Dibattito con il direttore di Milania sull’eredità di Craxi

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Milano 19 gennaio 201
Cari amici di Milania,
in occasione del decennale della morte si sta tornando a parlare di Bettino Craxi. Purtroppo, le strumentalizzazioni al vento del presente continuano ad avere la meglio, sia tra gli elogiatori che tra i denigratori. Qui di seguito trovate una riflessione volta, invece, a contestualizzare e tradurre i lasciti positivi del leader socialista. Infatti, senza un tentativo di questo genere, l’eredità di Craxi resterà un desolante spazio vuoto nella modernizzazione del paese. Potete commentare questa riflessione inviando una mail o aprendo una discussione su www.milania.it
Alessandro Aleotti

 
L’EREDITA’ VUOTA DI CRAXI
 Alessandro Aleotti
La ricorrenza del decennale della morte di Craxi ha messo in moto un dibattito in cui – forse per la prima volta – hanno nettamente prevalso le voci tendenti alla “riabilitazione”. Che Craxi sia stato un grande leader politico, sia nel suo apogeo che nella sua caduta, è assolutamente fuor di dubbio. L’idea di cancellarlo con ignominia dalla storia a causa delle sue vicende politico-giudiziarie, non solo è oggettivamente naif, ma è anche indice di un profondo analfabetismo nella lettura delle vicende storico-politiche. Purtroppo, però, il dibattito intorno alla figura di Craxi si è tenuto molto lontano dall’analisi storiografica e politologica, impedendo così di capire le ragioni reali del disgregarsi del sistema di cui Craxi era un cardine portante. Nell’ansia di “regolare i conti” del passato, il dibattito si è dimenticato di analizzare la motivazione vera di Tangentopoli. L’azione giudiziaria, fino ad allora inimmaginabile, è integralmente figlia del nuovo quadro geopolitico globale post ’89. Nel nuovo scenario, infatti, il nostro paese ha visto svanire la sua strategicità di cerniera tra i due blocchi e, in conseguenza di questo, la nostra classe dirigente ha perduto quella intoccabile rendita di posizione che fino ad allora aveva monetizzato nello scambio tra finanziamento alla politica e difesa di rendite geopolitiche sul piano internazionale e oligopolistico-corporative sul piano dell’economia interna.  Poiché, invece, tutte le discussioni su Craxi si sono interamente svolte in nome di battaglie politiche del presente, cerchiamo allora “di fare di necessità virtù”. Sotto la vista corta di rivalutatori e denigratori in cerca di posizionamento al vento dell’oggi, possono almeno essere poste due questioni che l’attuale dibattito su Craxi sembra aver masticato male e digerito peggio.  Prima questione: i contenuti modernizzatori di Craxi. Se è vero che, dalla “nazional-popolarizzazione” di un riformismo socialista alla ipotesi di “grande riforma” in senso presidenzialista, Craxi è stato un anticipatore del futuro, tuttavia è altrettanto vero che oggi queste linee programmatiche sono state abbondantemente superate dal compimento della storia. E’ un treno che è già passato: se lo abbiamo perso pazienza, ma l’idea di stare ancora ad aspettarlo è oggettivamente idiota. La tendenza modernizzatrice di Craxi oggi non può più venir declinata sulle sue vecchie piattaforme programmatiche, ma richiede una lettura più avanzata che si sostanzia in un approccio glocalista sia ai temi dell’individualizzazione sociale che a quelli della crisi dello stato-nazione. Seconda questione: lo stile. Anche se non lo si percepisce con evidenza, tuttavia il principale motivo del perdurante fascino di Craxi risiede essenzialmente nella sua cifra stilistica. Sarebbe importante chiedersi perché. Non si tratta semplicemente di atteggiamenti, ma di profonda sostanza politica. Le pause di Craxi, così come l’eloquio sottile dei grandi democristiani o la magniloquenza politico-culturale di Spadolini, continuano ad affascinarci perché danno sostanza alla figura dell’uomo politico. Quella sostanza che l’attuale classe politica ha totalmente perduto dentro una retorica da venditori di aspirapolvere pronti a dire qualsiasi cosa per raccattare un voticino in più.
 Insomma, oggi una riflessione su Craxi dovrebbe compiere lo sforzo di contestualizzare nel presente i contenuti e le forme del leader socialista, lasciando perdere la didascalica retorica della nostalgia che, se può avere un valore sentimentale per chi era vicino a Craxi sul piano umano, tuttavia non produce alcuna utilità per la politica del tempo in cui viviamo.
 
