Due articoli dedicati al Brasile (in “Rivista italiana di comunicazione pubblica” n. 41-2010)
La temporanea sospensione della pubblicazione di “Rivista italiana di comunicazione pubblica” ha lasciato il n. 41/2010 compiutamente impaginato ma ancora privo della realizzazione a stampa. A stralcio del fasciclo si ospitano qui gli articoli di Stefano Rolando “Riflessioni a margine di un congresso dedicato alla comunicazione pubblica in Brasile” e di Paulo Nassar e Victor Aquino sul tema ” L’immagine del Brasile nel mondo”.
RIVISTA ITALIANA DI COMUNICAZIONE PUBBLICA
N. 41/2010
Riflessioni a margine di un congresso dedicato
alla comunicazione pubblica in Brasile
alla comunicazione pubblica in Brasile
Si apre una grande stagione comunicativa: quest’anno le elezioni presidenziali, il 2011 anno dell’Italia in Brasile, nel 2014 i Mondiali di calcio, nel 2016 le Olimpiadi
Stefano Rolando
Porto Alegre – Giovani ricercatori, dottorandi, quadri impegnati nella comunicazione istituzionale e sociale nel “Brasile continente”, grande e profondo, hanno animato a fine maggio 2010 la sessione finale del 4° congresso di Abrapcorp, l’associazione fino ad oggi guidata da Margarida Krohilig Kunsch (decana di comunicazione e R.P. all’Università di San Paolo) poi presieduta da Ivone de Lourdes Oliveira (Università di Minas Gerais). Il congresso si è svolto alla Pontificia Università di Rio Grande do Sul a Porto Alegre. Anche il Brasile è alle prese con la codificazione di una carriera – quella della comunicazione pubblica – che ha anche qui molti risvolti. L’interesse di questo sistema appare meno rivolto alle legittimazioni formali nelle pubbliche amministrazioni (tema che pure Jorge Antonio Menna Duarte, che lavora a Planalto, nel team di comunicazione pubblica del presidente Lula, mi ha detto essere un tema all’attenzione del governo), ma più rivolto ai contenuti, all’approccio efficace, a qualcosa che potremmo chiamare un “patto” tra dinamiche istituzionali e gestione delle comunità.
Una percezione forse influenzata dal contesto di questa città, che è ha ormai un “brand mondiale” grazie alla decennale storia del World Social Forum, creato qui nel 2001 nel clima del laburismo brasiliano, che poco dopo doveva portare alla presidenza della Repubblica l’ex-sindacalista Luiz Inacio Lula da Silva. Un città a lungo governata dal PT (non più nei due ultimi anni) e una regione che espresse uno storico presidente del Brasile, Getulio Vargas, populista ma con caratteri di governo sociale più concreti di Peròn in Argentina e di Mussolini in Italia. E tuttavia oggi si coglie una generazione di operatori che si dedicano a temi connessi a ciò che lo slogan stesso del WSF ha affermato mondialmente “Un altro mondo è possibile”. Gli stessi tre precedenti congressi di Abracoporp – che ha il suo cuore nella moderna, industriale e finanziaria San Paolo – sono stati dedicati alla sostenibilità, alla umanizzazione dei processi organizzativi, alla comunicazione organizzativa e, quest’anno, alla comunicazione pubblica in una chiave molto attenta al sociale. Ciò suona come un segnale piuttosto forte per l’Italia in cui la pur utile normativa della comunicazione pubblica ha in un certo senso rinchiuso gli operatori della PA dentro le questioni (e a volte anche dentro i vincoli culturali) della funzione pubblica. Cioè non ha sempre favorito l’integrazione, lo scambio, la sinergia con due ambiti che possono chiarificare meglio gli obiettivi strategici di un segmento della comunicazione che si chiama “pubblica” proprio perché deve essere al servizio della società e non solo sentirsi portavoce dei “governi”, siano essi nazionali o territoriali. Gli ambiti cioè – che per loro natura cercano i confronti con le istituzioni – della comunicazione sociale (presidiata da molte associazioni) e della comunicazione orientata alla competizione, al mercato e allo sviluppo (anch’essa rappresentata da associazioni ma anche gestita da singole imprese). Letta attraverso gli interventi di docenti e operatori intervenuti ad Abrapcorp, l’attenzione è molto rivolta al decentramento, alle condizioni sociali più esposte alla povertà. Il Brasile sta esprimendo un livello di crescita tra i più alti al mondo (+5,8% del PIL è la stima per il 2010), ha raddoppiato il salario minimo negli ultimi cinque anni (creando condizioni di ampliamento dell’inclusione) e ha pagato il suo debito pubblico internazionale. Ha le carte in regola insomma per essere credibile nel recupero della marginalità interna che il paese ancora esprime largamente. L’età