Dopo aver letto Alberto Abruzzese, Luigi Covatta, Giuseppe De Rita, Ugo Finetti e Celestino Spada ( e ascoltato altri amici)
Marina di Pietrasanta, 10 agosto 2008
Alberto Abruzzese ha scritto una lunga nota attorno a Quarantotto in cui richiama l’articolo di Giuseppe De Rita sul Corriere, le osservazioni di Luigi Covatta e naturalmente anche il mio libro (con consensi e dissensi). Essa si è inserita in un primo accidentale dibattito che trova spazio in www.stefanorolando.it (Quarantotto/Commenti). Il dialogo tra i cosiddetti ottimisti e i cosiddetti pessimisti è sempre un po’ stralunato. Quando il tema è tra passato e presente, gli ottimisti sono schiacciati in una specie di retorica delle nostalgie e i pessimisti nel “benaltrismo“. In cui …altro che fare, quando tutto è finito dove è finito!
Nella lettera, pur interessante e sottile di Alberto, leggo spunti giusti e altri che fanno girare le lancette o troppo indietro o troppo avanti. Non so.
Sostanzialmente l’inutilità dello sguardo indietro per dare valore istituzionale a quel po’ di patrimonio comune acquisito, patrimonio utile come cemento per il rapporto tra classe dirigente e coraggio delle decisioni, non mi sento di condividerla. Non perchè Illuminismo-Risorgimento-Resistenza-Riformismo siano per me una filiera ideologica. Anzi, una originaria formazione liberale mi aiuta a vedere anche i risvolti meno soavi. Ma perché nei confronti della storia condivisa, da sempre ho preferito l’approccio francese (istituzionalizzare l’orgoglio delle radici), ho ammirato lo sforzo dei tedeschi (non mollare, con la rielaborazione del lutto), ho stimato l’argomentato senso di superiorità degli inglesi (mai occupati, mai piegati) e resto sempre stupefatto e imbarazzato dall’attitudine italiana di cancellare le tracce appena la cosa si fa interessante. A scopo di non riaprire ferite interne (derivata teorica di origine cattocomunista) e di non soffrire (derivata di comodo di origine proletaria).
Apprezzo l’idea della nostalgia del buon funzionamento delle istituzioni attribuito ad un sogno di una cosa magari anche inventata. Pur di avere una nostalgia. Me lo aveva detto una volta anche Romano Prodi, presentando a Bologna un mio libro all’inizio degli anni ’90. “Quello si inventa una tradizione che non c’era, così da giustificare una speranza (necessaria) di cambiamento”. Mi era sembrato spiritoso e accettabile.
Alberto rende la cosa più creativa ma anche meno formale. Potrebbe essere un sussiego ma anche uno sberleffo. Il punto è che io all’inno nazionale come corrente elettrica anche di una etica pubblica ci credo tuttora. Lo dico con olimpico distacco dalla povera volgarità estiva di un politico in cui ormai prevale la disabilità come Bossi. Lo dico non per ingenuità, ma per necessità competitiva. Dappertutto funziona. Anche nei corrotti stati africani. Anche nella Russia dei nuovi dispotismi. Non parliamo dell’America bianca o nera ma sempre e comunque stelle&strisce.
La riduzione della nostra ricapitolazione identitaria a una capitolazione identitaria (non c’è più valore collettivo in gioco, c’è corsa individuale al successo caso mai canalizzata da una scommessa di tipo nuovo, a-ideologica, caso mai tecnocratica) non mi convince. Non è questa ovviamente la tesi di Abruzzese, ma di altri che hanno accettato di confrontarsi con il mio libro. Appunto essa è agli antipodi rispetto alla deriva di “miseria” che dipinge Abruzzese. Che non c’era alla presentazione del libro a Milano dove questa alternativa è stata accennata invece da Paolo Glisenti. Vorrei – a fronte di entrambi – provare un attimo a difendere la mia proposta. Glisenti ha citato (come in contrapposizione) Jacques Attali, che ha provato nel suo libro sui prossimi 50 anni a metter insieme le due cose. Il futuro – a leggere bene quello che scrive – sarà un disastro e una rovina, a meno che i poteri non accettino strategie per fabbricare nuova felicità sociale. Glisenti infatti abbocca, Abruzzese no. Io a metà. Mi interessa una nuova sintesi tra economia, tecnologia, conoscenza ma dentro coralità perpetuate, dentro relazionalità radicate per terra, dentro vissuti in cui l’eredità di tre o quattro generazioni sia riconoscibile. E soprattutto in una prospettiva che dia spazio a quel po’ di americanità (crescere nel cambiamento con spinte anche dal basso) che noi, proprio per storia, esprimiamo.
