70° della Liberazione. Oltre al grande nome di Sandro Pertini (Fondotoce, 26 aprile 2015),

Nel luogo dell’eccidio di Fondotoce[1]
Oltre al grande nome di  Sandro Pertini. Eroi comuni, uomini e donne, nord e sud.

E qualcosa su mio padre.

Stefano Rolando [2]
 
Sono venuto qui un po’ prima per cogliere da ciò che costituisce la ragione di questo luogo di memoria esattamente quello che avevo in animo di dire oggi. Che la narrazione della storia della liberazione d’Italia – per durare nel tempo, come lo fu per il Risorgimento e persino per la mitologia garibaldina pur legata indissolubilmente alla figura del Generale – ha bisogno tanto dei miti quanto delle storie comuni.
Vorrei spendere qualche parola su entrambi questi aspetti.
Ho conosciuto Sandro Pertini da ragazzo e – onorato di una amicizia di famiglia – lo ho accompagnato per tutta la vita, rendendo poi in questi ultimi venti anni – ove chiamato, ove possibile, attraverso le nostre Fondazioni – testimonianza sul monumento che è stato.
Ma, come ha detto poco fa anche Mario Artali, lui stesso era cosciente che la storia eroica che rappresentava, o meglio che incarnava, sarebbe diventata cultura di popolo trovando anche i percorsi naturali per fare comprendere che senza l’antifascismo nel suo complesso l’Italia che conosciamo e in cui abbiamo vissuto non avrebbe avuto né una classe dirigente, né una Costituzione, né una reputazione internazionale.
Proprio ieri, il 25 aprile, ho fatto da cittadino – cioè in rete – un ennesimo diverbio con Giampaolo Pansa proprio su questo aspetto. Per lucrare audience lui – che come giornalista, anche bravo giornalista, ha largamente beneficiato della libertà di informazione generata dalla cultura antifascista – mescola cose vere, verosimili e false.
E’ certamente vero che una guerra civile non poteva essere, tragicamente e per entrambe le parti, un minuetto ma una pagina violenta (pensando poi la storia stessa a chiarire chi violava e chi difendeva la libertà). Ed è anche vero che una certa storiografia ideologica ha sagomato la Resistenza in un certo modo lasciando in ombra contributi civili e militari, moderati o minoritari, persino non appartenenti. Ma è certo falso dire che i resistenti italiani furono “quattro gatti” e che l’unico loro scopo era riconducibile ad una trama per un successivo golpe comunista. Se fossero stati “quattro gatti” noi oggi non ricorderemmo 70 mila caduti – di cui 1200 solo qui nel novarese, nel verbano e nell’Ossola – altrettanti incarcerati e torturati, 40 mila mutilati a vita. E se tutta la loro trama fosse stata unilaterale e golpista la storia politica e progettuale che, in dialettica con le “forze alleate”, portò alla Costituzione e alla Repubblica non sarebbe stata quella che conosciamo.
“Quattro gatti” furono purtroppo i resistenti tedeschi (pur con atti di eroismo) e questo spiega perché, per la verità e la complessità della riscossa interna degli italiani, i vincitori della guerra permisero appunto agli italiani di scriversi da sé la loro Costituzione ritrovando così immediata dignità istituzionale e politica mentre imposero le condizioni della carta delle regole alla Germania (così come fu imposta al Giappone). Chi ha beneficiato per tutta la vita professionale dell’art. 21 della Costituzione, insieme a tanti altri diritti personali e collettivi, dovrebbe rifletterci tornando a rileggere ogni tanto l’epigrafe dettata a Cuneo da Piero Calamandrei: “Lo avrai camerata Kesserling il monumento che pretendi da noi italiani…”.
 
