Come si organizzò il 40° della Repubblica (da Rivista it. di com.pubblica, su FB,17.6.2016)

Come si organizzò il Quarantennale della Repubblica
Un contributo alla storia della comunicazione pubblica in Italia nell’anno del 70° della Repubblica
Stefano Rolando
Il 70° della Repubblica, che cade nel 2016, è un evento celebrativo iscritto compiutamente nell’approccio storico. Non ci sono praticamente più “testimoni vivi” (salvo qualche eccezione) tra i protagonisti della vicenda politico-istituzionale che costituì il maggior fattore di discontinuità dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra.
Per sette volte i “decennali” sono stati un momento per “regolare gli orologi” del rapporto tra istituzioni e cittadini sulla data fondativa della cultura pubblica del Paese. Talvolta con qualche tiepidezza, altre volte con maggiore impegno progettuale e organizzativo. Può essere di qualche interesse riproporre uno dei momenti – tra questi sette – che viene generalmente ricordato per la sua vivacità.
Porto qui infatti un piccolo contributo rievocativo che riguarda la progettazione e l’attuazione del 40° anniversario della Repubblica che cadde nel 1986, nel quadro del governo presieduto da Bettino Craxi, interagendo allora con una parte rilevante dei protagonisti del referendum e dell’istituzione della nuova forma costituzionale dello Stato.
Innanzi tutto quel quarantennale (rispetto al 2 giugno 1946) fu concepito in forte connessione con il quarantennale della Costituzione (approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 e promulgata l’1 gennaio 1948). Essi cadranno sotto la responsabilità di due diversi governi (Craxi e Goria), ma entrambi con alto riferimento nel presidente della Repubblica (Francesco Cossiga) e con una supervisione politico-costituzionalistica di Giuliano Amato (nel primo caso sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, nel secondo caso vicepresidente del Consiglio e ministro del Tesoro).
Il trentennale della Repubblica (1976) era avvenuto con Leone al Quirinale, presidenza del Senato Spagnolli, presidenza della Camera Pertini, presidenza del Consiglio Moro (con Cossiga agli Interni, Rumor agli Esteri, Forlani alla Difesa e Andreotti al Bilancio). La celebrazione fu rituale (“un profondo e fecondo processo, tuttora in atto, di trasformazione della società italiana lungo la via, certo non facile, della sua elevazione morale ed economica”).
La parata militare venne rinviata a causa del terremoto del Friuli. Il dibattito sostanziale avvenne nel quadro politico culturale e se ne trova traccia in rete con un certo protagonismo della rivista Mondo Operaio (allora in dicitura staccata) grazie alla questione delle “incompiutezze”. Anche qui lavorava la penna di Giuliano Amato e stava al centro del dibattito un testo di Giorgio Amendola dedicato a Gli anni della Repubblica. Peter Nichols – dalle colonne del Times – dipingeva nubi sull’Italia, criticando la corruzione e segnalando la devastazione del terrorismo. Enzo Forcella (Celebrazioni di un trentennio) compiangeva la democristianizzazione italiana attorno all’ingessatura retorica della Repubblica.
L’86 appare davvero come un balzo in avanti enorme rispetto al clima di dieci anni prima. Domato il terrorismo e ridotta l’inflazione, il paese sta negoziando il suo posto nelle responsabilità internazionali. E il governo a guida socialista conquista un certo diritto alla stabilità, pur sempre insidiata da destra e da sinistra ma apprezzata dall’economia e dall’opinione internazionale.
Il punto “celebrativo” del quarantennale appare centrato su tre questioni: associare la riflessione storica sulle origini della Repubblica all’interpretazione della crescita del Paese, attraverso un inventario non retorico; allargare la base partecipativa all’Italia dei “cento campanili” in un protagonismo territoriale e sociale che le istituzioni repubblicane avevano marginalizzato; superare i confini della storiografia di un certo antifascismo di maniera (anche di “fazione”) recuperando una dimensione “nazionale” del rinnovamento della politica e delle istituzioni.