Con questo parametro resto attaccato al mio anticomunismo e al mio antifascismo, per esempio.
E non mi faccio schiodare da nessun nuovismo perché altrimenti perderei di vista la mia già troppo solitaria critica delle manipolazioni. Poi quando Gianfranco Fini va in Israele e parla del fascismo come male assoluto rubrico la cosa nei fatti interessanti. Quando Luigi Berlinguer addenta la balena della scuola italiana con il sentimento del cambiamento possibile esercitato senza requie, ci sto.
Il mio Quarantotto comincia con la mia prima conferenza a 18 anni su Carlo Cattaneo e la visione del cambiamento del suo Quarantotto. Ma perché in qualunque brandello di Europa questa correlazione avrebbe senso e noi la dobbiamo trattare come un polveroso retroguardismo? Senza pathos storico nessun giovane è mobilitabile al “riformismo”. Guido Martinotti dice che l’Italia intera è senza dna riformista. Io dico che se abdica prima la Scuola, poi l’Università, poi ancora la tv e alla fine gli intellettuali e con essi l’Editoria – ridicolizzando Garibaldi, protraendo una lettura massimalista sul fascismo e unilateralizzando il monopolio antifascista, diventando un po’ complici della confusione apocalittica (maoista, eccetera) degli anni ’60 e non collaborando ora alla revisione degli errori fatti in nome di “verità” (pravda) cancellate dalla caduta dal muro di Berlino – si sommano gli scandali della prima Repubblica alla pochezza della seconda Repubblica per reclamare il diritto allo sputo generalizzato del “nation branding” italiano. Così, chi e come potrebbe guardare in faccia un ragazzo il giorno della laurea e dirgli che in nome della legge lo reputiamo valido per fare anche lui la sua guardia al bidone?
Ecco perché considero gli argomenti di Abruzzese un eccesso di delusione sul terreno dell’interpretazione del passato e un eccesso di estraneità nella difficile guerra dei mondi invisibili che stiamo vivendo.
Ma anche un utile caveat metodologico per alzare la nostra soglia di diffidenza e per fare di più le pulci al modo di porsi di una politica oggi drammaticamente divaricata dalla cultura.
Il piccolo dibattito sul mio libro – che alimento con molta prudenza, dunque ancora davvero circoscritto – tuttavia si allarga. E questo mio “punto” provocato dal contributo di Alberto (che lo ha pubblicato autonomamente anche su un sito di dibattito mediologico) meriterebbe forse di andare oltre la questione del pessimismo e dell’ ottimismo (che pure è questione che ha impegnato anche con accenti diversi lo scambio di idee con Gigi Covatta). Forse sarebbe da riprendere anche la questione di sentieri diversamente perseguiti. Ho molto insistito nelle mie pagine sul “tic” delle coerenze. Certe coerenze sono anche proprie degli stupidi, naturalmente. Ma – trattando un tema generazionale – l’argomento mi serviva per cercare le distanze con chi è passato dalla rivoluzione a vista alla mistica entropica, dalle dottrine universali salvifiche al privatismo sdegnato, dalla soggiacenza alle deduzioni ideologiche alla disintegrazione persino degli apparati teorici. Senza soffermarsi davvero su ciò che ho chiamato il passo dei badilanti del riformismo. Quello della speranza a generare cambiamenti nel quadro di una teoria del cambiamento possibile e secondo priorità contenibili nel libro degli interessi generali.