Ci furono eroi, certo. Ci furono protagonisti coerenti, con atti immensi di coraggio fisico.
Gli storici italiani hanno attribuito a Sandro Pertini questa dote, coerentemente esercitata da esule e da rivoluzionario in patria, da confinato e da organizzatore dell’insurrezione, con 16 anni di carceri, confini ed evasioni. Lo stesso Pertini vedeva queste doti in altri e se doveva fare nomi (ho riportato un colloquio del 25 aprile dell’85, in occasione del quarantennale, che contiene cenni [3]) faceva quelli di Leo Valiani e di Giancarlo Pajetta. Senza dimenticare mai il nome di Giacomo Matteotti che, nel coraggio della resistenza parlamentare, mostrò al mondo la natura e la brutalità del regime.
Ma ci fu una complessa declinazione di quel coraggio. I nomi sono tanti.
Presiedo la Fondazione legata al nome di Francesco Saverio Nitti che esule a Parigi – dopo che gli squadristi gli distrussero la casa e prima che i nazisti lo imprigionassero in Tirolo – fu un tessitore di alleanze politiche e di legittimazione internazionale per predisporre le vie della pur lunga e difficile trasformazione dell’Italia. Nella sua casa passarono in tanti, da don Sturzo ai Rosselli, da Turati a Nenni, da Saragat a Gobetti e Amendola (questi ultimi due, massacrati dai fascisti e curati fin negli ultimi istanti di vita dal figlio medico Federico). E sempre nelle diverse declinazioni di quel coraggio dobbiamo ricordare chi – come Alcide De Gasperi – pur nell’ombra della Biblioteca Vaticana mise la sua vita a disposizione di un pensiero lungo per preparare, appunto nell’ombra, la classe dirigente che sarebbe stata necessaria per il cambiamento del Paese.
E poi l’intelaiatura delle partecipazione politica che l’avvio del ‘900 aveva prodotto nell’Italia post-risorgimentale e prefascista, in cui si erano formati i primi partiti di massa. Il fascismo spezzò questa genesi (pur essendo a sua volta portatore di una nuova partecipazione sociale alla politica), ma non cancellò figure che – a loro modo – fecero resistenza e si ritrovarono, dopo molti sacrifici, all’appuntamento della storia.
Proprio ieri, ero a Melfi appunto al Centro Nitti (dove tra l’altro è custodita la biblioteca di casa di Carla e Sandro Pertini e dove vi è una stanza che ricorda tutti gli esuli antifascisti italiani in Francia tra le due guerre) in cui abbiamo presentato – con il sindaco della città Livio Valvano e il direttore della rivista fondata da Pietro Nenni “Mondoperaio” Luigi Covatta – la biografia di Attilio Di Napoli. Nome forse sconosciuto ai più qui. Che fu leader del socialismo melfitano, appunto in quel primo ‘900, sindaco della città, e dopo la caduta del fascismo parlamentare e anche ministro nei governi di transizione. La biografia lo chiama “intransigente”, perché avvocato difensore dei braccianti e dei più poveri. Quando evitò il confino accettando di neutralizzare la sua attività politica, attraversò così i lunghi anni del fascismo: difese da avvocato la povera gente.
 