di Lula ha fatto il miracolo di investire sul miglioramento delle fasce deboli senza minacciare interessi che, in Europa, chiamiamo borghesi. La socialità, così, è un punto di incontro di culture “trabalhiste”, cattoliche e in senso ampio riformiste che animano politicamente un paese che ha dimostrato – già durante la presidenza di centro-destra di Fernando Henrique Cardoso – che l’alternativa tra “laburismo” e “liberalismo” ha una logica democratica pacifica che lascia aperte ipotesi di sviluppo, a destra come a sinistra, avendo ormai al centro il ruolo di un paese che ha i numeri per essere collocato nelle prime cinque potenze economiche mondiali. Lula non ha forzato l’alternativa, anzi ha segnalato continuità strutturali con gli obiettivi economici della presidenza Cardoso. Ma ha aperto una strategia sociale (che coinvolge anche la cultura e l’educazione) molto marcata. Nel l’autunno 2010 le elezioni presidenziali in Brasile metteranno a prova tutta l’influenza che il segmento della “comunicazione politica” ha assunto in un pese vasto, in cui il sistema televisivo decide molto circa il voto e in cui la candidata ancora “sconosciuta” del presidente Lula – Dilma Rousseff, ministro del suo governo in un ruolo che in Italia sarebbe quello di sottosegretario alla Presidenza, espressione dell’immigrazione bulgara, contende il voto allo sperimentato ex sindaco ed ex governatore di San Paolo e già ministro della Sanità Josè Serra, espressione dell’immigrazione italiana. La forza significante dei partiti (la Roussef del PT sulla carta più a sinistra, Serra socialdemocratico sulla carta più a destra) è ormai cosa meno importante del profilo di immagine personale che i candidati vanno assumendo in relazione da un lato al peso di vere e proprie campagne “costruite” e dall’altro in relazione a una certa idea del Brasile che intendono promuovere.
Ho fatto questa breve premessa per segnalare come non mi sia parso superficiale o di circostanza l’accoglienza che ho percepito nei confronti della mia proposta, svolta con una ampia relazione di apertura al congresso, a questa comunità scientifica e professionale (quattromila aderenti in tutto il Brasile), di un orientamento della comunicazione pubblica verso strategie non solo connesse al front-line di funzionamento dei servizi. Ma anche verso il contributo alla democrazia partecipativa, attraverso lo svolgimento di ruoli nelle condizioni ordinate e trasparenti del “dibattito pubblico”. Un dibattito che investe grandi questioni nazionali, di cui quella della stessa “immagine nazionale” confrontata con la crescita del ruolo geopolitico che le due ultime presidenze della Repubblica hanno promosso, ad una crescita di autostima in generale della popolazione, ad un miglioramento effettivo delle condizioni economiche e del potere di acquisto anche di ceti più popolari, è entrata nel cuore del rapporto tra politica, imprese e società civile. L’accoglienza di un principio estensivo della comunicazione pubblica è radicata nella comprensione del bisogno di creare dialogo non casuale tra istituzioni e società soprattutto quando la posta è rappresentata dalla ridefinizione di parametri riguardanti lo sviluppo dei servizi e delle prestazioni pubbliche. Se si pensa, ad esempio, al campo della sanità, si coglie molto bene l’importanza oggi di ambiti permanenti di trasferimento di conoscenze e di verifica dei bisogni in cui le strutture sanitarie non possono prescindere da confronti seri con l’associazionismo scientifico, da un lato, e con le rappresentanze sociali dall’altro per una continua verifica di condizioni operative che non possono essere imposte solo attraverso “protocolli” stabiliti da burocrazie e interessi aziendali (pubblici e privati). Sono questi territori di esperienza naturalmente ben diffusi in Europa. Ma si ha la sensazione che in Italia si sia molto affievolito il clima civile e culturale entro cui tali esperienze possono venir condotte, al riparo da demagogie ma anche non come formalità marginali ai processi decisionali. Ed è a quel clima che riferisco la
condizione di dibattito sugli orientamenti della comunicazione pubblica che avverto in questo complesso Brasile come meno puntellato da normative legittimanti ma più sospinto da volontà sociali di carattere “interpretativo”. Noi in verità esprimiamo contesti differenziati, anche territorialmente. Talvolta con punte di sperimentazione civile interessanti. Altre volte con una doppia marginalità: amministrazioni ridotte a “burocrazie” e società civile troppo silente.
