Chiose dalla panchina n. 5 – L’intellighentia ciellina si interroga (8 marzo)

Chiose dalla panchina n. 5 – 8 marzo 2010
 
Scende in campo l’intellighentia ciellina. Lorenza Violini è ordinario di Diritto costituzionale all’Università degli Studi di Milano.  Una collega, una studiosa apprezzata, che collabora da anni anche ad alcuni profili del mio master in Iulm. L’ho vista all’opera con impegno e non poche volte con saggezza. Oggi è affidato a lei il compito di argomentare ad un livello diverso la posizione di Formigoni e del quadro politico che è intervenuto a sua difesa. Lo fa su un quotidiano on line di area ciellina, ben fatto e molto diffuso, Sussidiario.net. E lo fa con “l’editoriale del giorno”. Il titolo “Moriremo radicali?” fa già capire che l’argomentazione non sarà strettamente giuridica. Non sono un giurista, ma di retorica comunicativa un po’ mi intendo. Il testo è articolato in tre parti. La prima parte serve  a collocare la riflessione nella condizione di eccezionalità che si è creata. E dunque a far capire che bisogna “entrare adeguatamente attrezzati in campagna elettorale“. La seconda parte serve ad ammettere in via di principio colpe ed errori che sono imputati (salvo chiarire che non vi era “logicamente” diritto a denunciare quelle colpe e quegli errori) così da definire che questa ansia legalista sta ad un livello più basso, più misero, di quella che potremmo chiamare “leva della storia”. La terza parte è appunto quella in cui – abbandonata l’attrezzatura giuridica – la collega assume il respiro della filosofia della politica. Terreno che le mostra il mondo con i buoni e i cattivi, come del resto ciascuno fa quando appunto “giudica”. E in questo girone celeste non c’è posto per chi “pour se poser, s’oppose” cioè per chi pur di crearsi visibilità e protagonismo arriva a “distruggere elezioni e democrazia“. Arriva cioè al nichilismo (leggere per credere!). In quel girone dunque non c’è posto per chi non vuole migliorare gli altri attraverso una canonica accoglienza degli errori (la confessione?) ma vuole soltanto “distruggere”. L’interrogativo angoscioso da il titolo all’editoriale: moriremo radicali? Mentre giro il testo alla sicuramente più attenta considerazione di alcuni amici costituzionalisti e giuspubblicisti, lo giro anche ad alcuni destinatari delle mie attuali “chiose dalla panchina”. Come essi sanno, si tratta di parole innocue. Senza diritto nè di rappresentazione elettorale nè di attenzione dell’elettore. Il Sinedrio  aveva visto anche in me quel nichilista pericoloso e ha provveduto per tempo  – come dice l’autrice – a “tutelare i beni della convivenza“.
 
http://www.ilsussidiario.net/News/Editoriale/2010/3/8/Moriremo-radicali-/1/71447/
Sussidiario.net
Moriremo radicali?
 
