Brand Brasile nell’età di Dilma (Mondoperaio 12/2011)

mondoperaio – rivista mensile – n. 12/2011
 
Brand Brasile nell’età di Dilma [1]
>>> Stefano Rolando

Su queste pagine un anno e mezzo fa registravamo la conclusione del doppio mandato del presidente Lula nello scenario di una continuità altamente probabile, ma anche nella trasformazione strutturale della politica in senso leaderistico e nell’evoluzione identitaria di un paese comunque più forte all’interno (inclusione e riduzione della povertà) e più forte all’esterno (per un più affermato ruolo nella geopolitica del pianeta). Dilma Rousseff – la ministra del PT di origina bulgara imposta da Lula ai brasiliani contro un candidato navigato e apprezzato come Josè Serra, PSB, di origine italiana (calabrese) ed esponente della città- locomotiva del paese, San Paolo – governa ormai fuori dalla tutela del suo garante.
Per alcuni versi il paese ha consolidato la mitologia del “buon esempio di socialdemocrazia al mondo” – come dice ora Federico Rampini (Alla mia sinistra, Mondadori, 2011) – per avere migliorato reddito e scolarità dei più poveri, sviluppando Welfare e inclusione, senza scassare un modello di capitalismo che per lenta (ma per nulla inerte) formazione dell’imprenditoria nazionale deve fare ancora molti conti con le multinazionali. Torno ora – ottobre 2011 – a San Paolo e a Rio, per un nuovo breve ciclo di conferenze nelle loro vivaci università, con meno tempo per colloqui programmati e quindi con percezioni più che altro ambientali, mediatiche e riferite a casi emblematici. Emblematico è, per esempio, trovare banche, ministeri, poste e altri ambiti di lavoro “garantito” in sciopero. Sciopero per adeguamenti salariali, per dialettica naturale (con le istituzioni, soprattutto), per assicurare anche al ceto medio il diritto di stare in quella spinta ai consumi che – per quel ceto – si è molto assottigliato in Europa e negli Stati Uniti: mentre qui la crescita, che si mantiene ancora tra il 4 e il 5 %, potrebbe continuare a premiare tutta la scala sociale, mantenendo vivo il miracolo brasiliano in corso. Miracolo che deve portare il paese, lanciato nell’organizzazione dei Mondiali di calcio del 2014 e delle Olimpiadi del 2016, a conquistare il quarto posto nella classifica delle economie mondiali, scalando il sistema planetario di tre o quattro posti.
 
