Presentazione del libro di Paolo D’Anselmi
Presentazione Egea Milano 11 novembre 2008 del libro di Paolo D’Anselmi Il Barbiere di Stalin – Critica del lavoro (ir)responsabile Università Bocconi Editore
Francesco Bertolino (Università Bocconi) , Gianfranco Fabi (Il Sole 24 ore), Stefano Rolando (Università IULM)
Intervento di
Stefano Rolando
Paolo D’Anselmi è un ingegnere.
Nel testo che qui presentiamo ciò ha evidenze metodologiche. Programma i capitoli e periodicamente riassume la portata dei capitoli precedenti. Propone – su dibattiti abitualmente opinabili, come è quello sulla responsabilità – tassonomie. Anela classificazione.
Siccome ogni italiano si trascina la cultura delle contraddizioni nazionali, anche l’ing. D’Anselmi poi chiede ordine ma accetta un po’ il caos, partecipa alla razionalizzazione ma accetta che non vi siano i presupposti per un “disegno” razionale attorno alla “rendicontazione” del rendimento.
In più – nella consapevolezza del suo approccio disciplinare – si fa mitigare da un sociologo, Aldo Bonomi, che ha scritto un’interessante prefazione. Grazie a Bonomi è in immediata evidenza la prima questione: per gli italiani il “responsabile” di un male è sempre un altro. Ciò che si lega a vari e connessi fenomeni: il “benaltrismo”; il “io nel mio piccolo”, il “mi assolvo perché lo fanno tutti”. E soprattutto, grazie a Bonomi, si coglie la portata politica della questione proiettata dalle persone al sistema: il conflitto tra rendita e lavoro produttivo produce una vera e propria assenza della cultura moderna del lavoro.
E’ il contesto attraente e respingente in cui l’autore colloca appunto la sua equazione sugli occupati. Un rapporto numerico è al centro dell’analisi: 6 milioni di occupati garantiti, contro 16 milioni di occupati in condizioni concorrenziali.
In quei 6 milioni di occupati in una area sospettata di essere una zavorra, c’è evidentemente anche la pubblica amministrazione. Non è il tema del “fannullonismo”. E’ il tema della povertà dei contenuti di “classe dirigente” in capo alla pubblica amministrazione. Classe dirigente non è un carattere che si assume auto-attribuendoselo. Autonomia istruttoria, qualità della proposta e tenuta del suo negoziato, responsabilità della gestione e delle conseguenze, valutazione e rendicontazione. Questo è il processo che conduce a quell’appartenenza. Si fa presto a vedere chi si salva.
Qui io – per inciso – contribuisco alla discussione con le mie considerazioni contraddittorie. Rintuzzo a fatica la frequente sentenza degli storici italiani che negano per lo più il carattere di “classe dirigente” alla dirigenza della P.A. per lo più dall’unità d’Italia a oggi, ma poi ammetto che nel lavoro nell’amministrazione dello Stato ho avuto, dico personalmente, un contesto che ha consentito più libertà e creatività rispetto a quelli vissuti nel sistema regionale e anche nel sistema di impresa.
Leggendo il libro mi sono posto alcuni quesiti che ripropongo con semplicità.
Ogni tanto su dibattiti-grattacapo, quelli cioè di incerta faziosità, scatta (generazionalmente) un quesito che oggi credo non appassioni più molti. Ma la faccenda è di destra o di sinistra? Oggi verrebbe formulata con altri rivestimenti: ma è una questione vecchia (sguardo all’indietro) o nuova?
Ebbene è facile rispondere che, essendo il tema della responsabilità una preoccupazione di chi ha a cuore le sorti collettive e non solo le sue personali, attorno ad esso cadono facilmente molti stereotipi. Sembrerebbe restare vivo piuttosto il dilemma che Giuseppe De Rita pensò anni fa di sciogliere invitando i cartesiani dello Stato-Nazione a smettere di preoccuparsi, accettando l’idea che l’Italia cresca come “paese bollitore” non potendo assomigliare ai paesi verticalizzati, come Francia, Germania, Gran Bretagna.
Nella stima e nel rispetto affettuoso che ho per De Rita, ho sempre pensato che rinunciare definitivamente all’idea di uno straccio di Stato-Nazione – con le tensioni competitive internazionali che ci riguardano e con mezza Italia occupata dalla malavita – significherebbe (anche per come si sta facendo in questo periodo l’integrazione dell’Europa più attorno alla dinamica intergovernativa che attorno a quella comunitaria) perdere terreni competitivi e perdere controllo della legalità. Dunque attorno alla difesa (pur flessibile) del principio dello Stato-Nazione serve ancora un appello all’etica del lavoro e della responsabilità regolata da razionalità evidenti (come quella della corretta valutazione).