lunedì 8 marzo 2010
Con la pronuncia del Tar Lombardia e con il decreto “interpretativo” sottoscritto sabato dal Capo dello Stato si sono creati i presupposti perché si possa condurre a fine la complessa vicenda della presentazione delle liste elettorali per le prossime elezioni regionali e le sue tormentate fasi intermedie. Trattasi anche di un “buon” fine?
Ragionare a botta tiepida sulla vicenda può essere un utile esercizio, non solo per chiarirne almeno in parte le logiche, gli interessi e le ideologie ma anche per entrare, adeguatamente attrezzati, in campagna elettorale.
Sulle scelte compiute dal collegio milanese vi è poco da dire: se è vero che il compito di verificare la correttezza delle firme spetta ad un organo ad hoc, composto secondo logiche di imparzialità e di competenza (i tre giudici nominati dal tribunale locale che, accertata la regolarità delle firme, ammettono la lista alla competizione), certezza del diritto e speditezza dei procedimenti elettorali vogliono che non si possa contestare, pro tempore, la decisione presa.
L’organo che ha ammesso la lista non può, in altre parole, modificare la propria decisione visto che la legge, dice il TAR, non conferisce a nessuno la legittimazione a impugnare la decisione presa. Questa interpretazione delle norme procedimentali (non, si badi bene, delle regole preposte all’accertamento della regolarità delle firme apposte) potrà non convincere ma ha una sua intrinseca logicità, funzionale allo svolgimento tempestivo del procedimento elettorale; ad abundantiam, il neo emanato decreto legge la assevera, e con ciò si conquista – almeno su questo aspetto – la piena legittimazione quale “decreto interpretativo”, cui può anche essere correttamente connessa la pur controversa efficacia retroattiva.
Quanto al decreto legge, altro non v’è da dire se non quanto emerge dall’ampia motivazione che precede l’articolato, volta a individuare i presupposti oggettivi di necessità ed urgenza che lo sorreggono. Necessità ed urgenza non sono riferite solo a circostanze di fatto drammatiche o catastrofiche ma anche a situazioni non altrimenti rimediabili atte a compromettere la legalità costituzionale sostanziale, quali le presenti, in cui la competizione elettorale si sarebbe trasformata in un processo ad esito predeterminato.
Ma su questo aspetto mi pare viga un accordo pressoché unanime tra le forze politiche ragionevoli, che si sarebbero comunque rifiutate di vincere a tavolino. Si è giunti dunque ad un buon fine, ad una fine buona, coerente coi valori costituzionali che segnano le nostre società democratiche?
La risposta va per ora sospesa per rispondere ad un altro grande tema, ad un’altra obiezione che serpeggia, più o meno coscientemente, in tutti, fomentata dal clima culturale in cui siamo immersi e ci pervade, da quel giustizialismo – per chiamarlo nel modo più semplicistico possibile – che porta alla legge uno sguardo già viziato da pre-giudizio, già pre-giudicato.
 E’, in altre parole, il grande tema della legalità, che si esprime con le accuse più o meno velate di leggerezza, superficialità, dilettantismo, scorrettezza, spregio delle norme, arroganza del potere di chi si considererebbe al di sopra della legge e sa di poter agire impunito, certo di essere comunque coperto dal potere dei propri simili, diversi dal comune mortale che subisce invece ogni genere di vessazione da chi applica la legge: i vigili urbani, gli ufficiali giudiziari, l’agente delle tasse, insomma il potere.
E Dio sa quanti cittadini vivono esattamente questa sensazione di impotenza e di frustrazione. In altre parole, “noi” siamo sottoposti alla legge, “loro” la manipolano a loro uso e consumo. E in questo il partito radicale sarebbe l’unica difesa politicamente efficace quanto giuridicamente impotente data la logica – vincente – ora descritta.
Banalizziamo al massimo: ma non potevano stare attenti? ma non potevano arrivare puntuali? ma non potevano pensarci prima, controllare, verificare, scegliersi collaboratori adeguati, alleati politici sicuri, notai rigorosi, sindaci esperti, timbri rotondi ed efficienti etc…..? Risposta sottintesa: certo che potevano! Noi al loro posto avremmo fatto così.
Questo sembra essere – al di là del fatto contingente – l’unica posizione bipartisan, l’unica posizione vincente perché incontestabile. Tutto è vero, infatti, nessuno può negarlo. E allora?
Allora possiamo domandarci quanto siamo disposti ad immolare davanti a questo dio, il dio legale, il dio perfetto perché perfettamente aderente alla legge, il dio che tutti noi vogliamo essere o diventare, l’utopia della nostra efficienza inappuntabile che ci costruiamo quando vediamo, dell’altro, solo l’errore. Il paradosso di questo modo di vedere e’ che, pur dicendo cose tutte giuste, costituisce la negazione proprio del senso della legge. Non si tratta di contrapporre forma a sostanza (sarebbe pericoloso), o lettera ad interpretazione (sarebbe ingenuo).
Si tratta invece di usare una ragione, una ratio, che è poi il senso vero della norma, lasciata sì ai mutevoli fenomeni dell’interpretazione giurisprudenziale e dell’attuazione politica, ma ultimamente determinata da una struttura fatta di principi e di logiche che ne mantengono intatta la finalità mentre conservano coerenza all’intero ordinamento, non a caso un insieme “ragionato” di norme, talvolta anche in contraddizione tra loro, ma costruito e pensato per tutelare i beni della convivenza.
Non potere (cioè violenza contingente che potrebbe ben usare anche della legge per affermare le sue non-ragioni) ma, appunto, ragione, che si mostra non solo nei presupposti ma anche nelle conseguenze.
La posizione radicale, da qualunque partito provenga – anche da partiti o persone che stanno dentro le coalizioni riammesse – in quanto ultimamente nihilista, non si cura di tutto questo ma di tutto usa per affermare sé nel suo disegno oppositivo (pour se poser, ils s’opposent -  si diceva nel Sessantotto), disposta a distruggere elezioni e democrazia, partiti e persone, non per far rispettare la legge ma per piegare persino la necessità (più che condivisibile, che nessuno mette in dubbio) di rispettare la legge al proprio scopo, come è successo del resto per un istituto nobile quanto ormai ampiamente inutilizzabile quale è il referendum abrogativo delle leggi, previsto dalla Costituzione ad integrazione della democrazia rappresentativa, che i radicali appunto hanno usato come tribuna per procacciarsi visibilità e non per sviluppare, per incrementare, la democrazia diretta, il potere del popolo di far sentire la propria voce.
Se questa volta il gioco ha fallito, per la generale, quasi ovvia ragionevolezza di un sistema che ha per cardine valori che molti – e tra essi il Capo dello Stato – tendono a conservare, attenzione allora a discernere il giudizio ultimo che tratteniamo, un giudizio da cui nasca la capacità sempre più tenace di agire nel pieno rispetto delle regole e la stima per i valori che esse incarnano, restando aperti a imparare dagli errori di oggi una via verso una non impossibile giustizia e una esistente verità. Contro ogni nihilismo, da qualunque parte esso ci venga instillato.