Naturalmente nessuna mitologia attorno a questo lontano contesto, anche perché percepito in modo superficiale. Ma l’ascolto attento di relazioni e testimonianze credo segnali un clima culturale degno di nota. Un ambito di ricercatori e di operatori che stanno in modo determinato orientati alla prospettiva sociale anche perché politiche pubbliche e progetti di ricerca legittimano strategie in questo senso. E mediologi e comunicatori cercano così – anche da noi in verità – il complemento disciplinare nelle scienze politiche, nella sociologia, nell’antropologia e, per fortuna, un po’ anche nell’economia.
Dalle conversazioni avute ritengo che siano piuttosto i contesti universitari maggiori – quelli delle grandi aree metropolitane – a percepire come strategico l’altro “corno” dell’evoluzione disciplinare che ho proposto: quello riguardante una comunicazione pubblica capace di presidiare lo spazio del patrimonio simbolico che profila storia, identità e appartenenza. Ciò che va ormai sotto il nome di branding pubblico. Ma, in generale, mentre la comunicazione di impresa è in tutto il mondo largamente correlata al marketing (che è un vasto ambito disciplinare dell’area economico-gestionale), questa correlazione – appunto disciplinare – si fa strada più a fatica nel settore della comunicazione pubblica e qui ancora non si sono posti robusti presupposti di ricerca e quindi di sviluppo del lavoro di posizionamento scientifico che poi da anche i suoi frutti nella formazione e nella delineazione di chiari percorsi didattici.
Mi dice un ricercatore dell’Università federale di Rio Grande do Sul, Rudimar Baldissera (di famiglia originaria italiana e cittadino della città largamente italiana che prende il nome di Garibaldi) che la contaminazione economica della comunicazione pubblica è poco frequente. Le facoltà di comunicazione hanno ormai una certa consistenza e si muovono nell’ambito dei media, della pubblicità e delle relazioni pubbliche. Il nuovo approccio alla comunicazione pubblica interessa piuttosto chi ha orientamenti verso la comunicazione politica e, qualcuno, più orientato alla comunicazione sociale.
Sottolineo che neppure da noi la correlazione è forte, incentivata e premiata. Anche se vi è chi la presidia e vi è chi comincia a dare risposte operative radicandosi, in generale, nell’area del marketing territoriale che per propria natura non ha sviluppo se privato della componente comunicativa. Ma l’adeguata liberazione di energie professionali e la formazione di modelli organizzativi del lavoro comunicativo negli enti pubblici devono fare i conti con il profilo di leggi che – pensate e varate negli anni ’90 – rispondevano ad una fase di legittimazione generica delle funzioni della comunicazione pubblica. Leggi che conducono agevolmente allo sviluppo del “relazionale operativo”, assistendo per esempio all’ampliamento dei call-center, ma che faticano a contenere sviluppi in aree oggi strategiche di accompagnamento alle politiche della competitività e della gestione dei patti per lo sviluppo.