I meriti di Lula
Luiz Iñacio Lula da Silva, ovvero Lula – surrogando in proprio la forza di un partito (il PT) che è guardato con attenzione dall’Internazionale socialista, di cui è parte – ha riallineato personalità sparse in tutto lo scacchiere della politica. Anche al centro e a destra. A destra sta con lui persino Antonio Delfim Neto, professore a San Paolo ed editorialista ancora molto seguito, che fu ministro delle Finanze con il regime militare e che oggi scommette sul sorpasso del Brasile sulla Cina. Emblematico è vedere una regia policentrica nella logica di sviluppo del paese (come tentò, per fare un esempio di successo in Europa, la Spagna di Felipe Gonzales) mantenendo Rio de Janeiro  in corsa con San Paolo nella guida dell’economia grazie al controllo da lì sulle materie prime e sul grosso della politica infrastrutturale connessa alla materie prime e alla logistica nazionale. Emblematico è cogliere l’affermazione di nuovi imprenditori che agiscono di intelligenza, per alcuni versi di innovazione e comunque di lobbying “progettuale” e non solo di pura finanza e di cooptazione nel sistema attuale del potere.
Paolo Bassetti, a capo del gruppo Tenaris (Techint) a Rio, mi fa i nomi di Eike Batista (55 anni, nel 2010 l’uomo più ricco del Brasile e secondo Forbes ottavo al mondo, con una fortuna di 27 miliardi di dollari, oggi il maggior imprenditore nella distribuzione petrolifera e nella costruzione dei porti commerciali di un paese sul mare che ne era pressoché privo) e di André Esteves (42 anni, sempre per Forbes 12° ricco del Brasile, uomo chiave del Banco Pactual che Il Sole-24 ore considera la più importante banca d’investimento indipendente del paese). Emblematico è vedere al centro del rapporto tra politica e opinione pubblica soggetti mediatici che hanno consolidato e rafforzato la loro preminenza – come Globo – senza cedere alla tentazione di diventare essi stessi attori politici.
Quando si accenna alla politica si capisce – nel triangolo delle tre capitali (Brasilia, Rio, San Paolo) – che tutto il mondo è paese e che anche qui la leadership ha soppiantato i partiti. In Brasile poi un leader è chiamato da sempre con il solo nome, come i goleadors, come i cantanti-poeti nazionali, come le star del samba-show (oggi in evoluzione verso il samba-rock): e così quei nomi restano scolpiti nelle memoria popolare (Getùlio, Juscelino, Jânio, Jango, fino a Fernando Enrique, Lula, Dilma), mentre i loro partiti diventano evanescenti, sigle che resistono naturalmente tra i militanti, nell’organizzazione elettorale, nelle regole della democrazia rappresentativa: ma i media devono raccontare storie, e le storie in Brasile hanno il potere di diventare miti anche prima di affermarsi.
Paulo Nassar – professore di comunicazione all’Università di San Paolo e direttore generale di Aberje, l’associazione dei professionisti del settore – mi spiega che ci sono cinque anni per ribaltare, in casa e all’estero, tre idee: l’idea che la politica produca più capi che classe dirigente; l’idea che ai brasiliani manchi sempre qualcosa per eccellere; l’idea che l’immagine economica del paese sia troppo legata alle materie prime agricole. “L’identità brasiliana – dice – si è realizzata con un processo di costruzione che si verifica da fuori verso dentro. Il pubblicitario Nizan Guanaes, in un articolo pubblicato sul quotidiano Folha de S. Paulo, racconta che in una recente conferenza a New York sul Brasile, il 40% degli investitori, in una votazione elettronica, ha dichiarato di credere che il Brasile continuerà ad essere un paese di commodities. O, in altre parole, che noi brasiliani continueremo ad essere identificati con merci come caffè, soia, mais, carne bovina, imprigionati nell’immagine di spiagge esotiche, belle donne, carnevale e calcio”.
 
