Carlo Lizzani (4 ottobre 2013)
La scomparsa di Carlo Lizzani e la rottura del patto inter-generazionale
La scomparsa di Carlo Lizzani – sulla scia dei casi di suicidio di Mario Monicelli e di Lucio Magri – apre riflessioni che riguardano profili distinti di un congedo con una figura importante del nostro tempo, per il ruolo culturale e civile che ha avuto per moltissimi anni.
Da un lato il congedo con un intellettuale che è stato parte dell’organizzazione culturale di un paese che, in questo campo, ha avuto più autori che organizzatori con profilo intellettuale e creativo. E qui la mia memoria va agli anni di esperienza televisiva e cinematografica in cui, in particolare nel tempo della mia direzione dell’Istituto Luce, Lizzani è stato – con pochi altri studiosi e operatori – figura di alto riferimento, anche scientifico, nel rapporto tra produzione e fonti storiche.
Dall’altro lato il congedo con un amico che, pur giunto ad un punto avanzato della vita, segnalava vitalità e possedeva un vasto ambito di relazioni, di amicizie, di memorie, di cose da raccontare. Dunque un caso di forte relazionalità “in pubblico” che – proprio in quella età – può rendere meno evidente e manifesta una condizione invece più solitaria “in privato”. Per tante ragioni non sempre indagabili di deficit: salute, affetti famigliari e amicizie importanti (malgrado l’esistenza di una famiglia ancora dinamica), alcune condizioni di autosufficienza, eccetera.
La riflessione che qualcuno avanza è attorno al tema della precarietà dell’approccio organizzato oggi all’assistenza agli anziani. Tema che è certo rilevante. Anzi la cui importanza – che comprende anche il problema pubblico della dignità della morte e delle onoranze funebri – è più trascurata di un tempo e anche rispetto ad altri contesti civili che su questo punto mantengono tradizioni esemplari. Ma la vera riflessione riguarda soprattutto lo spaesamento di una fascia ampia di persone, sia della terza età sia di quella che chiamiamo sempre più spesso della quarta età, avviate verso i 90 anni e oltre, che subiscono un’erosione affettiva biologica ma anche una marginalizzazione oggettiva per la crescita di quel giovanilismo sbandierato dalla mezza età – cioè dalle generazioni che dovrebbero assicurare l’equilibrio del patto inter-generazionale – che si è introdotto negli ultimi venti, trenta anni.
Un giovanilismo a cui il marketing ha dato qualche giustificazione, in apparenza per la facoltà di aumentare alcuni segmenti di consumo e di mercato. Ma che in sostanza ha avuto fortuna per aver consentito di esprimere, con evidente rimozione, l’incapacità di molti di convivere con il proprio inesorabile invecchiamento, introducendo forme, stili, linguaggi capaci di diventare anche barriera, ostacolo, rottura.
Rottura proprio di quel patto che ha bisogno di tutti i suoi anelli per funzionare.
Ne è una prova il boom delle badanti (1 milione e settecentomila oggi in Italia, secondo l’ultimo rapporto Censis-Imu, ovvero più 53% negli ultimi 10 anni), figure che vanno certamente ringraziate per il loro contributo ma che hanno anche visto decrescere l’impegno di reciprocità affettiva e relazionale di moltissime famiglie in un paese in cui la verticalità anagrafica era stata un baluardo culturale per secoli.
I casi di Lizzani e di Monicelli (e con alcune diversità anche quello di Magri) fanno riflettere perché – rispetto allo standard di solitudine di molti anziani – presentano ancora condizioni di socialità che, grazie alla qualità della loro vita e della loro opera, viene riconosciuta e manifestata. Certo con qualche conforto. Ma che, proprio per questo, rende evidente che la soglia depressiva di una condizione biologicamente declinante va oltre questi punti di resistenza e tocca sensibilità profonde. Soprattutto in chi ha passato una vita ad affinare quelle sensibilità.
I casi di suicidio non dovrebbero portare a generalizzazione. E anche la condizione degli anziani non dovrebbe essere, più di tanto, oggetto di generalizzazione. Tuttavia insieme alle parole di compianto culturale e intellettuale, la scomparsa di Carlo Lizzani si colloca in un punto di ragionamento sulla nostra società, nel suo complesso, che proprio uno come Lizzani (in termini non meno ironici ma magari più mordaci, anche come Monicelli) avrebbe avuto gusto a svolgere e a rappresentare con i suoi linguaggi.