Era evidente che l’interpretazione stessa di quella metà degli anni ’80 come tribolata ma certa crescita del Paese, interna e internazionale, ispirava una linea di comunicazione istituzionale che parlava al Paese ma che a sinistra era contraddetta dall’idea del gruppo dirigente berlingueriano (come D’Alema ha più volte ricordato) sulla sostanza del “declino nazionale” circa quegli anni, così come da destra si proponevano barriere conservatrici riguardo alle proposte di riforma per consolidare la crescita stessa.
Il mio contributo sarà prevalentemente sulla progettazione e le realizzazioni comunicative di quell’evento, attorno a cui operavano alcune precise responsabilità: quella coordinante di Giuliano Amato, quella connessa alla lettura sociale e territoriale delle celebrazioni (che coinvolgeva l’apporto di Gennaro Acquaviva e il coinvolgimento del Censis), quella di una tessitura di un giornalismo a metà tra l’informazione e la storia (Antonio Ghirelli). E ben inteso quella del presidente del Comitato delle celebrazioni, il senatore a vita Leo Valiani (fiumano, combattente partigiano, azionista, radicale, repubblicano, storico contemporaneista).
Da un anno responsabile del Dipartimento Informazione ed Editoria di Palazzo Chigi (avrà questa dicitura solo dal 1988 con la riforma della Presidenza, ma vi arrivai nel 1985), assicuravo le risorse tecnico-creative interne per sostenere eventi, comunicazioni e progetti editoriali complessi in una fase in cui – comunicativamente – le istituzioni non erano più silenziate. Fondamentale la collaborazione degli Archivi di Stato, diretti dal 1982 da Mario Serio (in seguito a capo di tutta l’amministrazione dei Beni culturali, scomparso nel 2012).
Tralascio qui il resoconto degli eventi ufficiali. E tralascio anche il riscontro sui media e negli ambiti di dibattito pubblico che le proposte di riflessione avanzate dalle istituzioni provocarono. Ricordo solo che quel riscontro ci fu, una volta tanto non per “virgolettare” l’ufficialità ma per discutere (chi pro, chi contro) il ragionamento sulla crescita e sul concorso sociale e nazionale (a terrorismo battuto, o quasi, perché i colpi di coda vi furono) alla tenuta delle istituzioni.
Inutile – ma innegabile – ricordare che quella celebrazione avveniva a valle del settennato di Sandro Pertini, che aveva letteralmente ribaltato in senso positivo lo scollamento degli italiani dalla reputazione stessa del Quirinale. E avveniva nel ciclo maturo (e anche finale) di un governo che sulla “tenuta” del sistema Paese aveva speso molte energie.
La mostra all’Archivio dello Stato, all’EUR, su La nascita della Repubblica, ebbe centralità culturale tra gli eventi. Nel rivedere ancora oggi i due volumi dell’esposizione storico-documentaria e degli atti convegnistici di studi si ha un fremito di ammirazione per la dedizione, la competenza e la cura di quel comitato scientifico che presiedette all’evento: Leo Valiani, Renato Grispo, Aldo G. Ricci, Mario Serio e Giuseppe Talamo (con l’ordinamento di Giovanni Paoloni e il progetto tecnico di Giulio Savio). Un apporto prezioso che voglio ricordare fu quello di Giovanni Errera, segretario del comitato scientifico delle celebrazioni. Il mio team realizzativo editoriale faceva capo a Enrico Longo, era coordinato da Antonio Scaglione con la grafica da Fulvio Ronchi. L’inventario documentario resta insuperato e la qualità delle analisi coinvolse la prima fila degli studiosi di storia politica e istituzionale: Scoppola, Quazza, Spriano, Tamburrano, Bonaiuto, Pileri, Di Nolfo, Traniello, Ghisalberti, Morelli, Ruffilli, Fonzi, Spreafico, Monticone, Caracciolo, Barucci e, naturalmente, Valiani e Massimo Severo Giannini. Valiani – per raccordare storia e politica – coniò l’espressione della “legittimità di far storia riguardo ai tempi che viviamo”. Quanto alla mostra – che conteneva preziosità fotografiche, giornalistiche e di atti ufficiali (tra cui l’intero inventario di documentazione della formazione del simbolo della Repubblica) – essa resta tuttora una soddisfacente risposta a chi ritiene oggi che gli Archivi di Stato possono andare in malora.
