Brasile, tra vecchi e nuovi simboli (Mondoperaio, n. 10, ottobre 2012)
Nella rivista Mondoperaio, n. 10/2012 (con il titolo “Oltre la samba”)
La corrispondenza è stata scritta a fine agosto 2012 e, verso la fine del testo, fa riferimento alle elezioni del nuovo sindaco di Sao Paulo, al momento di incerto esito ma con i sondaggi che propendevano per Josè Serra. A fine ottobre le elezioni hanno capovolto le previsioni ed è stato eletto sindaco della città Fernando Haddad, espressione del PT (il partito dell’ex-presidente Lula e della presidente in caruica del Brasile Dilma Rousseff)
Dopo il
racconto inglese, come sarà il racconto brasiliano alle Olimpiadi del 2016?Brasile, tra vecchi e nuovo simboli
Stefano Rolando
(San Paolo del Brasile, agosto 2012). Terzo viaggio in Brasile nel giro di due anni, con annotazioni fatte ogni volta per questa rivista. Il “dopo-Lula” e il controllo da sinistra di un bolide che vuole avere protagonismo nel mondo dei mercati, dei capitali, della concorrenza, della finanza, della geopolitica (quando la sinistra storicamente ha capito poco di capitalismo e nella geopolitica ha cercato di fare imperialismo ideologico, più o meno).
Già ma di che “sinistra” parliamo? Nel primo articolo – Dilma Rousseff non ancora eletta – parlavamo di trabalhismo, una evoluzione post-comunista e filo sindacale che aveva però cercato abilmente di copiare gli indirizzi social-democratici dell’ottimo presidente Fernando Henrique Cardoso. Nel secondo mettevamo il punto di domanda sull’espressione “socialdemocratico”, ma alcune prese di distanza della “presidenta” dal lulismo, nel senso di retromarcia su alcune visioni statalistiche e necessità di orientare credibilmente la competizione del paese nel quadro dei new-entry dell’economia mondiale, rendevano obbligatorio l’indirizzo moderato [1].
Ora che dire? L’evoluzione della politica nel mondo ha più meno gli stessi caratteri. Vaghezza ideologica, posizionamento mediatico ossessivo, ruolo e limiti della leadership, apparati clientelari, relativismo etico, intreccio politica affari, difficoltà di equilibrio (analisi e strategia) tra locale e globale. Se ti capita di dirigere la macchina da destra si accentuano i caratteri “comunicativi” liberisti; se lo fai da sinistra si accentuano quelli dell’equi-sostenibilità. Ma per entrambi il compagno vero di viaggio rischia sempre di essere il populismo: annunci continui, scarsa valutazione del rendimento, antipolitica di maniera, bottom up a chiacchiere.
Tuttavia il Brasile mantiene la crescita tra il 2 e il 2,5% del PIL, ha un accettabile rapporto tra debito pubblico e PIL (54,4 % contro il 64,4% degli USA e, tanto per ricordarcelo, il 120,1 % dell’Italia) e sta formando classe dirigente (il neo-presidente di Tv cultura, Belisario dos Santos, grande avvocato che fu difensore di molti colpiti dalla dittatura militare, mi dice che quello degli ex-giovani ribelli è uno dei collanti, oggi, della rete costitutiva della nuova classe dirigente insieme alla rete generata dalle imprese). Ed è infatti il Brasile che sta vedendo crescere il suo sistema imprenditoriale, che comincia a disporre di una base (prima completamente mancante) di infrastrutture competitive, che capisce di finanza internazionale. E ciò si aggiunge alla grande disponibilità di materie prime, ad un immenso potenziale ambientale, ad una società che – da ex-colonia – non ha fatto fatica ad accettare un modello multietnico e multiculturale sostanzialmente non conflittuale (a certi livelli riappare il pregiudizio, se un nero vuol fare il ministro deve essere almeno Pelè, ma nella realtà non c’è stata neanche una pallida esperienza del conflitto razziale USA).
