Anticipazione – Su “451” il capitolo “Poteri e saperi” (4 giugno 2012)

451
Versione italiana di “The New York Review of Books”
Numero 18 – giugno 2012
Per ricomporre la connessione tra poteri e saperi
Stefano Rolando
 
Stefano Rolando pubblica – dopo Due arcobaleni nel cielo di Milano. Colloquio con Giuliano Pisapia, Bompiani, ottobre 2011 – una analisi più aggiornata sull’evoluzione del sistema politico italiano (La buonapolitica. Cantiere Milano-Italia, Rubbettino, aprile 2012) tra il “cantiere” del governo Monti, quello della giunta “arancione” milanese, quello della difficile scommessa dei partiti politici a varare in tempo una decente autoriforma e quello di tante altre realtà (locali o settoriali) che, in verità, sono più espressione della malapolitica che di innovazioni.
Tra le venti proposte contenute alla fine del libro per ricostituire requisiti di democrazia, ne pubblichiamo qui uno, un breve brano dedicato all’auspicio che saperi e poteri possano ricomporre il loro rapporto. Che è anche occasione per una citazione dell’ultimo libro di Gilberto Corbellini (Scienza, quindi democrazia, Einaudi, 2011).
 
Il conflitto tra poteri e saperi è antico. Se ne sono occupati i grandi filosofi classici. Se ne sono occupati – in negativo, cioè per gli aspetti manipolativi – tutti gli storici dei regimi tirannici.
Se ne vanno occupando di nuovo la sociologia e la scienza politica in un’epoca in cui i media e i new media si sono introdotti con forza crescente in quella vecchia relazione che, nel corso della storia, ha acceso scintille quando idee e interpretazioni del cambiamento si sono sintonizzate con movimenti rinnovatori. Ma anche spento la luce della ragione quando, per affermare poteri dispotici, innanzi tutto si è cercato di togliere la voce (e spesso anche il pensiero) a chi aveva più strumenti per capire e per criticare: gli intellettuali e gli scienziati.
Di mezzo una terza storia, quella degli intellettuali asserviti, comprati, stipendiati dal potere non per esercitare ruoli critici e quindi di stimolo alla coerenza di obiettivi e principi, o per far crescere le competenze conoscitive che sono parte delle buone politiche pubbliche; ma per fornire argomenti e trattamento comunicativo alla pura e semplice conservazione del consenso.
Nel cuore della relazione tra poteri e saperi si colloca centralmente il ruolo – ma anche la natura, la condizione di libertà e di innovazione, la trasparenza e la visione del rendimento – del sistema universitario. Addentrarci vorrebbe dire trattare qui e non altrove componenti di politiche pubbliche, in verità tutte importanti, tutte strategiche, tutte bisognose di riforma. La questione universitaria diventa tuttavia precondizione del consolidamento della democrazia in sostanza se la crescita degli atenei avviene al servizio della società e non del potere. L’espressione può apparire banale, ma chi vive nell’università (e non solo) ne coglie l’immensa valenza di discontinuità rispetto a condizioni invalse e la preziosa opportunità di recupero di alcune tradizioni storiche.
Sapere, conoscenza e comunicazione sono poi fattori connessi ma anche divisi dall’antagonismo citato circa le finalità di ruolo. Il tasto è delicato, perché attraverso queste tipologie si ricostruisce una buona parte della storia del mondo. Il sociologo di origine catalana Manuel Castells ci ha aiutato, di recente, a capire che la rete e le dinamiche informative in rete possono diventare una sorta di contropotere di massa nel campo della conoscenza. Abbiamo assistito – dai paesi arabi alla Cina – al fatto che le mail e gli sms stanno cambiando storie che parevano note, immote e remote.
Ora, proprio partendo dalle lezioni della storia, ma guardando anche agli scrigni culturali del nostro tempo (le università, i laboratori dell’arte e dello spettacolo, l’editoria, la ricerca scientifica, eccetera) chi ha responsabilità istituzionali deve favorire nuove forti contaminazioni sui programmi, sui piani, sui contenuti di indirizzo, sull’analisi di impatto e di rendimento, sul racconto dei bisogni e delle attese, spingendo la politica ad accettare la permeazione e aiutando i cittadini a riconoscere quanto, nel generare decisione, risponde all’ascolto delle migliori coscienze critiche di una società.
 “Nel cuore della relazione tra poteri e saperi si colloca centralmente il ruolo – ma anche la natura, la condizione di libertà e di innovazione, la trasparenza e la visione del rendimento – del sistema universitario. Addentrarci vorrebbe dire trattare qui e non altrove componenti di politiche pubbliche, in verità tutte importanti, tutte strategiche, tutte bisognose di riforma.”
 