 

Riscontri
 
Caro Stefano, non conosco personalmente la collega e non posso che stare alla tua malleveria di buona fede e buona condotta, che peraltro avrei comunque dato per scontate fino a prova contraria; non sono di scuola andreottiana né per carattere né per training (alla Columbia e a UCB quando ci ho studiato io “conspiracy theory” era una parolaccia nell’analisi politologica). Difatti qualche volta mi sono fatto fregare. Tuttavia di questi sostenitori della legittimità dell’errore che sono spuntati come funghi chiodini, per sostenere le ragioni del Padrone (in Italia palesemente ce ne è uno e dichiarato) posso solo dire, per non usare il solito linguaggio che hanno una chutzpah da record mondiale.
a)      Ci sono delle regole per la presentazione delle liste (regole vecchie, forse in passato male osservate, tutto vero, ma sono osservazioni che possono essere accettabili solo se fatte PRIMA della marachella, e se valide erga omnes. Dopo e fatte SOLO pro bono principis, io mi vergognerei a farle. Naturalmente ognuno ha  la propria sensibilità giuridica e morale.
b)      Queste regole vengono violate. Prima ancora che si pronuncino gli organi competenti (che commentatori ignoranti come capre continuano a non capire che sono organi amministrativi e non “ i soliti magistrati”, tanto che avverso, i ricorsi si fanno al TAR e al Consiglio di Stato)i colpevoli invece di chiedere scusa a tutti, ma in primo luogo ai loro elettori, scatenano un polverone che accuse, insulti, minacce, il solito scenario da osteria o da curva sud.
c)       Due leaders dell’opposizione dichiarano che non vogliono vincere con il trucco. Il solito Feltri, cas pur, come si dice in statistica della improntitudine della borghesia arrogante del nostro paese, li accusa di non aver proposto soluzioni. Davvero toccava a loro?)  
d)      Viene rispolverata la vecchia dottrina nazista (e oggi ci ricorda Schiavone anche sovietica, della democrazia sostanziale. La cultura giuridica italiana ha sempre insegnato (e ce lo ricorda Onida) che il diritto è generale e neutrale e che quindi la sua sostanza sta nella formalità. Altrimenti chi decide se una data cosa è “sostanziale” e un’altra no? Soprattutto con dei campioni mondiali di fair play come  Berlusconi & Co.
e)      Il Premier sale al Colle minacciando “brutalmente” (riferisce la stampa) di far ricorso alla piazza. Questa cosa si chiamava squadrismo, oggi non so più.
f)       Napolitano cede, a mio avviso sbagliando, ma non ero lì. Offrire ai Berluscones la fregnaccia dell’impeachement  ( che poi se non hai i numeri chi impiccia chi?) è una grande sciocchezza e serve solo a distrarre l’attenzione dal punto principale: che questi sono degli inetti pasticcioni e che dovrebbero scusarsi con tutti gli italiani che vengono cacciati da uffici postali, banche, ospedali, scuole  e altro e ringraziare per una toppa costosissima in termini di legalità (e vedrà semmai la Corte) ma anche di semplice civismo. Formigoni e Polverino sono stati rimandati a ottobre ed entrano per il rotto della cuffia, il loro voto, quando sarà dato sarà comunque un voto non del tutto legittimo, checché ne dicano i giuristi della domenica e al servizio. E le critiche ai radicali sono vergognose.   E il tutto è un gran pasticcio, ma non l’hanno fatto né Bersani, né Bonino, né Di Pietro: chi l’ha fatto dovrebbe stare zitto.
Guido Martinotti, Milano 8 marzo 2010