I meriti di Cardoso
La grande raddrizzata resta quella compiuta nel corso dei suoi due mandati da Fernando Enrique Cardoso, sociologo di fama mondiale, espressione di una cultura liberale che, ai suoi tempi, il PSB (centrodestra) ha interpretato in modo piuttosto rigoroso, consentendo di rimettere ordine nel bilancio dello Stato. Lula ha rispettato la sostanza di questo approccio, ma ha tolto dall’indigenza metà dei poveri conclamati, ha scalfito l’inviolabilità delle favelas roccaforte della delinquenza (ho visto a Rio la straordinaria operazione di Cantagalo, favela in pieno centro, a due passi dalla spiaggia di Ipanema, ricollegata al tessuto urbano, dotata di servizi e tolta dal controllo malavitoso), ha fatto dell’integrazione etnica – fattore di differenza storica tra il Brasile e gli Stati Uniti – un argomento di forza per accrescere il ruolo del Brasile almeno nel sistema inter-americano. In più ha riannodato alleanze con amici e nemici, costruendo una trama di consensi che non sarebbe stata possibile agendo in nome di un partito. Ora Lula annuncia una sua seria malattia – che lo colpirà probabilmente proprio nella sua oratoria – e Dilma compirà il definitivo affrancamento, di cui aveva già dato prova dall’inizio mettendo fuori giuoco cinque ministri suoi ex-colleghi, dei quali la stampa aveva supposto corruzione. La questione della formazione della classe dirigente prende così un posto di rilievo nella gerarchia delle questioni da affrontare. E la parola d’ordine resta quella di scuola-educazione-università. Il modello “laburista” anche qui tiene.
Quanto all’integrazione la politica non deve fare la fatica che sarebbe necessaria in Europa o negli Stati Uniti. Anche se la popolazione nera guadagna ancora mediamente la metà di quella bianca. Il portato culturale che facilita l’integrazione è antico e si tratta solo di ampliare e modernizzare quella cultura. Mi dice ancora Paulo Nassar: “Per noi, meticci brasiliani, non esiste la figura dello straniero. Il meticcio è inclusivo, si orienta attraverso l’addizione, è democratico. L’incrocio brasiliano è un valore per un mondo in cui milioni di persone sono obbligate a migrare a causa della loro povertà, provocando questo nomadismo senza charme, ‘senza fazzoletto né documentò, espressione contenuta in una canzone di Caetano Veloso. Nell’ordine globale, che espelle, attrae e discrimina, l’identità brasiliana dell’incrocio di razze può ispirare nuove regole di convivenza, di convivialità, di consensualità, di collaborazione, di condivisione, di comunicazione”.
Al centro delle mie conversazioni professionali una possibile politica di branding pubblico nella età Rousseff, cioè nel Brasile che farà i conti con il rovesciamento dei tre stereotipi che mantengono ancora qualche vincolo al suo ’900, indicando cioè tre insufficienze: la classe dirigente, l’autostima, l’economia moderna. I punti di forza dell’immagine del paese sono destinati a restare tali. In cinque anni si rimuove relativamente poco, e su questo terreno – il terreno della “buona immagine” – quella del Brasile tiene. Così come in fondo tiene anche quella dell’Italia, grazie al profilo del “bel giardino”, della storia e della qualità della vita. Sono infatti punti di forza: il fattore dimensioni (una parola che ricorre molto nel lessico politico del paese è tamanho) che coinvolge l’ambiente, la vastità e la complessità del territorio e lo sviluppo demografico che ha portato il paese a 200 milioni di cittadini; l’integrazione etnica (nel senso già detto); il sentimento popolare (che traduce una naturale gioiosità, mescolata a mitologie continuamente rinnovate, come il calcio, il carnevale, la musica); la forza economica della agricoltura e della zootecnia e l’importanza strategica di giacimenti di oro, argento e ferro; il turismo in continua crescita (un turista per ogni 50 abitanti); infine il sentimento di riscossa internazionale che non è più una promessa dei politici ma una conferma del quadro di relazioni internazionali.
Sono, per converso, punti di debolezza, riassumendo qui anche cose appena accennate: la percezione della propria storia come ”storia dominata” – dai portoghesi al ventennio recente di cancellazione della democrazia con il regime militare, pur variante delle “soluzioni nazionali” e quindi fenomeno di severo controllo sui processi decisionali più che fenomeno di sottomissione; la diminuzione, ma non la sparizione, delle aree di povertà (15,3% ancora sotto la soglia minima); i riscontri modesti in ordine a un necessario prestigio scientifico e tecnologico; il vissuto linguistico che – pur nella piena identità del portoghese radicato nella migliore musicalità rispetto alla lingua dei coloni – non compete internazionalmente (e continentalmente) con lo spettacolare successo mondiale della lingua spagnola; infine una modestainternazionalizzazione del paese causa lingue straniere poco diffuse e marginali interazioni con abitudini e stili del mondo, segnalando che comunque il modello di “modernità” in voga è quello americano (per noi traducibile in modello brianzolo), non certo quello europeo classico che aveva dominato la modernizzazione del Brasile a cavallo tra ’800 e ’900.
Il lavoro politico e culturale che può spostare di più gli equilibri di immagine è così quello sui punti di incertezza. Essi – per quel che emerge nella stessa rappresentazione dei brasiliani – appaiono così inquadrati: la capacità organizzativa e la qualità della P.A.; il controllo pieno della criminalità e della corruzione; l’ampliamento di forza e di innovazione dell’impresa nazionale (al di là dell’agroalimentare e delle pur importantissime materie prime), che porta con sé l’idea di una non piena evoluzione e maturazione della classe dirigente; la certezza di disporre ancora nel medio termine di un’ulteriore crescita per assicurare un’ancora indispensabile distribuzione del benessere; la necessità di uscire dalla percezione di una relativa libertà di informazione (come del resto l’Italia, anche il Brasile sta nella fascia gialla di Freedom House); infine, rivoltando qui un fattore che pochi brasiliani sono disposti a collocare nell’area dell’incertezza, un eccesso di dipendenza psicologica collettiva dagli stereotipi del proprio sedimentato brand.
 
