarie. Abbiamo toccato con mano che l’analisi delle “quattro Lombardie” territoriali (ci ritorna ancora Aldo Bonomi nel commento dopo-voto sul Sole -24 ore) si integra ormai con la “quinta Lombardia” – quella della crisi e della povertà – non permettendo di divagare. Nell’agenda del Patto Civico – qui – non basta solo ricordare l’esigenza della riforma dei partiti, deve esserci anche – con un tallonamento serio e costante – anche il tema della modernizzazione dei sindacati.
- L’uso della piazza digitale, come concreto luogo di elaborazione, di scambio e di comunicazione, pur seriamente sperimentato, deve fare un salto in avanti, partendo da un rispetto reale di ogni singolo soggetto di iniziativa e di proposta, qui sovvertendo modelli di organizzazione politica ancora basati su convocazioni, comitati e nomenclatura. Ma al tempo stesso anche strutturando in modo chiaro responsabilità e obiettivi da raggiungere.
- Un ultimo punto di approccio generale deve riguardare l’uscita rapida dal mood elettorale, quello per il quale il racconto di sé come buoni e degli avversari come cattivi è un copione obbligato. E’ sicuro che il berlusconismo sia in declino; è sicuro che il formigonismo abbia compiuto uno sbaglio fatale nel voler svolgere – per spinta ineludibile degli interessi rappresentati – il quarto mandato; ed è sicuro anche che il leghismo andato a carte quarantotto non abbia la sola responsabilità del “cerchio magico”. Tuttavia Maroni non è uno stupido, il risultato della sua lista personale (oltre il 10%) mette Pdl e la stessa Lega senza crediti nei suoi confronti, il suo progetto di “macroregione” può rapidamente recedere da istanze secessioniste e diventare politica di alleanze istituzionali, così come il suo progetto di modello di partito può trovare, gestendo un potere reale in Europa, la pista della CSU bavarese. Come si insegna nelle scuole di concorrenza, il competitor va studiato, compreso nei punti di forza e superato con un progetto migliore.