Un altro quesito che fa capolino leggendo questo genere di saggistica sul “dover essere” riguarda la logica del con chi e contro chi. Dovrebbe essere (lo dico qui nell’ambito di un ateneo come Bocconi che si batte per la reputazione d’eccellenza) con chi si sforza di progettare percorsi formativi della classe dirigente fondati su capacità, etica e rendimento. E contro chi si è assoggettato alla logica dell’esamificio-diplomificio. Ma per tornare al rapporto tra i 6 e i 16, inviterei a scomporre meglio le due parti e non darne una per buona e una per persa, perché forse verrebbero fuori anime opposte in entrambi gli schieramenti. Vi è certamente una componente pubblica oggi rispondente ad alto senso di responsabilità (non solo per logiche di “attaccamento”, ma secondo anche parametri che nel mio raggruppamento di Economia e gestione delle imprese sono abituale attrezzeria). Così come tra i 16 D’Anselmi – che non è specificatamente mosso da polemica anti-sindacale – ci aiuta però a capire che le logiche associative che si sono consolidate nell’esperienza italiana a partire dal lavoro svolto in condizioni di mercato non hanno prodotto un’adeguata cultura del lavoro. La critica sottostante pare piuttosto verso Confindustria.
Come si sa l’Italia è paese che accelera nelle condizioni di emergenza. Proviamo allora a pensare che in condizioni di cambiamento (acquisito, imposto, subito, non importa) potrebbero maturare nuovi contesti favorevoli all’etica e alla pratica della responsabilità. Chi ha avuto un po’ di sollecitazione della cultura psicologica a guardare a questo fenomeno (appunto non solo inteso come comportamento collettivo ma come attitudine profonda della persona) sa che le condizioni di contesto aiutano, ma contano i percorsi lcon radici ontane.
Ci dice l’approccio psico-dinamico che la responsabilità è principio collocato in un punto preliminarissimo della vita umana, che è alimentato da qualche condizione di sofferenza, che si è irrobustito conoscendo i “no” responsabili della scuola e della famiglia, che ha comportato una costruzione non patologica del super-Io, poi che si è profilato nell’abitudine alla valutazione. Qui i conti li dobbiamo fare con gli ultimi quarant’anni di processi socio-educativi poco simili al quadro descritto. Insomma, all’appuntamento con il nostro futuro Obama rischiamo di non avere bagagli! Mentre – per poggiare di più su quelle condizioni di forgiatura – potrebbero avere più strumenti le componenti dei giovani che si stanno stabilendo in Italia grazie ai processi migratori (esterni e ancora interni) che, come ci dimostrano le attitudini dei nostri ragazzi in università, tra gli indigeni e gli immigrati, proprio attorno al rapporto tra responsabilità e determinazione sembrano formare nuove condizioni.
Ma scuola, famiglia, istituzioni e imprese dobbiamo leggerle come bacino di pre-condizioni che non inducono a ottimismo, anche perché il fattore di tessitura, di connessione, di valorizzazione delle “buone pratiche” dovrebbe essere la politica. E sulla politica attuale – di destra o di sinistra – l’autore di questo libro non nutre alcuna fiducia, tanto che, nella sua visione dell’accettazione sorniona del caos come condizione per far camminare esperienze di qualità, non prende neppure in considerazione che si debba perdere tempo con la politica (ma anche qui – come per lo Stato-Nazione – poi i conti con i processi legislativi e l’attuazione delle normative bisogna farli e se non hai a disposizione una relazione adeguata con i poteri legittimi te la vai cercando nelle lobbies, nelle massonerie e, all’estremo, nelle rassicurazioni delle illegalità).
Rimane da capire – per noi che ci occupiamo di comunicazione – se la rappresentazione mediatica aiuta un po’ a fare connessione fisiologica, sollecitazione emulativa, racconto esemplare. La lettura adolescenziale de I tre moschettieri, in fondo, ci diede l’idea che fare il “funzionario“ (fare il moschettiere è, ammetto, più divertente che fare l’impiegato postale) ha senso come aspirazione ad avere “un re degno”. La domanda di “responsabilità” dell’opinione pubblica oggi è nel senso di capire se chi sbaglia (salute, giustizia, scioperi illegittimi, eccetera), viene punito. Non so se questa rappresentazione avvenga davvero correttamente. L’impressione è però che sia soverchiante quella dell’opposto e cioè che chi obbedisce è comunque premiato. Quanto all’apporto della “rete”alla cultura della responsabilità non ho elementi di ricerca, fatto salvo il principio della puntiformità dell’alimentazione e della non passività della fruizione. Ma è ambito da indagare meglio.
L’autore non si fida molto della comunicazione, la legge più come sistema orientato alla propaganda che al servizio e all’interpretazione (e qui vi è una grande partita culturale anche interna allo sviluppo della comunicazione pubblica) e anche nel sistema di impresa legge il “racconto” alla responsabilità sociale come una pretestuosità rispetto alle vere opportunità di certe poste in gioco. Quindi ci rimane aperta la discussione sulla cifra metodologica che propone D’Anselmi, che è quella di credere all’obiettivo della valutazione ma non aspettarselo da una risposta di sistema. Oppure continuare a parteggiare (in Italia, in Europa, nel mondo) con chi – pur adattandosi alle pieghe antropologiche della società – cerca di mantenere un po’ di tensione contro le derive che cancellerebbero definitivamente lo sforzo civile collettivo.