Michele Mezza – Una lettura di “Quarantotto” di Stefano Rolando

16 dicembre 2008 – Nei giorni scorsi sono stato invitato  ad uno dei vari dibattiti  organizzati nell’ambito del Premio di comunicazione Terme di  Contursi,  un comune della oblunga e vitale provincia di Salerno -la  provincia più lunga d’Italia, nella quale la longitudine è anche  un sintomo della varietà di temi e sensibilità del territorio – dove instancabilmente Antonio Bottiglieri e Gerardo Sano  riversano le molte suggestioni che raccolgono nella loro poliedrica attività di intellettuali della Magna Roma.

Al centro dell’edizione di quest’anno il denso libro  di Stefano Rolando  intitolato autobiograficamente all’anno  Quarantotto. Un libro che  si propone come un vero  poster generazionale, dove si ripercorrono, con una sagacia letteraria e un’intrigante voglia di decifrazione tipica di un autore che ha accumulato  l’ebbrezza di  numerose esperienze al vertice, tutte  le ricorrenze  più  pervasive che cadono nel 2008: i sessant’anni della costituzione, i quarant’anni del ’68, il trentennale del caso Moro, il decennale del primo governo diretto da un ex comunista, ecc ecc. Un libro che , inevitabilmente diventa un blog, nel senso che induce all’aggregazione una comunity  di esperienze, quelli appunto che nati, fra il ’48 e il ’53, sui quali sono infrante le onde sismiche degli eventi ricordati nel libro. Aneddotica e ricostruzione storica trovano nel volume un’elegante ed efficacie equilibrio, portando il lettore a sistemare  molti dei suoi cassetti della memoria. Lo consiglio a chi, se parte della comunità, ha ancora voglia di darsi una ragione  di come gli è andata, o a chi, successivo anche di vari decenni, vuole capire come è possibile che questo paese sia ora governato da quella stravagante generazione di  pompieri con passato da piromane. Nel corso del dibattito, al quale sono stato chiamato come, ovviamente, parte della prima categoria  citata, mi sono  fatto interrogare da tre quesiti che il libro mi aveva fatto affiorare alla mente.
Il primo , direttamente connesso al tema del ragionamento di Rolando, che  rileggendo la sua esperienza di grande tecnocrate della comunicazione del sistema paese che negli anni ’80 lo aveva portato a collaborare da vicino con  l’allora premier Bettino Craxi, si chiedeva come mai  chi allora era dalla parte giusta della storia non  avesse avuto  il riconoscimento  dovutogli  all’esame del ’89, dell’anno che stabilì l’irreversibile sconfitta del modello comunista rispetto alla risorsa riformista della socialdemocrazia europea, che Craxi rappresentava in Italia? Io ho sintetizzato il nodo di Rolando con la domanda: perché chi  era nel solco vincente si trovò senza popolo, ossia senza consenso e sostegno  tali da poter imporre le proprie buone ragioni,m e poter pilotare la crisi italiana fuori dalle rapide di Mani Pulite?
Interessante mi è parsa, per la persona e il versante culturale che rappresenta, la risposta dell’on. Pasquale Viespoli, sottosegretario al Welfare, che  ha esposto l’intera generazione politica di quegli anni, destra e sinistra, ad una dura rilettura di incapacità e inadeguatezze che hanno appiattatiti anche le buone ragioni storiche di chi si trovava nel solco vincente. Una riflessione che ci pare, se la seguissimo nella genuina ispirazione dell’autore, ci darebbe una interpretazione diversa dalla vulgata inciucista, di un confronto e dibattito a tutto campo che  vedesse oggi impegnate forse dei due campi della politica italiana e rileggere il passato ma soprattutto a ricostruire per il paese un nuovo recinto di cultura politica competitiva.