Si capisce bene che senza spiegazione non vi è marketing territoriale. E che senza racconto ogni promozione è pura vendita. Ben più complesse sono le ragioni di presidio alla dinamica di un brand pubblico. A cominciare dalla gestione dei processi di coesione sociale e culturale che le grandi dinamiche demografiche oggi rendono imprescindibile. Viste qui tali dinamiche hanno una lettura storica e, più che legate all’attuale moderata immigrazione, si riferiscono piuttosto alla composizione di un grande paese che oggi sfiora i 190 milioni di abitanti e in cui il rapporto tra aree indigene e aree di varia immigrazione (di cui quella italiana ha carattere fondamentale in molti degli Stati) porta fondamentali questioni di radici e di appartenenze che regolano ancora molta parte della vita collettiva. Parlando di comunicazione pubblica – in un territorio come è quello di Rio Grande do Sul – il passo è breve per toccare questioni di formazione della lingua, di conservazione delle tradizioni religiose, familiare e alimentari. Ed il passo è breve
per toccare con mano l’inevitabilità per i poteri pubblici (ma in fondo anche per quelli economici più avvertiti, a cominciare dalla grandi banche che sostengono quasi tutto il quadro degli eventi culturali) di raccontare storia e storie. Di cui qui quelle dell’emigrazione italiana – nella regione, in particolare, dal Veneto, e poi dal Friuli e dalla Lombardia – hanno grande rilievo e sono in più tuttora intessute da mitologie (quella più rilevante riguarda la considerazione per la figura di Giuseppe Garibaldi, di cui, come accennato, una intera città porta il nome e di cui i musei parlano come eroe della loro stessa storia di emancipazione).Insomma nella contaminazione disciplinare della comunicazione pubblica è venuto il momento – in tutti i paesi che vogliono creare le condizioni per dare contenuto tecnico e relazionale alla comunicazione nella gestione permanente e nella profondità dei territori – per ampliare seriamente la funzione di “messaggio” che per sua natura svolge legittimamente il potere politico.
Per questo accanto alla visibile alleanza tra diritto e sociologia che ha dominato la fase costitutiva della comunicazione pubblica è venuto il momento di inquadrare in modo più robusto l’apporto dell’economia (e del marketing), della statistica, delle scienze storico-sociali (con rilievo per l’antropologia e la psicologia sociale), dell’urbanistica e naturalmente del più avanzato approccio alla tecnologia dell’informazione. Si tratta di vedere se i contesti istituzionali sono disponibili a sperimentare modelli di iniziativa basati in modo legittimante su questo genere di contaminazioni.
Che è poi quello che – a margine del congresso di Porto Alegre – mi hanno chiesto ricercatori realmente impegnati in contesti territoriali difficili e preoccupati per una relazione vaga e non bene orientata con i poteri pubblici. In senso lato la domanda da rivolgere ai decisori nell’ambito delle istituzioni è proprio questa: la strada della comunicazione pubblica che presidia le funzioni giuridico-amministrative dell’accesso è sperimentata e quella che consente di tamponare il disagio sociale con formule di front-line è oggi ampliabile a costi limitati grazie alle opportunità della rete. Ma alzare il livello di impegno di questa area professionale negli ambiti che abbiamo prima accennato comporta una scelta innovativa oggi per nulla scontata.
E’ proprio il contesto di una città di dimensioni “globali” come è San Paolo (l’area metropolitana va verso i 20 milioni di abitanti e “l’insieme della sua economia – come mi dice Margarida Krohilig Kunsch – continua a fare l’andatura dello sviluppo dell’insieme del Paese”) ad esprimere una attenzione più precisa nei confronti di due questioni poste nel corso dei contributi che ho potuto esprimere sia al congresso sia nei seminari collaterali: la crescita della domanda sociale rispetto agli orientamenti della comunicazione pubblica (l’altra parte della medaglia rispetto all’idea che la fonte generativa sia solo l’impulso governativo) e la capacità di sostenere obiettivi di nuova internazionalizzazione del paese. “Tra il 2014 e il 2016 – mi ricorda Massimo Di Felice – professore italiano di ruolo all’Università di San Paolo – il Brasile ospiterà i Mondiali di calcio e poi le Olimpiadi. Parte già oggi un’onda comunicativa complessa e decisiva per ricollocare l’immagine del Brasile nel mondo e parallelamente il presidente della Repubblica sta scegliendo spazi di iniziativa internazionale, prima esclusi, per segnalare un ruolo del tutto inedito del Brasile nella politica internazionale, politica che ha avuto un primo banco di prova ad Haiti quando il Brasile ha ottenuto di gestire la crisi politica interna con metodi che hanno de-conflittuazzato il contesto, così come in America latina gli Stati Uniti non sono mai riusciti a fare”.