Ora, è grazie a questo intreccio di requisiti che il Brasile sta dando la scalata ai ranking di posizionamento mondiale. Si dice per portare a casa il quinto posto entro le date fatidiche dei suoi eventi annunciati per avere, per tre anni, la vetrina mondiale: dai Mondiali di calcio del 2014 alle Olimpiadi, che Rio eredita da Londra, nel 2016.
E intanto – la cosa è rilevante nella politica regionale, con cui il Brasile dialoga ma si misura anche con gli USA – inizia ora, con un’agenda fitta, la presidenza brasiliana del Mercosul, il coordinamento delle politiche economiche latinoamericane [2].
Quanto alla attualità economica del Brasile è di questi giorni una potente decisione del governo per effettuare investimenti – velocizzati per gli imminenti Mondiali, ma in realtà di ordine strutturale per il paese – per nove autostrade (7.200 km lineari) e per dodici linee ferroviarie (10.000 km) con previsione di privatizzare la gestione. Una spinta keynesiana per riportare a fine 2013 la crescita al 4%, forse anche al 4,5%. E per consolidare a breve il posizionamento internazionale del paese che, secondo parametri USA, avrebbe superato l’Italia e contenderebbe ora la posizione alla Gran Bretagna. L’Economist – forse anche reagendo a questa concorrenza – stigmatizza che continui una politica di aumenti a salari e pensioni al di là dell’inflazione. Ma anche questo è il Brasile che scala il mondo non solo per arricchire i soliti noti ma facendo crescere costantemente il mercato interno.
Arrivo in Brasile per capire e discutere con quale processo di evoluzione dell’identità nazionale ci sarà questo posizionamento. Ma anche con qualche dato, tra cui l’attuale posizionamento nei ranking (inglesi e americani) sull’immagine internazionale del paese che vedono il Brasile (2011) al 20° posto (l’Italia ancora aggrappata al 7° posto). Guarda caso è più o meno il posizionamento del Brasile (22°) nell’ultimo medagliere olimpico a Londra.
E così apro i grandi giornali del paese (l’Estado e la Folha a SP, il Journal e Globo a Rio, insieme al ruolo crescente che ha Valor economico, il nostro 24 ore) alla febbrile ricerca di un dibattito proprio sul dilemma identitario: come si fa a scalare il pianeta grazie alle nuove forme di “guerra” competitiva, alla luce di tutti i fattori in crescita prima descritti; e mantenere un brand “fanciullesco”, gioioso, pur sempre molto attrattivo, in cui per ora c’è solo posto per le tre icone di sempre: la samba, il carnaval e il futebol?
Il dibattito appassiona molti. Ma nessuno lo svolge ancora esplicitamente sui media. Poco anche nelle università. Solo limitatamente al proprio ruolo avviene nell’impresa. Gli intellettuali (alcuni davvero grandi intellettuali, sociologi, economisti, antropologi, giuristi) stanno sulle pre-condizioni, sul rapporto con la storia, sulla consistenza del superamento della scarsità di sentimento di autostima che ha attanagliato molte risorse del paese per cinquant’anni (si dice dalla sconfitta in casa, al Maracanà, nella finale del 1950 con l’Uruguay, due gol imprendibili di Schiaffino e di Ghiggia davanti ad un pubblico ammutolito e con un radiocronista che scolpì nell’anima ferita dei brasiliani la famosa frase “o corazâo do pais esta parado”, il cuore del Brasile si è fermato).
Parto da qui con i miei interlocutori (operatori professionali, imprenditori, dirigenti pubblici, gente di media): ma se per caso il Brasile perdesse in casa nel 2014 con l’Argentina e il paese scoprisse che non gliene importa gran che, non sarebbe questa la prova di ingresso tra i “grandi del pianeta”? “Lei deve essere completamente pazzo” mi dice una giornalista di Valor, ma con un sorrisetto. Obbligata però a recitare lo stereotipo nazionale.