Dilma la dura
Ho provato a spiegare a un’esterrefatta giornalista di Valor – un’accreditata testata economica – che se per caso la finale dei prossimi mondiali dovesse riprodurre la storia della sconfitta in casa della nazionale di calcio (quella dell’indimenticabile 16 luglio 1950, quando al Maracanà contro l’Uruguay prima Schiaffino al ’66 poi Ghiggia al ’79 gelarono un intero paese sul 2 a 1 fermando l’orologio della loro storia al più profondo dei dolori) magari il segnale dell’avvenuta piena emancipazione del paese potrebbe venire dal non vivere un simile evento come un lutto per altri cinquant’anni: “O corazão do Brazil està parado” (“il cuore del Brasile si è fermato”, come disse il radiocronista al momento del primo gol dell’Uruguay) è stata infatti la metafora dell’insufficiente autostima dei brasiliani, malgrado il loro profondo autocompiacimento, nella seconda metà del ’900. Se il Brasile, magari anche non battendo l’Argentina (come sognano tutti i ragazzini che palleggiano sulle spiagge di Copacabana), nella finale di Copa del prossimo 2014, assumesse la posizione più forte in quel gruppo di outsider (il BRIC) in cui oggi viene ancora considerato “economia potenziale”, e togliesse di mezzo tutto ciò che si riconduce ad una lunga storia di sottosviluppo che i sociologi e gli antropologi della scuola di Paulo Freire (la sua Pedagogia della speranza è stata ripubblicata in Italia da EGAnel 2008) hanno fatto diventare simbolo di una criticità mondiale, non saremo certo noi italiani – la maggiore comunità tra quelle immigrate in quel paese, largamente divenuta business community con alcune aziende italiane di punta radicate con forza – a potercene o dovercene lamentare.
Un’ultima considerazione sulla presidenta Dilma Vana Rousseff Linhares. A lei tocca guidare il percorso cruciale di un quinquennio strategico per il suo paese. Le biografie ormai sintetizzano la sua personalità con una citazione che fa già storia: “Sou uma mulher dura, cercada por ministros meigos” (“Sono una donna dura, circondata da ministri mosci”). La battuta che interpreta la citazione è questa: “Dilma è una vera democratica, basta essere d’accordo con lei al 100%”. Per dieci anni, dalla fine degli anni ’60 alla fine degli anni ’70, prima di una carriera politica metà elettiva, metà d’apparato nelle file della sinistra di Porto Alegre, è stata nei movimenti armati contro la dittatura militare. Azioni, prigioni, clandestinità, amori e drammi di una generazione. Questa appartenenza ne timbra il carattere. Ha permesso a Lula di fare il piacione, perché a lei – con rango di ministro “della real casa” – spettavano i conflitti e le asprezze del potere.
Affrontati con esperienza politica,ma anche con la cultura dell’economista. Investors e manager dell’economia internazionale hanno tenuto in sospeso il giudizio per sei mesi, dopo l’investitura. Ora propendono per il credito. E’ probabile che l’incomprensibile vicenda Battisti sia passata anche attraverso vecchie trame che la riguardano. Ma il rigore di questa temprata rivoluzionaria, oggi sessantaquattrenne,rassicura alcuni mondi essenziali circa l’andazzo di un sistema che – all’italiana – produrrebbe troppi privilegi per garantire invece le regole di una classe dirigente che deve scalare il mondo ancora con la cinghia tirata. Di ciò oggi viene accreditata. Ed è un profilo che sta bene anche a Barack Obama, garanzia di un ritiro americano da vecchie esposizioni sub-continentali perché finalmente c’è qualcuno che tiene la barra a dritta. Il G20 a Cannes ha messo in evidenza tre cose di cui tener conto. Il Brasile ha gli occhi puntati sulla scalata alla classifica dell’economia mondiale.
Un vizio calcistico, si potrebbe dire, che presenta lati forti di comunicazione, ma – come gli italiani ricordano dai tempi in cui per una breve stagione vantarono di avere superato la Gran Bretagna – anche elementi di insufficienza e di contraddizione. A Cannes sono usciti i dati – sempre centrati sul PIL – che vorrebbero il Brasile in sesta posizione, contesa con l’India ma a scavalco dell’Italia (settima). In secondo luogo le attese per una politica “implicata” dei paesi del BRIC nei guai dell’Europa sono state deluse e, Brasile in testa (che punta a un suo ruolo più legittimato nel vertice del FMI), sono ricollocate all’interno nelle misure appunto del Fondo Monetario internazionale. In terzo luogo il tour europeo di Dilma ha riguardato i rapporti multilaterali (G20 e FMI), ma anche le bilateralità, con agende sull’economia e sulla cultura. In evidenza i rapporti con Francia, Germania, Olanda e – per via del ritorno alle radici – anche Bulgaria. Persino con il Belgio, della cui esistenza “statuale” si discute. L’Italia – almeno in questo giro – è fuori dalle strategie.
 


[1] Titolo originario dell’articolo. Reso poi in “La leadership e l’apparato