Due oceani affiancano tuttavia questo lembo di terra che con queste riflessioni stiamo percorrendo: l’oceano della missione propagandistica della comunicazione istituzionale e l’oceano delle omissioni in una operatività in cui politica, media e soggetti della rappresentanza di interessi (categorie) hanno robuste deleghe. Italia e Brasile sono due paesi che Freedom House colloca in questi anni nell’area della semi-libertà di informazione non solo per ragioni “politiche” ma anche per riduzione degli spazi di libertà di azione dei giornalisti a causa di condizionamenti di vario genere (di cui quello malavitoso conta molto in Italia). Tra i tanti passaggi culturali necessari per recuperare il famoso “colore verde” nella mappa di questo istituto internazionale di ricognizione, su cui sarebbe bene non fare troppe ironie, vi è quello attorno al concetto di “pubblico”. Che i soggetti pubblici siano fondamentali per reggere contro le crisi e per cercare soluzioni sostenibili in cui l’economia, anche quella privata, possa crescere libera non vuol dire che poi tutto il sistema che essi innervano sia “pubblico”. E soprattutto il fatto che vi sia un sistema della “rappresentazione” di queste dinamiche che si chiama “pubblico” non vuol dire che in esso hanno diritto di cittadinanza solo i soggetti “governativi”. Altrimenti sarebbe bene fare chiarezza e chiamare appunto “comunicazione governativa” quella che continuiamo a chiamare “comunicazione pubblica”. Un territorio in cui non è stato difficile intendersi con la comunità scientifica incontrata qui in Brasile e in cui le persone meno giovani – oggi pacificate con le istituzioni – hanno un ricordo ancora bruciante dei lunghi venti anni trascorsi sotto la dittatura dei militari, che ha visto la conclusione solo a alla fine degli anni ottanta.
RIVISTA ITALIANA DI COMUNICAZIONE PUBBLICA
N. 41/2010
L’immagine del Brasile nel mondo
La verità sta negli occhi di chi guarda
Paulo Nassar, Victor Aquino
L’identità brasiliana si è realizzata attraverso un processo di costruzione che si è verificato partendo dalla percezione esterna, che ha poi condizionato quella interna. Il pubblicitario Nizan Guanaes, in un articolo pubblicato sul quotidiano Folha de S. Paulo, il 15 giugno, racconta che in una recente conferenza a New York sul Brasile, il “40% degli investitori, in una votazione elettronica, ha dichiarato di credere che il Brasile continuerà ad essere un paese di commodities”. O, in altre parole, che noi brasiliani continueremo ad essere identificati con merci come caffè, soia, mais, carne bovina, e imprigionati nell’immagine di spiagge esotiche, belle donne, carnevale e calcio. Chiaro, il Brasile è anche questo. Dal punto di vista economico è uno dei maggiori produttori di beni alimentari del mondo. Allo stesso modo un gran numero di spiagge incomparabili sono offerte al mercato turistico interno, e sfruttate anche da gente che da tutto il mondo ci si reca nel corso di tutto l’anno. Paese del calcio? Sì. Ma non solo. Paese del carnevale? Ovvio. Ma la questione è un’altra, completamente differente. La miopia dei mass media internazionali consiste nel continuare a vedere il paese solo sotto questi aspetti, tralasciando sistematicamente ciò che realmente fa del Brasile il paese che è, e disseminando una falsa idea. L’inventiva, che è la capacità di tutto un popolo di realizzare il suo potenziale creativo, ha fatto dei brasiliani gente che si avvale di tutte le influenze ricevute e le trasforma in valori permanenti, che divengono la loro principale caratteristica. Una estremizzazione estetica della cultura, ad esempio, può riflettere non quello che la cultura è davvero, ma quello che viene inteso come corretto dai disinformati (AQUINO, 2008: 134-139). Sting è venuto in Brasile per dire che è necessario occuparsi dei popoli indigeni. Bono Vox è venuto in Brasile per dire che le favelas hanno bisogno di essere maggiormente oggetto dell’attenzione del governo.