I più, sulla questione del dibattito nazionale a rilento, dicono: “Eh già, dovrebbe essere proprio una cosa su cui il governo federale finalmente interviene seriamente”. Eh no, dico io. Il brand pubblico si differenzia soprattutto da quello delle aziende per il fatto che non ha proprietari, nemmeno i governi. Appartiene alla società ed è la società che deve soprattutto discuterne l’evoluzione. E qui si apre davvero il confronto politico e sociale. Come va la società civile brasiliana? Che tessuto di iniziativa politica ha per potersi parlare di “soggetto” protagonista del nuovo corso? E non è da qui che si deve giudicare come e cosa può affiancare la trilogia simbolica classica per aiutare il paese a misurarsi nella modernità con l’immaginario collettivo planetario? Che ci sia un problema di consolidamento della “società civile” se lo va ponendo, come tema strutturale dello sviluppo, anche la politica brasiliana. Lula (all’anagrafe Luis Inàcio Lula da Silva) dichiarò alla stampa, nel riepilogo delle cose rilevanti del suo mandato e forte di un indice di popolarità mai raggiunto da nessun politico brasiliano: “Sono andato incontro alla società civile in modo che essa potesse produrre le politiche pubbliche che interessavano al mio governo”.
Così la discussione va un po’ avanti. Chi dice che è proprio la sostenibilità il grande tema del nuovo Brasile, chi dice che è la “mescolanza” (cioè la soluzione equilibrata inter-etnica, con cinque popoli diversi che convivono da quasi due secoli), chi dice che è “la nuova capacità narrativa, cioè il modo al tempo stesso creativo, poetico, seduttivo con cui i cantori ma oggi anche i soggetti di potere possono “cambiare musica” al mondo” (è il mio amico professor Paulo Nassar, dell’USP di San Paolo e direttore di Aberje, la forte associazione dei comunicatori professionali delle imprese e delle istituzioni, in privato anche un poeta, a dire questa cosa). Sulla “mescolanza” il dibattito è profondo. Che essa non veda al centro quei duri conflitti che la storia di molti paesi multietnici ha registrato è un fatto. Che ciò determini “uguaglianza”, gli analisti seri del Brasile contemporaneo lo escludono. “Bisogna chiedersi perché – scrive nel suo recente saggio sulle trasformazioni brasiliane il giornalista americano Larry Rohter che è stato corrispondente per 15 anni di Newsweek e del New York Times – malgrado il concetto di uguaglianza, così caro ai brasiliani, la società brasiliana adesso è una delle più disuguali al mondo con immensi abissi che separano classi, razze e generi” [3].
Sposto il confronto con i giovani, stagisti, ricercatori, studenti. Viene fuori una centralità delle due macro-città brasiliane – cioè Rio de Janeiro e Sâo Paulo – che sommate alle altre quattro grandi città del paese (Brasilia, Porto Alegre, San Salvador, Belo Horizonte, la città della Fiat) – fanno metà della popolazione. Viene fuori il tema del “contenitore” della materialità e della simbolicità del nostro tempo, che le città rappresentano. Viene fuori la capacità di SP (brand di città industriale, come Milano) di occuparsi di arte, cultura, creatività. E la capacità di Rio (brand di città delle meraviglie, come Roma) di occuparsi di petrolio, industria, miniere, finanza. Insomma una sorta di mega-urbe diffusa che fa proprio di questa dimensione forse la vera icona di un innamoramento dei brasiliani per il loro cambiamento. E fa venire in mente che forse queste due città sono la “nuova icona” del processo di riorganizzazione dell’identità e dell’immagine nazionale giocata in equilibrio con la potenzialità del cuore amazzonico e quindi con l’immensità paradisiaca di una “riserva” e quindi anche di un antidoto.