Ora nel mio dibattito giunge (1 agosto) anche il contributo di Celestino Spada, anche lui come Alberto Abruzzese, proveniente dalle storie e dalla vicende del Pci dagli anni sessanta in poi. Dunque non la mia storia. Ma in Celestino l’accoglienza “ottimistica” della mia prospettiva da “badilante” è netta, con la voglia ancora di smarcarsi dall’angustia del tempo non per borbottare ma per cercare – mi vien da dire silonianamente – una via di uscita. E’ la riposta a ciò che appare, in Alberto, un percorso di tipo nihilista. Lui fa capire, forse con qualche snobismo, che l’approccio rischia il cinismo. So che culturalmente Alberto è entusiasmabile. Dunque non cinico. Ma le delusioni provocano brutti scherzi e alla fine le cose che dice Celestino Spada (ex comunista) o che dice Ugo Finetti (ex comunista e a lungo socialista “di combattimento”) si muovono su territori psicologici distinti dalle cose che dice Alberto Abruzzese (ex comunista) o che sfiora Gigi Covatta (già cattolico e a lungo socialista “pontiere”). Ugualmente ho sentito, nella presentazione del libro a Roma, sul primo versante i toni ancora venati di passione di Simona Colarizi e i toni più delusi che in altre circostanze di Giuliano Amato (che però – come fa rilevare Angelo Panebianco – covavano, come si è visto, una proposta di sparigliare la condizione sterile del “fare opposizione”).
Nelle lettere citate – al di fuori di ottiche psicologiche – ci sono alcuni argomenti di critica sostanziale. Ai quali devo almeno un cenno.
Gigi Covatta rileva che “nemmeno i nostri coetanei rimasti in campo negli ultimi quindici anni hanno saputo diventare classe dirigente, benché la crisi di sistema gliene offrisse l’opportunità e addirittura ne postulasse la necessità”. E’ forse arbitrario che io riscontri qui una “critica”. Ma in qualche modo ho scritto che alcuni percorsi formativi, per semplificare diciamo nelle logiche della prima Repubblica, hanno prodotto, a vari livelli, una qualificata classe dirigente (consapevolezza delle vocazioni del paese, monitoraggio dei limiti del contesto, capacità di proporre soluzioni, con un profilo generale in cui mi si consenta di riconoscere l’attenzione per il branding pubblico di cui ha scritto De Rita). Parti essenziali di essa (management dell’industria di stato e dell’area istituzionale, addetti competenti ai processi legislativi, formatori di alto livello, coordinatori delle competenze promozionali e negoziali, eccetera) sono stati spiazzati senza colpe specifiche se non quella dell’ improvviso disallineamento politico. Producendo alcuni seri scompensi. Tra cui quello che ho individuato come esiziale nel caso italiano è lo squilibrio intervenuto in apparati e imprese: un management di controllo divenuto eccessivamente prevalente rispetto a quello progettuale. Al timone sono stati preferiti a lungo gli ex-capi del personale (e assimilati) e non le filiere creative. Non che Covatta (che tiene su questo scenario della formazione una pregevole rubrica sul Corriere) abbia torto. Soprattutto pensando alle tante fragilità di chi pareva forte solo fin che stava accanto a leader forti. E’ che il passaggio merita questa piccola analisi per non parere solo interno agli apparati politici.
Celestino Spada indica un possibile dissenso attorno alla figura di Craxi, o meglio attorno alla politica che i socialisti hanno adottato dopo l’arrivo di Craxi a Palazzo Chigi a proposito della Rai. Disimpegnando una linea di oggettiva egemonia costruita negli anni – fervidi e di proposta – di responsabilità di Claudio Martelli nel settore, per favorire dirigenti modesti purché fedelissimi soprattutto nella rottura a sinistra e comunque con il peso del partito orientato a far crescere il competitor e non a sviluppare una logica di sistema attorno alla qualità (modello inglese).
Ho molto apprezzato nel testo di Celestino l’evidenza di una voglia di analisi che il mio format (testi già scritti, brevemente riattualizzati da una presentazione) non ha molto consentito. Così che le mie attuali “analisi” sono in fondo assai limitate. E anche su questo punto ho potuto solo fare cenni. Ma il cenno alla mia autonoma decisione di uscire (pur distaccato in altra esperienza produttiva) dall’azienda nel 1982, mentre quasi tutti coloro che avevano accompagnato l’esperienza di Martelli, si disperdevano in ruoli transitori, è stato inequivoco. Il nostro punto di vista (contro chi – in maggioranza – gridava allo scandalo) era che il sistema pubblico-privato rappresentava una chance per i due soggetti solo trovando regole per i new entry e producendo un rapido cambiamento per l’incombent. Ma pensavamo che il capo di un governo europeo dovesse stare al tavolo di qualunque negoziato competitivo e identitario con il proprio servizio pubblico radiotelevisivo a fianco. Craxi non vedeva così il problema. Punto. Sul tema avremmo potuto stravincere Ne è emerso un clima di tensioni, contraddizioni e resistenze (dentro cui comunque ha avuto anche la possibilità di esprimersi un ultimo capitolo di indubbio ruolo forte dei socialisti in Rai con il ritorno di Enrico Manca) ma in sostanza abbiamo disperso una tensione riformatrice coraggiosa.