Ma fu attorno ad un dossier di analisi, anch’esso edito dalla Presidenza del Consiglio, che si concentrò il rapporto tra rievocazione e bilancio. In copertina il trattamento grafico del quarantennale (Fulvio Ronchi) in cui linee parelle in vibrazione, quindi indicanti plasticamente “andamenti”, compongono al centro il numero 40 che utilizza i colori della bandiera nazionale.
Naturalmente al capo del governo toccava tirare le some di quel “grande viaggio dentro la libertà”. Ma solo citando le firme del fitto fascicolo di Vita italiana (speciale supplemento del n.3/1986) si comprende la ponderata proposta di testimonianza e di analisi. Dopo Francesco Cossiga e Bettino Craxi si leggono i contributi di Enzo Cheli, Andrea Riccardi, Arrigo Petacco, Ennio Di Nolfo, Simona Colarizi, Ugo De Siervo, Pasquale Saraceno, Guido Carli, Vincenzo Foa, Geno Pampaloni, Franco Monteleone. Poi una antologia di brani di Bracci, Garofalo, Nenni, Palermo, Romita, Sforza, De Gasperi, Togliatti, e anche di Umberto II e di Maria Josè, curata da Paolo Bagnoli; e le testimonianze raccolte da Jader Jacobelli di Andreotti, Bozzi, Fanfani, Jotti, Pajetta, Pertini, Saragat e dello stesso Valiani.
Nell’ultima parte il diritto all’opinione con cinque brani su “Avvenimenti in filigrana”: Giorgio Bocca, Riccardo Ruffilli, Giuseppe Galasso, Giorgio Spini e Paolo Spriano (ricordo la pazienza di Giuliano Amato per far rientrare il naso storto di Valiani attorno alla firma di Bocca).
Una parte rilevante del fascicolo fu curata dal Censis su “Temi e problemi della crescita socio-economica dell’Italia repubblicana”. Un documento arricchito di tabelle e andamenti che argomentava la sintesi assai comunicativa di Giuseppe De Rita: “Siamo più longevi, ricchi, scolarizzati, motorizzati, proprietari di casa, vacanzieri, garantisti (per la salute e la pensione), consumisti, teledipendenti. Siamo meno prolifici, emigranti, appassionati di cinema, paesani, sicuri della propria sicurezza (nel traffico come nella vita delle città), attaccati alle certezze tradizionali”. Come si vede la cifra interpretativa segnala che il 40° è già “seconda parte” della storia degli anni repubblicani. Fa parte dei contributi di ricerca generati da quel quarantennale, il volume – che sempre il Dipartimento mise in produzione – con cui il Censis con una analisi verticale e orizzontale della società italiana intitolò a I valori guida degli italiani. Il repertorio critico riguarda “immagini, opinioni, rappresentazioni a quaranta anni dalla nascita della Repubblica”. Le ricerche – prevista dal programma ufficiale – ebbero possibilità realizzative nel 1987 e così trovarono poi la via editoriale che già si era arrivati al governo di Ciriaco De Mita. Il quale dedica in prefazione una riflessione sulla distonia tra mutamento sociale e resistenza delle istituzioni al cambiamento. Oltre quattrocento pagine compendiano poi l’interpretazione di tutti i profili relazionali degli italiani (verso se stessi, la famiglia, la società, le istituzioni, eccetera) analizzati nel farsi della contemporaneità. E’ qui impossibile far sintesi, ma è certo che il ritratto appare oggi in evidente e interessante equidistanza dal tempo degli italiani con le macerie ancora da rimuovere del dopoguerra rispetto agli italiani governati dalla dipendenza al telefonino di oggi.