Il regista brasiliano (già direttore del Museo dell’Immagine e del Suono di SP e direttore di Embrafilm a Rio e di Tv cultura, Ivan Negro Isola, italiano di origine) mi dice che questo confronto è appunto quello dell’Infermo e del Paradiso per l’incoscienza della gente di vivere beatamente sotto una cappa di veleni permanenti. Ma, si sa, all’innamorata si perdonano i difetti.
E’ l’austostima? Dipende dai parametri. E dipende dalle generazioni. La gioventù che studia e sta per entrare nel mercato del lavoro non sembra per nulla attanagliata. Mie studentesse in Erasmus a Milano solo tre anni fa sono rientrate e hanno scalato imprese, associazioni, istituzioni. La più sveglia è una manager che, in due anni, ha sostituito il suo capo. E’ l’americanizzazione del processo di lavoro. Che costa vita privata, costa sacrifici, ma ha una euforia compensativa. Anche qui problemi di città, di ceti sociali, di aree a prova di depressione. Se hai scelto il volontariato sociale, se sei nel Nord-est dove perdurano le criticità sociali, devi avere altri valori per affrontare la sfida del futuro. Tutto ciò ha un punto di convergenza su cui il paese e il governo paiono ora fare patto: la centralità della scuola e della formazione. Le università sono buone ma la migliore di esse (proprio la USP a S.Paulo) è 70° nei ranking internazionali. Non male, ma non coerente con le presunzioni del paese. La presidente di Boeing Brasile – antenna commerciale ma anche di partnership della potente industria aeronautica USA – Donna Hrinak (già ambasciatrice USA in Brasile e in vari paesi latino-americani) dice che i coreani mandano in USA laureati tecnici a specializzarsi dieci volte più del Brasile. Si misurano così oggi alcuni problemi di standard nella qualità della formazione. Dunque, anche qui necessarie accelerazioni. E questa parola, accelerazione, quindi velocità, sta alle spalle di ogni ragionamento sul cambiamento. Appunto un cambiamento troppo veloce. Non lo dicono solo i vecchi scienziati sociali (che pure lo dicono), lo dicono anche i giovani che dovrebbero beneficiare di più delle trasformazioni. Ma sentono proprio fragile il parallelo consolidamento identitario. Se la politica avesse ancora cultura strategica qui giocherebbe tutto il ruolo di mediazione tra obiettivi nazionali e protagonismo sociale. Ma lo fanno solo i politici in disparte, quelli che hanno già dato (e forse anche più capito). Fernando Henrique Cardoso in testa. Che, a 80 anni, esce con un magnifico libro di riflessioni identitarie [4]. “Nel fondo – scrive – io sono un homus politicus, ho ricevuto eredità dal mio paese e da alcune generazioni ancestrali per vivere la vita nella funzione del servizio al pubblico, della polis, e per me il mio pubblico oggi è solamente il brasiliano, ma è un pubblico che comincia ad avere una visione globale del mondo”. E al tempo stesso l’ex presidente non smette di avere opinioni sulla politica interna riservando critiche e ridimensionamento rispetto al successo del suo avversario Lula: “Non avrei mai pensato di essere così deluso da Lula che ha gestito il governo come fosse un distributore di soldi senza far nulla per rafforzare le basi dell’economia”.
Soprattutto dall’esperienza nascono contributi utili alla ricapitolazione identitaria, che in tempi di forte cambiamento richiede più certezza dei percorsi compiuti. La vedova dell’ex-ministro Celso Furtado, scomparso nel 2004 (una sorta di Antonio Giolitti del Brasile contemporaneo, ambasciatore del Brasile presso l’Unione Europea, poi ministro della Pianificazione con il governo Goulart, poi esule a Parigi durante la dittatura, dove si consenta di ricordare che chi scrive lo conobbe e lo intervistò, poi ministro per due anni della Cultura) ha pubblicato gli scritti del marito proprio del periodo di responsabilità della Cultura. Perché centrali nella ricerca sullo sviluppo identitario del paese, di questi tempi tornata di moda con una difficile ricomposizione da un lato della mutuazione delle culture europee da parte della borghesia, dall’altro lato della forte creatività popolare [5].