Alberto Abruzzese pensa che il branding pubblico sia una mistificazione, perché non è ipotizzabile in un contesto culturalmente crollato che vi siano “istituzioni buone”. Tira dentro tutto, compreso l’istituzione universitaria alla quale appartiene. Sulla questione ho già provato a dire qualcosa (sulla storia degli ottimisti e pessimisti, e via discorrendo). Credo che ciò che siamo diventati è raccontato ogni giorno con chiavi straordinariamente diverse. Media e politica propongono un’ottica ogni giorno schizofrenica. I media esaltano il degrado. Ma cercano lettori con la lanterna di ogni consolazione piccolo-borghese. La politica si azzuffa senza ritegno. Ma si rifugia poi in una comunicazione che non sa più prescindere dalla propaganda. E’ vero che l’università ha marginalizzato la sua capacità di stare autorevolmente nell’agone civile. Ma tre cose paiono altrettanto chiare: chi ha avuto ruoli non marginali in questi mondi (media, politica, atenei) può chiamarsi fuori dalle responsabilità? chi vede affacciarsi in questi mondi soggetti nuovi, alcuni – i pochi di sempre, ma non pochissimi – con la forza propria dei giovani, può delegittimarne le pretese di innovazione? chi ha la ventura di misurarsi con questo minuscolo tempo che è il nostro tempo, può cancellare la magistralità della storia che ha avuto momenti eroici e personalità tempratissime al servizio del futuro delle istituzioni, che è dunque anche il nostro tempo?
Giuseppe De Rita – in un “elzeviro” sul Corriere di fronte a cui il minimo che personalmente possa dire è un sentimento di riconoscenza – ha avuto da Ugo Finetti una garbata replica in ordine all’estensione di un giudizio di irresponsabilità della politica ad anni in cui Finetti legge piuttosto centralità del dialogo tra socialisti e cattolici per sostenere sfide cruciali. Ma il suo lapidario concetto di “betoniera delle polemiche” per dire la gravità di “vivere oggi senza coscienza l’unico passato che abbiamo avuto e cioè il passato prossimo” è la miglior sintesi che si potesse dare al lavoro persino troppo corposo che ho proposto.
Un po’ a tutti coloro che sono qui ricordati trasferisco un appunto che Paolo Glisenti ha rivolto essenzialmente a me. E su cui in principio concordo. Lo guardo italocentrico di questi approcci. Bisogna però chiarire una cosa. Se si vuole andare un po’ a fondo di certe vicende irrisolte che ci riguardano è inutile condirle con gli svolazzi di qualche superficiale contestualizzazione. Certi ragionamenti richiedono molte parole ed è inutile perdere spazio con accenni scontati all’Europa o alla globalizzazione. Questo non toglie che – proprio in quel posizionamento di fondo (razionale ed emotivo insieme) che riguarda la “coscienza del passato prossimo” – una maggiore attenzione (globale però, cioè linguistica, culturale, relazionale) ad alcuni contesti internazionali, quelli reputati e quelli critici, ci metterebbe in una condizione generalmente meno autodenigratoria. E’ ciò che ricavo – una testimonianza in più – anche dallo scritto di questa mattina di Claudio Magris sul Corriere della Sera sul principale vizio degli italiani : “criticare per sentirsi differenti e assolvere se stessi”.
Altri vorranno forse offrire più approfonditi giudizi.
Sento però – e questo vorrei dire temporaneamente – che gli stimoli che provocano questa ripresa di discussione mi paiono giustificati e che la pretesa di cancellare questi spazi di posizionamento con la ramazza dell’anti-sguardo-indietro appare forzata rispetto a soggetti ancora in campo che vanno intesi come “risorse”e rispetto ad argomenti la cui analisi mirata ad orientare presente e futuro è stata sospesa ma non uccisa.
Stefano Rolando