Il Principe Carlo d’Inghilterra è venuto in Brasile ed è andato a visitare gli indios e i favelados. Prima di loro, l’allora presidente francese Giscard d’Estaing era già stato in Brasile, come i presidenti americani Theodore Roosevelt, John Kennedy, e anche Michael Jackson, Madonna, la regina di Svezia Sylvia, che è anzi nata in Brasile. Ma tutti hanno voglia di apparire in questo tipo di fotografia, in cui compaiono abitanti della favela, senza tetto, indigeni e una serie enorme di persone che rappresentano la parte non assistita della società brasiliana. Dopo essere apparsi sui media, in genere utilizzano queste immagini in programmi di autopromozione. Più o meno come quegli artisti che hanno scoperto la fotografia prima della prima metà del XX secolo, e sono andati per il mondo a registrare la povertà, i dolori e le sofferenze dell’umanità. Non hanno risolto assolutamente nulla. I poveri continuano ad essere poveri e molti di questi artisti d’occasione hanno ottenuto fama e ricchezza.
Non si tratta qui di una posizione nazionalista, di cultura chiusa, di resistenza all’elemento istituzionale e umano di origine straniera, il cui contributo è stato un fattore decisivo nel processo di sviluppo del paese. Quello che si critica è la trasformazione del Brasile, come alcuni vorrebbero, in un oggetto di pubblica esibizione, in una immagine grottesca, che non rappresenta quello che è davvero. La grande quantità di immigrati che arrivarono in Brasile fin dal 1824, sono di estrema importanza per la cultura brasiliana.
Si può dire, ad esempio, che dopo la guerra contro l’impero scatenata nel sud, conosciuta come “rivoluzione farroupilha” (1835-1845), sono stati gli immigrati, soprattutto italiani, a recuperare anche lo stesso amor proprio perduto dei brasiliani del sud. Senza contare la partecipazione di Giuseppe Garibaldi, che lottò al loro fianco contro l’impero. Italiani, tedeschi, giapponesi, portoghesi del continente, azzorriani, spagnoli, arabi di origini diverse, turchi e polacchi, completarono quello che gli indigeni e gli africani avevano cominciato in questo processo di incrocio culturale. Una mistura, quindi, di etnie e culture. (AQUINO, 2001: 67-69) Il Brasile è assai di più e assai più grande di quanto sembri in alcune immagini con cui artisti internazionali cercano la propria promozione personale. “L’inferno sono gli altri”. Questa frase, che tutti conosciamo, risale a Sartre. È stata scritta nell’opera L’Essere e il nulla (1943). Tre personaggi agiscono in una specie di caos: Garcin, un codardo che desiderava essere eroe; Estelle, una donna che si è servita del matrimonio per salire nella scala sociale; e Ines, persona sadica che vive per la sofferenza altrui. Sono condannati a rivedere le loro storie, le loro immagini, senza specchi, attraverso gli occhi degli altri, che sono gli sconosciuti, indesiderati valutatori delle immagini di loro stessi e, per questa ragione, sono un vero inferno. Il Brasile, come questi personaggi, sembra essere condannato a concepire la propria identità a partire dallo sguardo degli altri. O, in altre parole, a partire da chi non lo conosce affatto. In questo contesto, il ricordo di questo inferno di Sarte serve ad evocare una riflessione sull’identità culturale del Brasile. Identità che iniziò ad essere creata già nel XVI secolo, dall’esterno. Nel frattempo, noi, abitanti di questa specie di inferno, siamo etichettati con un’identità che ci viene imputata da altri. Noi che siamo meticci, una permanente mescolanza fine di bianchi, neri, indios, arabi, europei e asiatici. Meticci di una mescolanza che non si è verificata per schiarire il nero, o scurire il bianco, o decimare l’indio. Sarebbe conveniente sottolineare che l’adozione del concetto e della definizione di meticcio, e quella di incrocio di razze è fatta di proposito. Anzi, esiste chi non ha alcuna conoscenza e coscienza di questa mescolanza che, venendo ad abitare in Brasile, non accetti il termine, confondendolo con una sorta di razzismo. Al contrario, la mescolanza può essere intesa come la riaffermazione di sé stesso, in cui una parte di una unità contiene molte parti degli altri che compongono l’immensa rete di influenze, etnie, culture, religioni, ideologie, e così via. Siamo, sì, un grande paese di meticci.