Si cita questo contributo perché le leggi di defiscalizzazione della produzione culturale sono state essenziali per fare massa critica attorno alla produzione di qualità largamente centrata sui filoni identitari. Prima la legge Sarney poi la legge Rouanet hanno permesso a progetti “difficili” che ottenevano la validazione del Ministero della Cultura di trovare risorse finanziarie in qualunque azienda nazionale (Petrobras in testa) ritenesse opportuno sostenere quel progetto ottenendo la totale defiscalizzazione pari all’importo assegnato. Oggi ci sarebbero, dunque, rodati strumenti per sostenere nuovi percorsi centrati proprio sui mutamenti in corso.
Quanto agli Stati Uniti, questo paese haun ruolo crescente nelle relazioni e nella vita reale del Brasile. Cinquanta anni fa questo genere di relazioni sarebbe stato all’insegna di una maggiore durezza geopolitica e rispondente a interessi immediati delle multinazionali spesso rapinatrici. Oggi i media americani trattano con rispetto l’evoluzione del paese e la politica americana è consapevole che lo stesso stile di vita dei brasiliani, l’evoluzione delle città e dell’urbanistica, la circolazione dei consumi più popolari, sono più in sintonia con il modello americano che con quello europeo. Nicholas Lemann ha dedicato di recente un’ampia analisi al Brasile su The New Yorker che santifica questo apprezzamento, secondo cui anche all’interno del BRIC il Brasile – che ha rinunciato agli armamenti nucleari – ha un profilo assai meno conflittuale di Russia, Cina e della stessa India, mentre lo sviluppo della politica brasiliana “Brasil sem miseria” sta mostrando che né USA né Europa imbroccano la crescita economica, la Cina non da segni concreti sul terreno della libertà politica, la riduzione delle ineguaglianze non avviene in india e in larga parte del pianeta. Aggiunge: “un paese caoticamente democratico in cui la stampa è libera”. Accreditando la politica al tempo stesso sociale e competitiva del governo, ben conoscendo l’origine militante nell’estrema sinistra di Lula e della sua successora, Dilma Rousseff di cui cita con apprezzamento la linea politica: “Proprio come non concepiamo lo sviluppo senza inclusione sociale – riferisce queste parole della presidente – così non lo concepiamo senza un’industria forte, innovatrice e competitiva” [6].
E, alla fine, la politica cambia pelle? Si adegua a questo modello “glocale” migliorando la qualità degli eletti e del processo decisionale?
Tot capita, tot sententiae. Ognuno dice la sua e c’è chi pensa che questo sia il tallone d’Achille, chi dice che – dopo populismo, dittatura, sperimentazioni democratiche, rigenerazione dei partiti – che si vuole di più, quando da venti anni c’è stabilità, progetto, diminuzione sostanziale della povertà, crescita continua e più welfare.
La stessa Donna Hrinak mi dice che adeguamento alla globalità è un processo complesso. “Riguarda la politica, ma riguarda anche le multinazionali che restano spesso imprese nord-americane con una attività internazionale, che tuttavia imparano la partnership reale e quindi assumono un po’ alla volta un altro punto di vista”.
I media sono lo specchio di questo strabismo di opinione. Da giorni tiene la prima pagina dei giornali la storia di un processo, giunto nei piani alti della giustizia (con quattro richieste di condanna, una per un deputato e tre per imprenditori di comunicazione), che riguarda una vasta trama per pagare i parlamentari di altri partiti disposti a votare alcune leggi del primo governo Lula. Una “macchina per paghette” (qui si dice “mensalâo”) messa in piedi dall’allora ministro della Casa Civile Josè Dirceu, le compagnon plus proche di Lula, che poi, travolto da scandali, venne sostituito proprio da Dilma Rousseff che fece qui la muscolatura per diventare a sua volta presidente. Il deputato ex-laburista Roberto Jefferson ha spifferato tutto. Prima scagionando Lula, ora dicendo che “non poteva non sapere”. Conosciamo il copione. Se traballa il mito di Lula a questo punto non viene più giù il paese e non si compromette il take-off annunciato tutti i giorni soprattutto sui media economici.