Io invece mi chiedo: quanto loro (PdL, ma ancor più CL) sono disposti ad immolare davanti a questo dio, il dio del mantenimento dello status quo, dei rapporti di forza (anche sociali) immutabili, del facile consenso, dell’opportunità che – così facilmente – diventa opportunismo, e del “buon senso” che – altrettanto facilmente – diventa pregiudizio e mancanza di illuministico dubbio?
Marco Peverelli, Campione d’Italia, 8 marzo 2010

Caro Stefano,leggerò questo testo. Ti devo dire intanto che a me questa querelle di forma e sostanza del diritto ricorda Stalin, né più né meno, e anche Lenin – cioè il pensiero e la pratica comunista sovietica negli anni 1920-1930 e seguenti. Come direbbe Arbasino, si ebbe il nostro daffare a liquidare lo stalinismo nel Pci fra gli anni 1960 e 1970 per non sentirne la puzza oggi nelle argomentazioni della banda che ci governa - compreso il Bossi che cambia idea non appena il problema dell’ammissione delle liste, aperto a Roma, si pone anche a Milano. Opportunismo e pragmatismo senza principi resta una buona definizione di tutto questo. Con il corollario dell’infantilismo del pupo italico che, essendosela fatta addosso, accusa gli altri di non pulirgli il sedere.

Celestino Spada, Roma 8 marzo 2008

Ho letto questo pezzo della Violini. Mi sembra una che occupa il suo bravo spazio e “vola alto”.
Sul punto specifico dei radicali associati ai nichilisti c’è un errore di fatto: i radicali si sono certamente affermati promuovendo i referendum, ma i risultati di quei referendum sono stati svuotati (resi nulli) dagli altri che controllano il processo di formazione delle leggi. E’ curiosa questa attribuzione di nihilismo nei confronti di chi ha fatto e fa battaglie di contenuto (issues per i tecnici). Se i referendum possono essere considerati in Italia a consuntivo trentennale, come sembra faccia Violini, ”art pour l’art” applicata alla politica, estetismo, nihilismo dell’azione politica, non dipende dai radicali e non mi pare sia nei loro programmi.
Celestino Spada, Roma 9 marzo 2008
 
Studiare con esiti brillanti al fine di acquisire l’abilità di sfoggiare simili argomentazioni mi allarma e mi indigna. Mi sembra tipico di scolari diligenti, inquadrati, apprezzati e promossi, che però non vivono intimamente l’amore per quello che studiano, escludendolo pertanto anche in coloro che, invece, amano davvero.E poi, mi scusi, ma che ppalle con il nichilismo…
Novella Platani, Lecco 20 marzo 2010