Al primo punto di questo rovesciamento di una prassi di gravi separatezze è sollecitare dunque il ritorno degli intellettuali a svolgere essi stessi ruoli nella politica e nell’assunzione di alcune responsabilità istituzionali. Il riserbo spesso non è frutto di discrezione, ma di mediocre opportunismo. Una storia che pareva antica e declinata, poi anzi ambito di manipolazioni e asservimenti, ha il diritto di avere un nuovo corso e di far ritrovare equilibri che sono parte essenziale della cultura non retorica della libertà.
E dentro i «saperi», un’altra rivoluzione deve compiersi, nel senso di una diversa legittimazione culturale nella società e nel sistema politico del ruolo della scienza e del sapere scientifico. Ha ragione Gilberto Corbellini a sostenere che: «la scienza moderna ha fornito gli strumenti cognitivi e morali necessari per far funzionare l’economia di mercato e consentire la nascita della democrazia». Ma è un’affermazione poco e mal sostenuta dalla capacità della politica di accogliere in modo organico l’approccio stesso – e i contenuti – della cultura scientifica nell’analisi e nella progettazione sociale. Dice ancora questo insigne studioso e docente di storia della Medicina: «la scienza stimola la capacità di pensare in modo contro intuitivo, permettendo di spiegare ciò che accade. Essa, inoltre, consente di prendere decisioni morali, economiche e politiche che non sono «naturali» – date le predisposizioni comportamentali di cui ci ha dotato l’evoluzione – ma che, tuttavia, migliorano la società sotto tutti i punti di vista. La scienza ci fa godere i vantaggi materiali del vivere in condizioni che, dalla rivoluzione neolitica in poi, sono diventate via via più innaturali». Sono tesi pressoché censurate in Italia e quindi a margine della cultura politica corrente. Perché: «una cultura umanistica pervasiva, tradizionalista e antiscientifica è all’origine dell’incapacità del paese di elevarsi moralmente e stare al passo con le economie della conoscenza».
Ecco un obiettivo strutturale per riconoscere la buonapolitica.
In questa cornice si colloca anche un tema che divide l’opinione pubblica e su cui va combattuto l’approccio demagogico e superficiale: il professionismo della politica.
Apparentemente contrastano due principi:
  • quello del diritto di chiunque – purché con i requisiti civili – di aspirare alla rappresentanza elettiva e democratica;
  • quello del diritto dei cittadini di immaginare che non solo sulle questioni di buon senso ma sempre più su questioni complesse e governabili solo con una complessa padronanza delle procedure il ceto politico sia individualmente attrezzato e non soggetto a ricatti e manipolazioni di «tecnici» o di rappresentanti di interessi.
Vi sono almeno quattro ambiti dei «saperi» che costituiscono la muscolatura culturale essenziale di chi pensa di dedicarsi alla politica: quello storico (per contestualizzare ogni problema nella sua evoluzione), quello economico (per comprendere la natura degli interessi che la politica deve regolare), quello giuridico (per sapere come si legge e come si scrive una legge), quello comunicativo (per affrontare sia il mondo dei media sia la relazione diretta con i cittadini-elettori con le potenzialità di un sistema che va conosciuto per poterlo utilizzare senza dipendenza). Ora, siamo riusciti a trasformare in «privilegio» – spesso per l’improprio uso che ne viene fatto – la figura dell’assistente parlamentare a spese del contribuente. Così come vediamo gettati senza rilevanza gli studi che apparati di ricerca in capo alle istituzioni svolgono nell’interesse della competenza degli eletti nell’esercizio delle loro funzioni. Solo due esempi per dire che i correttivi, inventati per non immaginare che solo i professori universitari possano fare politica, vengono utilizzati in caso di etica nell’adempimento e vengono snaturati in caso di non etica nell’adempimento.
Ecco allora che nel nostro promemoria la questione emerge per porre qualche vincolo nel rapporto di controllo sociale della politica. Affinché i casi di assoluta incompetenza che assicurano solo un servile atteggiamento di voto senza alcuna capacità critica di esercitare mediazioni che la costituzione vuole «al servizio esclusivo della nazione» siano percepiti come malcostume e segnalati come illegittimi.