La presidente Dilma Rousseff – come scrive l’Economist parlando del “peso della corruzione” – “esce per ora indenne da vari scandali perché l’impegno che ha fin qui dimostrato nella lotta alla corruzione fin dall’inizio del suo mandato dovrebbe garantirle una riserva di credibilità nei confronti dell’opinione pubblica”,ma segnala che il carattere di urgenza che hanno molti piani infrastrutturali proprio in vista dei Mondiali del 2014 e delle Olimpiadi del 2016 aprono e apriranno problemi (un primo scandalo è scoppiato con al centro una grande impresa di costruzioni, la Delta, che per ora ha travolto segmenti politici dell’opposizione).
Insomma, nell’immaginario di un paese che ama sognare ma che secolarmente fa anche i conti con la realtà, la corruzione – pur oggi contrastata e perseguita giudizialmente e mediaticamente – resta una icona del brand negativo che pesa però più all’interno che all’esterno [7]. All’esterno pesa forse di più – e il Brasile deve farci i conti per evitare che si radichi l’idea nell’opinione pubblica internazionale – l’ombra delle violenza e della criminalità. Qui covano i temi che, nel dibattito su come allargare e modernizzare il perimetro simbolico del Brasile moderno, possono contrastare alcune ipotesi a cui si è qui accennato perché, appunto, l’evoluzione di un brand non si fa per decreto ma si costruisce giorno per giorno nella percezione di tutti, dentro e fuori.
La politica brasiliana oggi deve trovare un punto di equilibrio tra la gestione del reale, delle tante contraddizioni di un paese con ampia e complessa demografia e con un’evoluzione della povertà al benessere avviata ma non compiuta. Questo realismo deve misurarsi con l’annuncio di una spettacolare e velocissima trasformazione del ruolo internazionale del paese. Misurando settore per settore qui si può capire se c’è classe dirigente nuova o se c’è vecchia retorica. “C’è un ceto politico che dice la verità – mi dice il capo della comunicazione di una delle maggiori imprese del paese, leader nel settore minerario, la Vale di Rio de Janeiro , Sergio Giacomo, con famiglia di origine abruzzese – e che ti fa capire che per risolvere certe contraddizioni non basta arrivare alle Olimpiadi, bisogna guardare a venti, trenta anni, per esempio nel settore delle infrastrutture dove non c’è niente, dove la rete ferroviaria è obsoleta e annientata ma dove ora c’è una politica che guarda al futuro. Ma c’è anche chi ha un rapporto non responsabile con la verità e che fa credere che basterà avere successo ai Mondiali e alle Olimpiadi per risolvere il nostro problema di immagine”.
“Oggi ci sarebbe bisogno esattamente del contrario di quello che fanno i politici e i diplomatici – scrive uno dei maggiori antropologi del Brasile, Roberto Damatta, apprezzato editorialista dell’Estado de Sâo Paulo – dire e proclamare quel che si vede, si sente e si pensa”. Tra il “vecchio che avanza”, anche l’italiano Josè Serra (PSDB, poco incline a sviluppare la politica di Cardoso, sconfitto da Dilma alle ultime presidenziali, già governatore di SP e già ministro della Sanità) potrebbe tornare a fare il sindaco di Sâo Paulo (in contesa con un altro italiano, Celso Russomanno, PRB, partito “tattico”, giornalista un po’ chiacchierato), non essendo probabilmente il lulismo in grado di piazzare un candidato (che c’è, nella persona di Fernando Haddad, già ministro dell’ Educazione e professore alla USP) nella città più borghese del Brasile. Ma è tuttavia il governo in carica il luogo principale della politica. Fin troppo, per un paese che ha bisogno di bottom up. Ma anche necessariamente, per un paese che avendo puntato sulla velocità deve anche concentrare decisioni.
