Crisi della comunicazione pubblica: mancanza di budget o di strategia? (8 maggio 2013)

Ferpi Lazio
Microfoni spenti
Incontri su tematiche di interesse professionale
La PA senza parole. Comunicare senza budget
Per un’agenda della comunicazione pubblica in Italia
8 maggio 2013, Via dei Cerchi 75, Roma
Intervento di Stefano Rolando
(Professore di Teoria e tecniche della comunicazione pubblica, Università Iulm Milano)
 
La crisi della comunicazione pubblica in Italia:
mancanza di soldi o mancanza di strategia?
 
Ringrazio Ferpi per avermi invitato. E ringrazio Marco Barbieri per la cortese introduzione.
Chioso innanzi tutto il titolo. Perché è evidente che a furia di tagli lineari e di sadica organizzazione dell’impedimento a usare anche risorse disponibili, si è fatto del “non budget” una condizione di risveglio organizzativo obbligatorio. Ma è anche evidente che senza budget è un limite ma non un vincolo solo a condizione che sia forte l’obiettivo, la strategia e l’intesa tra politica e amministrazione nella gestione degli strumenti comunicativi. E qui sta il punto della situazione italiana, temo da molti anni. L’obiettivo si è appannato, la strategia trasformata in costeggiamento, la relazione tra politica e amministrazione divenuta – anche quando le cose paiono andare lisce – una criticità. Cerco di arrivare rapidamente al punto.
 
L’espressione “comunicazione pubblica” fu una nostra invenzione della metà degli anni ’80 per posizionare una funzione che non c’era, nel senso che uffici deputati a comunicare non avevano né legittimità né pratica. Anche se è inevitabile che – a margine delle funzioni di rapporti con la stampa – qualcosa funzionava lo stesso per l’insopprimibile bisogno di intere filiere di servizio nella PA di trovare una strada di rapporto diretto con l‘utenza. Non c’era regola, non c’era procedura, non c’era funzione. E naturalmente non c’era budget. Per tutta la seconda metà degli anni ‘80 ricavammo un posizionamento che poteva beneficiare della volontà politica del governo (anzi, poi, dei governi) di dare gambe a bisogni per i quali non bastavano le interviste dei ministri e le conferenze stampa “politiche”. Costruire prodotto comunicativo ed eventi per rinsaldare profili di identità nazionale, poi l’accompagnamento a politiche sociali e in un terzo tempo lo sforzo di spalleggiare la ripresa competitiva del Paese: verso la costruzione del mercato unico europeo (ingaggiando una battaglia non facile rispetto al veto britannico) e verso la garanzia per l’Italia di stare nel gruppo di testa del sistema che allora era il G7; obiettivo non certo, perché i paesi europei forti non gradivano il pari ruolo in quel consesso con Italia e Canada e furono le relazioni italo-americane a consentirci la posizione, che aveva bisogno di un forte rinnovamento di immagine interna e internazionale.
 
Semplifico questi passaggi per dire una cosa chiare e semplice: la strategia politica che permetteva lo sviluppo di strumenti comunicativi era quella dell’identità competitiva.
Nella stessa logica con cui le aziende sviluppano la comunicazione. Lo start fu dato dall’allora sottosegretario Giuliano Amato che, tra il 1984 e il 1985, autorizzò una commissione di studio (Enzo Cheli, Nadio Delai e il sottoscritto) a redigere un rapporto per segnalare a Governo e Parlamento cosa faceva l’Europa in materia di comunicazione istituzionale e soprattutto se – con l’ombra del Minculpop ancora protesa sulle teste della PA – era legittima una funzione di rapporto informativo diretto con i cittadini. Il rapporto fu messo con le gambe per terra dal 1985 e si partì a razzo nella direzione tracciata. In questa cornice il maggior beneficio lo ebbero anche le campagne sociali che scontavano il favore del Parlamento per dare copertura informativa e leggi importanti (droga, aids, integrazione, eccetera);  mentre l’aver puntato la stessa Presidenza del Consiglio dei Ministri – con forte rianimazione tecnica, organizzativa e produttiva – al presidio di prodotto era una cosa che dava il “buon esempio” a tutta l’amministrazione italiana, centrale e territoriale. Un’amministrazione – lo ricordo per i più giovani che magari non ci crederanno – che era completamente assorbita nella cultura, allora legittima, del segreto e del silenzio. Quella spinta a fare – sostenuta dal governo – era una spada sguainata anche nei confronti di quella alta burocrazia in trincea contro ogni forma di nuova relazionalità.
 