 
Il tema della “eredità di Craxi”. Metodo e classe dirigente
Stefano Rolando
 
Intervengo, come ho fatto qualche volte nel dibattito on-line di Milania, sulla nota di Alessandro Aleotti dedicata a Craxi. Anzi, alla “eredità vuota” di Craxi (19 gennaio).
Ho conosciuto direttamente e lavorato istituzionalmente con Bettino Craxi e ho dedicato tra il 2008 e il 2009 un testo (Una voce poco fa – Politica, comunicazione e media nella vicenda del PSI dal 1976 al 1994, Marsilio 2009) che, presentato a Roma nel luglio 2009, ha fatto riconoscere a Walter Veltroni che “Craxi aveva interpretato il cambiamento sociale meglio di Berlinguer”. Quel contributo aveva lo scopo di stimolare una nuova stagione interpretativa del ruolo dei socialisti della stagione craxiana, uscendo dalla fase cupa, ombrosa, sotterranea dell’astio per la cannibalizzazione subita e dalla riduzione dei giudizi – pro o contro – attorno alla questione giudiziaria. A poco a poco questa nuova lettura si sta imponendo e la lettera del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano del 19 gennaio è un documento molto importante nel definire la discontinuità di approccio a questo tema, riportando sia il giudizio politologico che quello storico nella dimensione più libera e quindi più utile all’interesse generale.
Tocco i due temi sollevati da Aleotti e ne aggiungo un terzo.
I contenuti modernizzatori. Qui io credo che l’eredità non sia “vuota”. Essi (i contenuti) non vanno strettamente intesi come nodo della riforma istituzionale, in ordine a cui più che il “contenuto” vale l’attualità dello stimolo a mantenere la priorità sulla questione, mantenendo anche però la volontà di creare una cultura nuova e larga e non ad operare per strappi come prima il centro-sinistra (con la riforma del titolo V) e ora il centro-destra (con varie smanie) hanno dimostrato di fare. Riguardano il metodo della modernizzazione, che Giuseppe De Rita ha spiegato benissimo nell’intervento fatto al Senato il 19 gennaio nel corso dell’evento promosso dalla Fondazione Craxi. Mentre il PCI chiedeva retoricamente il “cambiamento” – di tutto, attorno ancora alla cultura del no – Craxi ascoltava le analisi del cambiamento reale e disegnava, insieme a un ceto dirigente progettuale (su cui aveva presa l’area intellettuale di diagnosi e proposta), quella che chiamava “onda lunga”, cioè una politica. E dunque riguardano la formazione della classe dirigente. Rispettando il “cursus” (per cui arrivare a fare il sindaco o il parlamentare o anche il manager non era un caso, una bizzarria del capo, ma una tappa di un percorso ancora piuttosto severo di apprendimento e di dimostrazione di capacità) e ponendo a quella dirigenza il problema della coerenza flessibile tra teoria e prassi e non l’ammutolito asservimento a interessi (il comportamento passivo e silenzioso di tanti parlamentari ancora per bene e competenti del centro-destra attorno alla legge sul processo breve è un esempio lampante).
Lo stile. Dice Aleotti che qui – in tempo di priorità mediatica – stava una ragione di successo e oggi di rimpianto. Credo che esso non dipenda dall’età mediatica o dalla qualità oratoria, ma dal riconoscimento degli elettori verso il politico “tutto dedito” a una causa e a un progetto (valeva anche per l’anti-mediatico De Gasperi). Rispetto a profili di funzionari, di giornalisti senza consistenza professionale o di perfetti estranei messi sui banchi parlamentari ad alzare la mano, che è diventato spettacolo corrente. Ed è questa – mi si consenta di dirlo – la ragione che mi ha indotto a “dare voce” (con il recente libro “Le nostre storie sono i nostri orti”) ad uno dei migliori esempi di quel profilo di politici della storia repubblicana italiana, cioè Marco Pannella.
Aggiungo un terzo elemento sull’eredità. Craxi amava il suo partito e si inseriva bene nel contesto europeo che esprimeva il riformismo socialista. Ma aveva il pragmatismo (con idee che gli suggerivano anche Claudio Martelli, Giuliano Amato, Gianni De Michelis o Rino Formica) per capire l’evoluzione del rapporto tra politica e nuova cultura sociale del rapporto tra “meriti e bisogni”. Lui stesso avrebbe ben guidato la formazione di un nuovo (davvero nuovo)  “Partito Democratico”. Su terreni e metodi di cui finora non si è vista grande traccia. Qui l’eredità non è “vuota”, è piuttosto “tradita”.