A alle prossime Olimpiadi, allora, quale sarà lo storytelling brasiliano? Malgrado appassioni l’idea di tentare una storia più ampia, che magari ripercorra all’inverso proprio quella fatta dagli inglesi nell’apertura delle Olimpiadi di Londra 2012 – la vicenda di un paese imperiale e colonialista che ha generato icone culturali, sociali ed economiche che sono parte dell’immaginario planetario, così da lanciare un suo punto di equilibrio tra brand nazionale e brand globale – i più pensano che i tempi siano troppo stretti per una regia culturale che racconti questo “punto di equilibrio” nella visione di un ex-paese colonizzato. “Ci sarà qualcosa di simile – mi dice Ivan Negro Isola – ma solo accenni dentro il nostro più tradizionale racconto, quello attorno ai nostri stereotipi. Gli otto minuti prodotti dal Brasile, con la regia di Bob Hamburger, nella conclusione dei giochi di Londra sono stati indicativi. In realtà c’è un racconto che solo i brasiliani capiscono, che si rifà alla storia un po’ strampalata scritta da Stanislao Ponte Preta, Febeapa, che sta per Festival de besteiras que assola o pais [8] dove c’è un povero mattacchione che in una scuola di samba racconta e pasticcia pezzi di storia del paese. Il mondo vedrà con occhi un po’ aggiornati i nostri vecchi stereotipi: samba, carnevale e futebol”.
I comunicatori brasiliani concordano con questo scenario. “Il dibattito identitario di fondo deve avere tempi più lunghi per dare risultati accolti profondamente. Ci sarà un racconto con segnali per i soli brasiliani, che saranno capiti a fondo solo da noi – dice Sergio Giacomo – e il mondo avrà quello che il mondo stesso si aspetta in verità dal Brasile: belle ragazze, coreografie dell’allegria e funamboli del calcio. Ma in realtà la discussione è provocata e chissà che non dia, anche nel breve periodo e soprattutto per la spinta delle imprese che necessitano di una modernizzazione dell’immagine del paese , qualche esito”.
[1] Parallelo 30 – 2011 anno dell’Italia nel Brasile del dopo Lula , in Mondoperaio n. 6/2010; Brand Brasile. Nell’età di Dilma , in Mondoperaio n. 12/2011
[2]R. Barbosa, A presidencia brasileira do Mercosul, O Estado de S. Paulo, 14.8.2012.
[3] L. Rohter, Brasil em malta – A història de un pais transformado, Geraçâo Editorial, Sâo Paulo 2012.
[4] F.H.Cardoso, A soma e o resto, Civilizacâo Brasileira, Rio de Janeiro, 2012
[5]C. Furtado, Sobre Cultura e o Ministeiro da Cultura, a cura di Rosa Freire d’Aguiar Furtado, Ed. Contraponto, 2012.
[6] Il reportage di Lemann è stato pubblicato da The New Yorker il 5 dicembre 2011 con il titolo The anointed.
[7] Il tema della corruzione è certamente al centro del dibattito identitario nazionale, come scrive lo storico e giornalistica Marco Morel nel suo recente Corrupçâo mostra a sua cara, Casa da Palavra, 2012, all’insegna del tema “Questo strano paese di corrotti senza corruttori!”.
[8] Letteralmente “Festival delle sciocchezze che affliggono il paese”. Con il titolo di FEBEAPA 1, FEBEAPA 2, FEBEAPA 3 sono pubblicati il Primeiro Festival de Besteira che Assola o Pais – poi il Segundo e poi il Terceiro) nelle edizioni Sabia, Rio de Janeiro, negli anni 1966.1967 e 1968. L’autore è indicato come Stanislaw Ponte Preta.