Ciò che vorrei dire, accanto a questi, come a tanti altri possibili nomi non sempre di una storia maggiore, è che proprio in questi giorni, attorno a questo settantennale, chi frequenta i social network vede un fenomeno diffuso che non avevo percepito negli anni precedenti. Molti postano la fotografia di un nonno, di una nonna, di un padre, di uno zio, di un parente carabiniere, di un amico di famiglia, per ricordare che all’epoca ebbero la schiena dritta, fecero il loro dovere, si presero la responsabilità di esercitare il difficile diritto al coraggio civile. Raccontano episodi che non entrerebbero nei libri di storia, ma che sono entrati nel libro di tante famiglie come l’anello all’educazione virtuosa che legava il paese reale a quella storia che spesso passa sopra la testa di tanta gente, di tante famiglie.
Se in questa cornice mi è concessa una breve testimonianza personale – che non ho mai fatto in pubblico – incoraggiato dalle parole del presidente Ciampi, che sono scritte alle nostre spalle in questo luogo, perché grazie a Ciampi la vicenda delle migliaia di militari italiani trucidati a Cefalonia è stata riportata a piena luce – vorrei dire una cosa riguardante mio padre.
Il sottotenente Emilio Rolando, non ancora laureato in Economia all’Università Cattolica a Milano, partì volontario nel 1940, come molti ragazzi facevano, per “amor di patria”. E raggiungendo con la Divisione Cuneo la città di Brindisi non sapeva se da lì avrebbe preso un aereo per l’Africa oppure una nave per la Grecia. Lo imbarcarono su una nave per la Grecia, che in realtà giunse in Albania da dove Mussolini pensava che si sarebbero spezzate le reni ai greci in quattro e quattr’otto. Quei greci che, per difendere la loro patria e la loro casa, aspettavano appunto gli italiani sugli stessi monti albanesi a molti chilometri dal loro confine. Sulla Vojussa gli italiani – mal vestiti, male armati, male informati – morirono come le mosche. E una volta entrati – grazie ai tedeschi – in Grecia fino ad occuparla, quei ragazzi avevano capito quasi tutto della storia in cui erano diventati piccoli attori. Andai pochi anni fa nella piccola isola che poi, nel ’42, toccò a mio padre comandare, come comandante di compagnia, l’isola di Furni, vicino alle coste turche. Trovando ancora gente che li aveva visti sbarcare. Ricordavano gli italiani con un certo affetto. Ma – così mi disse una vecchia donna, vestita di nero, con due occhi lucenti – quella gente chiamava gli italiani “purquades”, un misto di greco e francese che corrispondeva alla domanda sul “perché” erano lì a fare la guerra proprio ai greci. Domanda a cui nemmeno gli ufficiali sapevano rispondere. La Divisione Cuneo occupò l’isola di Samos e il 9 settembre del ’43 il generale comandante riunì – come avveniva in tutte le isole e in altre parti del mondo – ufficiali e soldati, tutti, per leggere il proclama di Badoglio e chiedere (era la prima volta che qualcuno nella vita chiedeva loro una cosa del genere) cosa volessero fare. Naturalmente la risposta di massa era “tornare a casa”. Ma ciò era l’unica cosa che – senza aerei e senza navi – non si poteva fare. In verità la scelta era se tenersi le armi o – come volevano i tedeschi – consegnarle appunto a loro, poco presenti sull’isola ma in grado di riprendersi rapidamente il controllo. Il grosso fece un po’ all’italiana, cercò di prendere tempo, molti pensavano che comunque gli inglesi o gli americani li avrebbero salvati. Mio padre apparteneva a un reparto di fanteria da prima linea, quindi d’assalto. Con dentro volontari, cioè ragazzi di buona famiglia e avanzi di galera. Ma la guerra aveva cementato rapporti reali. E quei ragazzi avevano già rapporti veri con il popolo greco. E la stessa sera del 9 settembre gli spiegarono quello che i greci sapevano, che mai gli inglesi o gli americani avrebbero messo il naso in Grecia. La decisione così fu notturna e immediata. Radunò la compagnia e per salvare la vita a 120 uomini propose loro di mettere subito in rischio quella vita. All’unanimità tennero le armi e andarono insieme ai greci sulle montagne di Samos per fare la resistenza contro i tedeschi. Raramente sentii mio padre parlare della guerra (da cui tornò a fine 1946, dopo aver portato la compagnia in Turchia e poi nel periplo mediorientale fino in Egitto perché, condannato a morte dai tedeschi, si consegnava in divisa come cobelligerante agli inglesi che però misero lui e tutti quanti invece nel campo di concentramento di Ismailia). Tornò per fare famiglia, dedicarsi alla ricostruzione e alla vita industriale della Milano tornata a pulsare e per non vantarsi né di appartenenze né di storie, che portavano in sé troppi dolori. Morì di infarto nel 1971. Ma pochi mesi prima – con un bel ritardo istruttorio degli uffici del Ministero della Difesa – ricevette il plico e le motivazioni della medaglia al valor miliare “per atti fieri e intrepidi  compiuti nel corso della guerra di resistenza insieme ai greci contro i tedeschi sulle montagne di Samos nell’inverno del 1943”. Ripose con un sorriso quella medaglia in un cassetto, dove teneva per sé la sua tessera di “partigiano all’estero”.
 