Il quotidiano Folha de São Paulo parla, nella sua edizione del 13 giugno 2010, della passione nazionale e del talento dei brasiliani per il calcio, e dice che queste caratteristiche della brasilianità passano attraverso il “ […] riconoscimento di essere un paese meticcio e che la nostra forza deriva giustamente dalla [nostra] confluenza genetica e culturale […]. Da Arthur Friedenreich che giocava con la cuffia per nascondere i ‘brutti capelli’ fino a Leônidas da Silva, già salutato con il sontuoso epiteto di ‘Diamante Negro’, decorre il decennio del 1930, quando il calcio nazionale fu composto da professionisti (quasi tutti di origine nera e umile) e per la prima volta (si udì) l’espressione, che diverrà cliché, ‘ha incantato il mondo”. Per noi, meticci brasiliani, non esiste la figura dello straniero. Il meticcio è inclusivo, si orienta attraverso l’addizione, è democratico. L’incrocio brasiliano è un valore per un mondo in cui milioni di persone sono obbligate a migrare a causa della loro povertà, provocando questo nomadismo senza charme, “senza fazzoletto né documento”, come si dice in una canzone di Caetano Veloso.
Nel panorama mondiale, che espelle, attrae e discrimina, l’identità brasiliana dell’incrocio di razze può ispirare nuove regole di convivenza, di commensalità, di consensualità, di collaborazione, di condivisione, di comunicazione. Alfredo Maevy (2009: 42) nel discutere le relazioni tra le diversità culturali nella società della conoscenza afferma che “esistono buone ragioni perché il Brasile sia protagonista nella discussione e nella trattativa politica dell’argomento. Abbiamo cause storiche, a cominciare dalla nostra singolare formazione, che permette di valorizzare la diversità fuori dalla compartimentazione del multiculturalismo nordamericano e senza il residuo xenofobo di alcuni paesi europei. L’esperienza brasiliana dissolve barriere che in altri posti del mondo sono ancora oggi innalzate, come rivela la crisi attuale. Vediamo in modo generale il basso sentimento di cittadinanza/ appartenenza di una terza generazione di emigrati in Europa Occidentale, il loro sentimento di alienazione, nel non considerarsi, ancora oggi, europei genuini, anche quando si condivide l’accesso alle stesse istituzioni”. Nonostante i nostri problemi sociali, in Brasile, non abbiamo comunità chiuse in sé stesse, autoisolate, ma piuttosto quello che in Francia è denominato communautaire.
Allora, per cercare di comprendere alcune tensioni sull’economia simbolica dei brasiliani, passiamo a rivedere certi aspetti di questa identità, che potremmo definire “identità meticcia brasiliana”.
Chi sono gli altri ? I parakanãs, indios brasiliani, popolo tupi-guarani che vive ancora nello stato di Pará, in Amazzonia, si autodenomina “awaeté”, che significa, nella loro lingua, “gente vera”. Secondo Carlos Fausto (2001: 63), questo popolo indigeno – tanto definitivo nella sua identità – nell’incontrare altri popoli chiedeva: “che specie di gente siete voi, i miei zii materni”? Nell’ambiente semplice, i nemici sono classificati, allo stesso modo, attraverso le relazioni con le piante e gli animali. Così, gli indios della tribù yrywyjara sono identificati come i “signori della carnaúba”. E gli indios arajara, riconosciuti come i “signori degli ara”.
In questi 500 anni di storia del Brasile ufficiale, dall’esterno del paese sono sempre arrivate influenze negative e saccheggi, dalle epidemie di morbillo, influenza e poliomielite, senza contare il saccheggio delle miniere, delle noci e del legno. Continuiamo a porci ogni giorno la stessa domanda parakanã: che specie di gente siete voi? Il che ci ricorda l’idea di Lévi Strauss della relazione tra identità e differenza.
Come ci riferisce ancora Fausto (2001: 510-511), l’altro, per i primi brasiliani, era associato a costumi cruenti. In una delle sue molte storie narrative mitiche, una cattiva scelta si associa al bianco. Una leggenda di questi popoli a questo riguardo ci dice: “quando il Sole si riflette in un recipiente pieno di sangue tra alcuni uomini, l’uomo che è un waurás si rifiuta pieno di orrore di toccarlo e, al suo turno, l’uomo bianco l’ha trangugiato voracemente a grandi sorsi”. Gli indios waurás “rifiutano l’ematofagia, intimamente associata all’idea di mangiare carne cruda”.