Il secondo quesito  che ho proposto al confronto riguarda un passaggio nevralgico fra i molti analizzati dal libro, ossia il  fin troppo citato ’68. Io sono convinto che molti degli abbagli politici che seguirono a quella fase  sono conseguenza di una errata lettura di quel fenomeno, che io  considero, nella sua accezione estesa all’intero decennio che ne è seguito, diciamo  fino alla decisiva vertenza Fiat dell’autunno del 1980 che chiude sia il ’68 che soprattutto il ’69 sindacale. Un errore che ha portato la cultura politica ad  interpretare quegli anni come gli anni in cui le masse irrompono nelle istituzioni,  dove la politica impone alle elites il duro confronto con il movimento dei giovani e del lavoro. Io penso – lo penso da tempo, ma  non da sempre, confesso io per primo –che invece quella rottura  sociale e culturale apriva la strada  all’ansia di individualismo e di differenziazione che serpeggiava nella società italiana. In Italia, come del resto nel  del mondo che  vide le piazze riempirsi di giovani, a muovere le coscienze e le gambe era la voglia, largamente inconsapevole, di sfuggire alla dimensione di massa, in cui fordismo e consumismo standardizzato, aveva relegato i nuovi ceti urbani professionalizzati. Gli studenti chiedevano differenziazionee affermazione, era una delle prime forme di richiesta di successo che portava  migliaia di giovani ad improvvisarsi giornalisti, propagandisti, disegnatori, scrittori, leaders politici, e gestori di primi apparati burocratici. Così come in fabbrica  affiorava, sotto forma di ribellismo e di conflittualità permanente, un inedito e ancora  acerba  rigetto  dello status di operaio che protava le cosiddette avanguardie a sfuggire la condizione  di lavoratore industriale, grazie al sindacato o alla politica dei gruppi o alla cassa integrazione che spinge migliaia di operai a diventare qualcosa d’altro. insomma quello che sulla costa occidentale degli Usa stava diventando la nuova borghesie digitale che avrebbe portato all’esplosione della Sylicon Valley, in Italia era l’affermazione di un edonismo post industriale che  porterà poi alla crisi delle istituzioni di massa a cominciare dai partiti.
Terzo ed ultimo  interrogativo che mi ha intrigato riguardava l’origine della deriva che vede la politica italiana scarrocciare in preda al vento, senza  riuscire  a governare le vele in maniera competitiva. Mani Pulite, con la sua azione di  sradicamento dell’insediamento sociale dei  grandi partiti di governo del paese , è considerata da molti, soprattutto da chi ai quei partiti apparteneva, l’origine del male. Io penso che l’origine sia invece quella sorta di complicità   sociale che vedeva, come ci spiega Manuel Castells,nella fabbrica fordista accordarsi il capitalismo manageriale, borghesia proprietaria e il movimento del lavoro, che nella fabbrica trovavano giustificazione e identità. Persino le forme politiche  antagoniste, come le destre  del pre, del durante e del post fascismo, si trovano spiazzate, certo meno da chi sulla fabbrica aveva costruito un impero ideologico come il movimento marxista,dallo sgretolarsi delle mura attorno alle quali era andato in scena il conflitto del secolo breve. L’annebbiarsi della fabbrica come motore economico e sociale, e la sua sostituzione, con  i circuiti di  elaborazione e circolazione dei saperi e delle competenze, sotto forma di comunicazione integrata, disarmano la politica del ‘900. Il muro di Berlino, penso io insieme a Castells ed a De Kerkhove, cade per il bisogno di velocità nell’informazione più che per una domanda di libertà. Al centro della scena  si erge una strana figura, un individuo che auto gestisce la propria emancipazione attraverso sistemi in rete, e che disintermedia i suoi bisogni da istituzioni, partiti e amministrazione. L’unico elemento comunitario che ancora raccoglie interessi e comportamenti è il territorio, il suo essere soggetto di sviluppo e competizione. E’ lì che si costruisce il nuovo patto fra governanti e governati, quella che Pierre Rosanvallon chiama nel suo ultimo libro  La legittimazione democratica (Seuil editore), recensito proprio oggi lunedì 15 dicembre da Repubblica, la contro-democrazie del controllo e della proposta.
Su questi temi mi interesserebbe un confronto con  chi ha esperienze, e soprattutto, età diversa dalla mia. Come forse converrete è stato un weck end utile e interessante e soprattutto, grazie  agli amici Bottiglieri e Sano, la dimostrazione che si può fare, ovunque. Insomma We Can anche a Contursi.