 
La legge 241 del 1990 ribaltò la logica del silenzio/segreto nella logica della trasparenza/accesso.
Ma ci volle altro tempo per spingere la Funzione pubblica a capire che bisognava che qualcuno prendesse in mano la seconda fase, quella del passaggio di regia dal prodotto al processo. Malgrado il d.lsgl. 29 del ’93 avesse dato le prime gambe alla 241, istituendo obbligatoriamente l’Urp (un frammento di un disegno, che si deve alla delega che ancora Amato diede a Sacconi allora sottosegretario alla Funzione Pubblica), la stessa FP non riuscì mai a prendere in mano questo relais, così da lasciare la normalizzazione organizzativa di quella spinta iniziale in stand by. Tuttavia negli anni ’90 ci furono altre spinte di contenuto (le leggi Bassanini, la semplificazione, le carte dei servizi). E soprattutto arrivò nel 1995 l’applicazione di Internet. Una rivoluzione strutturale e organizzativa che segnò un prima e un dopo per tutti. Ma segnò anche la perdita di visione strategica della materia e un presidio tecnico assai meno idoneo a sviluppare innovazione.
 
Non voglio entrare nelle complesse (ma in fondo anche non complesse) storie di involuzione della seconda Repubblica. Mi limito a dire che l’idea di “riformare lo Stato” aveva animato – rispetto a varie culture politiche e amministrative – la formazione delle leve dirigenti degli anni ’80 (al contrario di chi sostiene che quelli furono “anni di declino”). Mentre l’obiettivo si andò nettamente perdendo come filo rosso della stessa formazione della dirigenza e, ben inteso, come tensione della politica nel cuore degli anni ’90, per portare poi a degenerazioni di politiche e di uso improprio delle parole (riformismo, servizio, autonomia, eccetera) nella fase più recente in cui abbiamo assistito a crescite di demagogia e populismo ma anche a fragilizzazione della politica. Paga  essa – una volta conquistato un po’ di potere istituzionale – di usare quel piedistallo per la propria visibilità e non per cambiare il piedistallo. In questa logica la domanda di comunicazione da parte della politica è stata orientata a privilegiare i portavoce e il rapporto con i media, spesso senza cogliere il carattere stritolante e annichilente di questo fronte usato con ingordigia e senza misura.
Ma dall’altra parte anche una seconda battaglia vedeva il fronte dei comunicatori pubblici – nel frattempo cresciuto quantitativamente, grazie al portato di una legge approvata con troppo ritardo, e mancante di troppe cose, come la 150 del 2000 – soccombente. Proprio la battaglia interna, quella nei confronti dei veri nuclei di potere dell’alta burocrazia, formata nelle culture giuridico-amministrative del controllo e per nulla favorevole alle culture economiche e sociali della relazione e della proiezione allo sviluppo. Una doppia morsa intollerabile per le fragili impalcature di quelle professioni che io chiamo da tempo “degli architetti sociali” (psicologi, sociologi, mediatori, comunicatori) i veri paria del potere pubblico ma anche gli ambiti in cui il cittadino può trovare – ormai spesso “per legge” – un punto franco di dialogo, di ascolto, di accoglienza [1].
 
Riassumendo la crisi nell’evoluzione della materia, penso che il punto sia così sintetizzabile. Avevamo appreso da colleghi “forti” come i britannici, che l’ evoluzione professionale capace di tener testa, offrendo però servizio concreto, alla politica e alla burocrazia amministrativa era rappresentata dall’ottenere garanzie su tre punti procedurali: programmare, budgettare e valutare.
Programmare : la legge (che proprio su questo punto scrivemmo noi, alla Presidenza del Consiglio) assegna la funzione alla PCM. Ma essa non è stata mai gestita, mai sostenuta, mai divenuta cultura effettiva di coordinamento.
Budgettare : tutti sanno che questo è un punto di forza nel rapporto con la politica la quale preferisce estrema flessibilità. Ma una intelligente amministrazione sa comprendere le condizioni di crisi e di emergenza, sa essere flessibile. Così si è lasciato che tutto fosse emergenza e quindi che niente fosse normalità.
Valutare :  battaglia persa. Avere chiesto almeno la costituzione di una commissione pari ordinata a quella di valutazione dell’accesso. Niente. Il governo valuta se stesso. E come si sa non valuta. In questo caso rinunciando a dare ai cittadini e alle imprese il diritto di sapere se i soldi spesi in comunicazione servano a consolidare la popolarità dei politici o servono a attuare meglio le leggi e a saldare meglio istituzioni e società. Una abdicazione grave. Che ha lasciato la sola Corte dei Conti a regolare – in forme annichilenti – quello che paesi civili regolano invece in modo qualitativo.
 