Antenato europeo che divora. Tuttavia, quando le posizioni di chi osserva si invertono, i primi brasiliani sono visti dagli altri come cannibali e antropofagi. Relazioni di stranieri sopravvissuti come il tedesco Hans Standen e il francese Jean de Léry raccontano che, nella costruzione di quello che siamo, noi brasiliani abbiamo divorato tanti europei. La storia della nostra gastronomia registra il cannibalismo di francesi, tedeschi e inglesi. In Duas viagens ao Brasil (Due viaggi in Brasile) di Hans Staden (2010: 164- 165), pubblicato nel XVI secolo, l’antropofagia è descritta con testi e immagini. Staden scampò alla sorte di essere divorato e descrive come i primi brasiliani preparavano i propri cibi: “ […] il boia colpisce il prigioniero alla nuca, in modo da far fuoriuscire il cervello. Immediatamente, le donne prendono il morto, lo trascinano sulla catasta di legna, gli strappano tutta la pelle, lo lasciano interamente bianco e gli tappano l’ano per evitare che nulla sia espulso. Credono che, nel divorare i propri prigionieri, incorporino i loro poteri”. In Outras visões (Altre Visioni), di Staden (2010: p.140), si parla del corpo dei brasiliani: “sono persone belle, nel corpo e nella statura, tanto gli uomini quanto le donne, allo stesso modo delle persone di qui, ma sono abbronzate per il sole, poiché camminano nudi, sia i giovani che i vecchi, e non indossano nulla nemmeno nelle parti intime. Ma si sfigurano, da sé, con la pittura”. Le narrazioni dei viaggi di Staden e Léry sono state avidamente usate da vari artisti brasiliani, preoccupati di comprendere ciò che siamo.
Il rifiuto prima dei costumi europei e, oggi di quelli nordamericani è un modo di arrivare ad un’identità brasiliana. A partire dalla fine del XIX secolo, abbiamo iniziato, ad esempio, a sviluppare una letteratura che descriveva in maniera romantica l’indio e il nostro paesaggio. Il poeta Gonçalves Dias declamava “minha terra tem palmeiras / onde canta o sábia / As aves que aqui gorjeiam / não gorjeiam como lá. (Nella mia terra ci sono palme / dove canta il saggio / Gli uccelli che cinguettano qui / non cinguettano come là) Là, come si sa, significa l’Europa, il “Vecchio Mondo…” Lo scrittore José de Alencar sceglie come personaggi indios e indias. Dopo il 1920 le arti visuali si arricchiranno della prima icona che rompe con le arti importate dall’Europa. Quest’icona sarà “Abaporu”, della pittrice Tarsila do Amaral, che insieme ad Oswald de Andrade crea il “Movimento Antropofagico”, con l’obiettivo di divorare la cultura europea. Lo scrittore Mário de Andrade produce in quest’epoca il libro “Macunaíma, o herói sem nenhum caráter” (Macunaíma, l’eroe senza carattere). Il cinema, dal canto suo, offre in anni più tardi “Como era gostoso o meu francês” (Com’era bello il mio francese), di Nelson Pereira dos Santos. Senza dimenticare l’altro film, “Hans Staden”, di Luís Alberto Pereira. Insomma, gli esempi sono molti.
La descrizione dell’identità dei più poveri nella società contemporanea sono fatte, quasi sempre, in maniera autoritaria, dal punto di vista di chi sta seduto nel panopticon. È una narrativa coloniale e imperialista che presuppone, quasi sempre, una matrice, un modo per conformare persone, culture e tutto ciò che esse stabiliscono: credenze, valori, tecnologie, comportamenti, sensualità, desideri, limiti e ciò che ci si aspetta dagli altri.
Ma è molto importante sottolineare che noi brasiliani, al contrario di quanto si immagina di noi, continuiamo a costruire la nostra identità a partire da una prospettiva che ci consente di guardare agli altri. Guardarli tanto nel contatto personale, tanto nelle estensioni dei media contemporanei, a partire dalla letteratura, dal cinema, dalla televisione, dalla musica e, non ultimo, da Internet. La quantità di informazioni in tempo reale ci stanno, in un certo senso, rendendo obesi a causa degli altri. Perché adesso noi li divoriamo tutto il tempo. D’altro canto, questo divorare, che incorpora la forza degli altri, è un tratto fondamentale dell’identità del brasiliano.
Non siamo, con certezza, un popolo costituito solo da commodities.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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