Terzo snodo di quelle realizzazioni una multivisione che presentava nelle piazze italiane lo schermo frammentato delle tre storie di quel “viaggio nella libertà”: quella politica, quella socio-economica, quella culturale. Simona Colarizi e Valerio Castronovo ispirarono i testi sceneggiati e Pier Paolo Venier (da poco scomparso) realizzò la tecnica di scomposizione e ricomposizione delle immagini in una grande corsa attorno al vissuto degli italiani. Piazza del Popolo a Roma inaugurò le proposte nelle piazze delle nostre città.
Al tempo stesso Corrado Farina – regista torinese innovativo, sensibile tanto alla letteratura quanto all’economia – proponeva un “Crescendo italiano” sulle note rossiniane, in cui nuove certezze del nostro sistema produttivo, venivano raccontate dietro il sipario della Scala che apriva il documentario. Con queste immagini fu cercata la via televisiva nazionale e internazionale.
Cento donne italiane meritevoli della gratitudine istituzionali ricevettero a Palazzo Chigi la distinzione della “Commenda” al merito della Repubblica, senza proteste e senza polemiche, nel segno di una attenzione civile e settoriale che ebbe un centro di sensibilità nella Commissione per le parità allora animata da parlamentari e giuriste di grande dedizione tra cui provo a ricordare (temendo dimenticanze) Alma Cappiello, Marisa Del Bufalo, Tina Lagostena Bassi, Elena Marinucci, Laura Remiddi e Maria Rita Saulle.
Il presidente Cossiga seguì passo per passo l’elaborata vicenda di queste celebrazioni. Ci disse che avevamo dato un buon contributo a “ricucire la narrazione della distanza tra paese reale e paese legale”. Ma volle anche tentare una innovazione nel sistema simbolico di quella narrazione. Immaginò cioè che fosse matura una revisione proprio del carattere puramente simbolico della Repubblica. Il suo “emblema”, che è ovviamente parte della nascita della Repubblica adottato con decreto legislativo del 5 maggio 1948, n. 535, in materia di “Foggia ed uso dell’emblema dello Stato.”
Cossiga accoglieva una opinione forse non maggioritaria che reputava che i caratteri grafico-simbolici contenuti in quell’emblema (la stella a cinque punte, storico simbolo patrio di origine greca e poi anche risorgimentale; la ruota dentata simbolo della civiltà del lavoro e quindi anche dell’art. 1 della Costituzione; il ramo di quercia, simbolo di forza e dignità del popolo; il ramo d’ olivo, simbolo della volontà di pace) potessero essere messi a revisione in nome di un rapporto stimato più adeguato tra modernizzazione del paese e cultura simbolica.
Ho raccontato questa vicenda in altri momenti, perché essa non si risolse in uno “scambio di pareri”. Entrò in una procedura di consultazione tra esperti (Umberto Eco, Armando Testa, Emilio Greco, Aligi Sassu, Bruno Munari che si dimise e in aggiunta Paolo Colombo e chi qui scrive) e poi tra operatori professionali (previsti in collaborazione tra grafici, storici e esperti di araldica) che produsse un percorso – che sempre riportava alla responsabilità di Giuliano Amato – su quella che Eco chiamò felicemente “la cultura simbolica vagante degli italiani”.
In realtà la cultura simbolica vagante degli italiani, vagava molto poco nella modernità. Essa riproduceva soprattutto torri, castelli, aquile; poi anche stelle, alberi e cavalli. Insomma un’età comunale pre-rinascimentale, che fece riconoscere più “moderna” la visione simbolica del pittore valdese Paolo Paschetto vincitore del concorso indetto dal governo nel dopoguerra e che, sia pure con tribolazioni, aveva portato alla scelta del suo lavoro di compilazione creativa in quel perimetro di significati che gli italiani tuttora chiamano “lo stellone”. I duecento lavori di concorso furono esposti all’Archivio di Stato come segnale di un ascolto anche su un tema così speciale, ma – alla fine tirando tutti un sospiro – rinviando i tempi per una “modernizzazione” più condivisa.