In questa involuzione procedurale si annidano però anche altri difetti. Ne cito solo tre: perdita della relazione interattiva con il territorio, fragilità progettuale nella rete, scomparsa del presidio di difesa professionale. So di farmi qualche nemico, ma ho pagato anch’io qualche prezzo, amarezze e delusioni, su fronti su cui non lascio più correre.
Il territorio. Io non mitizzo il territorio, non ho il “Roma ladrona” facile dei leghisti, sono stato formato nell’idea che lo Stato svolga la regia generale dello sviluppo. In più a nord come a sud – operando nel sistema regionale e in fondazioni impegnate in contesti locali – ho visto anche un territorio poco incline alla legalità, spesso portatore di visioni corte e cortissime. Ma è un fatto che la “comunicazione pubblica” che aveva la missione di “abbracciare” il paese, per migliorare il dibattito pubblico, per generare – senza limiti di luogo – vera interattività, insomma che doveva produrre un po’ di democrazia partecipativa, ha avuto due soli punti di sviluppo entrambi dentro la regola del centralismo: quella di assecondare carriere ingiustificate senza qualità e senza prestazioni di servizio infeudando l’amministrazione alla politica (e quindi azzerando ogni funzione critica, interpretativa, sociale, delle attività comunicative);  oppure quella di promuovere la retorica patriottica in sé non sbagliata ma non più declinata dentro la domanda sociale quindi dentro i bisogni della gente, ma come pura sovrastruttura formale.
Fragilità progettuale nella rete. Stare nella rete richiede un grande sforzo di analisi identitaria e di cultura del servizio. Le strutture comunicative pubbliche sono state deboli, anche debolissime, su entrambi i fronti. Il risultato è di avere assecondato qualche moda senza trarre poi conseguenze: siti vetrina, social network abbandonati (qualche volta giustificatamente, altre volte no), eclissi della e-democracy (anche nei processi di ascolto, non dico in quelli co-decisionali). Certo conosco esempi virtuosi e conosco esperienze interessanti. Ma l’amministrazione centrale non ha dato il buon esempio e ha perso una formidabile occasione formativa per concepire la rete come un nuovo ambiente di lavoro. E’ stata relegata ad essere strumento. E per lo più strumento-soffitta , dove cacciare a poco prezzo semiprodotti informativi non concepiti per la gestione del ritorno informativo.
Presidio professionale. E’ scomparso tutto. La pochezza gestionale di un gruppo di pensionati che ha trasformato l’associazione di settore in una bocciofila ha fatto sparire sia la battaglia per lo statuto disciplinare che quella per lo statuto professionale, due cose essenziali che dovevano impegnare pancia a terra, da un minuto dopo,  il varo della legge 150. Per non parlare dell’errore di visione che ha fatto vanificare l’esistenza di un salone nazionale di settore che andava trasformato con una architettura dei contenuti capace di acchiappare l’Europa, non di omologare la rappresentazione all’Italietta. Oggi non c’è quasi più nulla in piedi – non me ne vogliano gli amici della Ferpi, che lodevolmente discutono e che sono comunque ottimamente guidati – ma fatemi dire che vedo solo i forum europei – deboli ma resistenti – impegnabili oggi nella ripresa di quella discussione che è necessaria per mettere in sicurezza la funzione degli operatori garanti del patto tra istituzioni e cittadini e per dare prospettiva alla formazione del settore nel quadro della vocazione sociale della funzione pubblica.
Qui si apre una conclusione inevitabile. Molti chiedono se servono nuove leggi. Ora è evidente che il ciclo normativo si è fermato. Non c’è più disegno da un pezzo. Siamo persino arrivati a vedere – con la costituzione di questo governo – che la competenza coordinante presso il sottosegretario di settore non è stata assegnata, vedremo perché. Il governo Monti ci aveva mostrato che il perché risiedeva nell’accorpamento della competenza a quella del Portavoce. Compiendo cioè un errore di scuola, che si dimostra penalizzante per i cittadini, per il respiro colloquiale delle amministrazioni, per la stessa necessità della politica di avere due diversi registri (i media e il front line) nella gestione del “racconto”. Molti sarebbero i motivi per riaccendere una discussione, non tanto sulla comunicazione pubblica, ma sugli strumenti della relazione tra istituzioni e società al di là del problema della visibilità dei politici. La funzione economica della comunicazione pubblica sarebbe tutta qui, quella di aiutare i processi a funzionare. Dalla legalità alla condivisione delle scelte, dal consolidamento identitario all’aggiornamento della cultura dell’integrazione. Non è questa la sede per ridisegnare la mission. Dovrebbe esserci un piano, strettamente connesso ai temi dell’attuazione della Agenda digitale ma esteso anche ai nodi critici del vissuto dei cittadini di ciò che chiamiamo “qualità dei servizi”. E questo piano dovrebbe avere con sé un momento alto, autorevole e indipendente per valutare se il denaro che si spende in questo campo – tanto o poco che sia – è speso bene o male. Se per fare ciò servissero delle norme, allora direi facciamo le norme. Ma siccome non ho sentito in tutta la recente battaglia politico-elettorale del paese, una sola voce – nella politica – disposta a sostenere un simile progetto, penso che esso sia immaturo. Come è immatura l’idea che un nuovo ceto politico generato da un’idea sempliciotta della rete ha del proprio rapporto con l’amministrazione pubblica. Evolverà, certo, farà quello che Enrico Letta ha proposto (“scongelarsi”). Va bene. Ma intanto fatico a dire da quale parte ci si può aspettare un segnale di cambiamento.


 

[1] Ho sviluppato l’idea che la comunicazione pubblica non sia il trasferimento verticale dallo Stato ai cittadini, ma una forma permanente di relazione orizzontale e interattiva tra istituzioni, società e sistema economico-produttivo nel libro “La comunicazione pubblica per una grande società” (Etas, 2010)