Nel capitolo delle storie comuni ci sono poi le storie delle donne. Che viste da vicino non sono mai “storie comuni”, ma quasi sempre esemplari. Ne parlammo a Melfi in un recente 25 aprile con Marisa Ombra, piemontese, che unisce al suo racconto umile di staffetta, una memoria di famiglia e di ambiente che fa comprendere appunto quella esemplarità, fatta di critica e di coraggio, tanto che lei è vice-presidente nazionale dell’ANPI. Ne parlai con la figlia di Nullo Baldini (il socialista fondatore della cooperazione romagnola) e nuora di Nitti, Maria Luigia Baldini Nitti, che aveva conosciuto il carcere fascista a Ravenna e poi il lungo esilio con il padre, nel quale sommò la sua laurea in Diritto romano a Bologna con una seconda laurea in Storia dei Trattati (che è una sorta di scuola diplomatica) alla Sorbona e la dedizione quotidiana alla trama della “Concentrazione antifascista” di Parigi che comprendeva quasi tutta la classe dirigente italiana del dopoguerra. Lei – nel colloquio che mi diede quasi centenaria nel 2008 pubblicato da Bompiani[4] – limitava il ricordo di tutto ciò al fatto che in quegli anni “aveva servito il caffè” a tutti quegli illustri esiliati.
E ne parlai tante volte con una donna speciale, di cui vi mostro ora la fotografia, casualmente scattata in piazza del Duomo a Milano proprio nel gennaio del 1945. Come avete visto si tratta di Carla Voltolina, sorella del qui presente Umberto e al tempo staffetta partigiana assegnata alla sicurezza di uno dei massimi capi della Resistenza, con cui preparava, nel piccolo covo di viale Tunisia, l’insurrezione di Milano. Lei, la prima bandiera rossa sulla CGE occupata. Si sposarono a Roma nel 1946 e senza la Carla – con tutte le sue originalità – non si potrebbe scrivere una compiuta biografia di Sandro Pertini. A lei abbiamo dedicato un convegno a Milano l’anno scorso e la Fondazione Pertini sta avviando ora alle stampe un libro che ne ricostruisce il profilo.
 
Mi commuove avere qui accanto per parlare di Sandro Pertini l’on. Renzo Pigni, oggi splendido novantenne, che fu tra i più giovani parlamentari socialisti nella seconda legislatura e che proprio alla Camera dei Deputati fu il segretario di Pertini quando esercitò la presidenza di quel ramo del Parlamento. Ed è giusto che sia lui a dire qualcosa in più sul messaggio che la sua vicenda può ancora trasmettere alle nuove generazioni di italiani.
Io mi limiterò a raccontare brevi episodi “visti da vicino” che, per averli ripresi in un testo già citato, non annoto nel testo scritto di questo intervento, limitando il cenno a voce.
Ma Pertini – legato a questo luogo che inaugurò nel 1964 – rappresenta davvero la cornice giusta per riporre queste e le tante altre storie che la Casa di Fondotoce custodisce e ci ricorda.
Per due volte fu protagonista di un tema cruciale nella storia d’Italia. Quello del legame spezzato tra istituzioni e popolo. La prima volta con il percorso militante della lotta di resistenza fino all’insurrezione delle maggiori città italiane. La seconda volta, riconquistando la fiducia degli italiani nelle istituzioni, con l’incarico di presidente della Repubblica dal 1978 al 1985.
Colpisce l’osservazione – con cui voglio concludere – che nella vicenda italiana il ruolo di capo dello Stato, che ormai sappiamo bene che non ha carattere ornamentale, è toccato più a figure che hanno rappresentato molto nel “simbolico politico” e magari meno di altre nel “potere politico”.
Nella vicenda dei rappresentanti maggiori dell’antifascismo italiano il Quirinale toccò a Giuseppe Saragat e a Sandro Pertini. Diversi, ma uniti da una storia forte. Non si può non vedere che ciò avvenne nei due periodi di maggiore riorganizzazione delle riforme e di rilancio concreto del Paese – cioè una parte degli anni ’60 e una parte degli anni ’80 – che alcuni continuano invece a descrivere come anni di declino. Ma questa è un’altra storia a cui destinare altri commenti.
 
 



[1] Casa della Resistenza, Fondotoce-Verbania, domenica 26 aprile 2015. Con gli interventi di Irene Magistrini (Casa della Resistenza), Mario Artali e Emanuele Nicora (Fiap), Umberto Voltolina e Stefano Rolando (Fondazione Pertini), l’on. Renzo Righi (già sindaco e parlamentare socialista di Como, partigiano, segretario di Pertini quando era presidente della Camera). Gianluca Costantini ed Elettra Stramboulis hanno presentato il libro “Pertini tra le nuvole”, edito dal Becco Giallo.
[2] Stefano Rolando è professore universitario a Milano (insegna Politiche pubbliche per le Comunicazioni all’Università Iulm). E’ stato direttore generale alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Consiglio regionale della Lombardia. E’ presidente della Fondazione Francesco Saverio Nitti, membro del comitato di direzione della rivista Mondoperaio, membro degli organi della Fondazione Sandro Pertini e della Fondazione Paolo Grassi.
[3] In Stefano Rolando – Quarantotto – Argomenti per un bilancio generazionale – Bompiani, 2008.
[4] Maria Luigia Baldini Nitti detta “la Pimpa”, con Stefano Rolando – Il mio viaggio nel secolo cattivo – Bompiani, 2008.