5 stelle e programma di governo. Come credere ancora alla politica? (Linkiesta, 24 marzo 2013)

A chi insegna materie – come è il mio caso – che contengono nella dicitura la parola “politica” capita talvolta che qualcuno chieda “ma con tutto quel che si vede ci credi ancora alla politica?”. Rispondere alla domanda è cercare di cogliere uno dei nodi dell’impasse italiano (anche europeo e mondiale, adattando un po’ le tematiche) per decifrare meglio se vi sia una via di uscita (“governare il cambiamento”) o se si tratti solo di affidarsi ad un’altra arte, quella degli adattamenti formali. Cioè producendo un copione che renda governabili solo le apparenze e non la realtà. Insomma, paroline escogitate per acquisire maggioranze, maggioranze create per corrispondere a quelle paroline e non alla responsabilità di mutare gli equilibri tra diritti e bisogni (equità).

Partiamo da qui. La prima risposta dovrebbe essere orientata a configurare la politica non come l’esercizio astratto di un potere e di un privilegio, ma come la proposta di individuare bisogni ancora non accolti o non sufficientemente accolti (disservizi, povertà, mancanza di cure, tessuto non solidale, mala-educazione, ambiente nocivo, capitale sociale non riconosciuto dal mercato del lavoro, poche risorse collettive per lo sviluppo, eccetera) che vanno normati. Sottraendosi così all’attenzione puramente volontaria delle istituzioni perché, diventando quei bisogni diritti e connessi doveri, determinano presidi pubblici obbligatori.

Nella “proposta” sta anche il duro compito di aggiornare la gerarchia dei bisogni (visione sociale) e poi di aggiornare la gerarchia dei diritti normati (una responsabile visione economica) fornendo qui metodo e contenuti alla parola “cambiamento” che è stata sbandierata (spesso senza aggettivi e senza obiettivi) per ottenere solo consenso. Non avessimo questo strumento, ogni “cambiamento” sarebbe affidato all’intervento della misericordia, alla dinamica oggettiva e darwiniana della forza, oppure in modo più subdolo (e più corrispondente alla dominante mediatica del nostro tempo) alla costruzione di “apparenze”. Apparenze che ci fanno vivere questo drammatico copione non nella realtà, ma nel modo con cui essa si racconta e si rappresenta nel palcoscenico della comunicazione. E quindi nelle fantasie della gente, cosa diversa e più velleitaria delle speranze.

Così è evidente che entrano di volta in volta in scena nuovi soggetti che reagiscono al fatto che i predecessori (la “vecchia politica”) hanno rinunciato all’idea di agire davvero per la presa in carico di bisogni da normare, dividendosi (questo sarebbe il vero “inciucio”) tra i paladini della conservazione (non si tocchino gli equilibri esistenti) e i paladini dell’opposizione formalistica e paga dei privilegi che essa ottiene limitandosi a gracidare spesso solo in vista delle elezioni. Ricordando che il terreno in cui si esprimono i bisogni non è necessariamente “di sinistra”, perché la dinamica dei diritti – nel solco di una costituzione che prevede le regole della democrazia liberale – comporta fioriture non solo da una parte sociale ma da tutte le parti che compongono la dialettica della società. Ragione per cui la scienza politica ha acquisito come imperitura la massima aristotelica secondo cui l’uomo – per sua natura – è un animale politico.

Nell’avvicendarsi dei cicli storici di esercizio del potere i nuovi entranti sono da sempre i paladini di questa polemica visione dell’incapacità dei soggetti incombent (evidentemente di maggioranza e di opposizione) di ampliare seriamente l’area dei diritti normati governando la riduzione del bisogno e la crescita delle opportunità con la seria determinazione anche di regolare meglio i doveri (legalità). E’ stato – in forma esemplarmente violenta – il caso della Rivoluzione francese e della Rivoluzione dei soviet. Ma lo è stato anche – in Italia – l’attacco giovanilistico e fascista al vecchio e oligarchico stato liberale; o quando si è raggiunto un punto di equilibrio tra le forze minoritarie della Resistenza e le forze ricostituite della democrazia di massa; fino a tutti gli episodi di crisi dei gruppi dominanti di gestire l’evidenza traboccante di bisogni non accolti a fronte dei quali da una parte o dall’altra dello schieramento si sono formati (in Italia come dappertutto) soggetti sedicenti anti-sistema. Per la piccola esperienza italiana ciò va – finora con difformi esiti – dai sessantottini ai leghisti, dai ciellini ora ai grillini. Mentre non sono riusciti a manifestarsi comunicativamente e quindi sono restati crisalidi i contestatori “virtuosi”. Dai comunitaristi olivettiani ai federalisti europei, mentre sono stati ghettizzati politicamente i radicali che hanno fatto maggioranza nella società ma hanno poi perseguito un estremo bisogno di essere minoranza politica, fino quasi ad ingiusta consunzione.

L’attribuzione di un così alto consenso al Movimento 5 Stelle (non tutti sanno che le cinque stelle sono i contorni delle priorità dei bisogni su cui questo movimento intende fare emergere nuovi diritti: acqua, ambiente, trasporti, connettività, sviluppo) rende ora più robusto lo show down rispetto ai casi minoritari descritti. Certo giocano fattori limitanti: inesperienze, contraddizioni, inevitabili grossolanità democratiche (come se i movimenti nascenti nelle assemblee del ’68 fossero stati “democratici”!), eccesso di manicheismo (la società buona rispetto alla politica cattiva). Ma, al fondo, si rappresenta di nuovo il noto copione dell’attacco all’equilibrio conservatore tra maggioranze e minoranze in cui è prevalso l’acquietarsi, con i privilegi della politica professionale radicata nelle istituzioni (anzi, diventata essa “istituzione” ma svincolata da controlli, come dimostra l’atteggiamento di tutti i partiti di fronte ai fondi di finanziamento) rispetto al moto incessante dello stare con i piedi nella società allo scopo di presidiare, prima di ogni altra cosa, una aggiornata ricognizione dei bisogni e una nuova gerarchia del riconoscimento.

Nella proposta di un programma di governo, soprattutto in questo delicato momento che viene interpretato da una persona che pare avvertire la contraddizione del nostro tempo, quale è Pierluigi Bersani, magari anche a costo di non ottenere dalla calcolatrice il risultato maggioritario, costituirebbe un passo avanti di sistema se non si giocasse sulle “paroline” acchiappaconsensi o su questo o quel nome incastonato, alla fine, in un finto civismo, per adattare solo le apparenze di questo confronto tra ciò che è sistema e ciò che rivendica essere l’anti-sistema. Ma si ponessero le basi (che persino a destra troverebbero qualche eco) per una rifondazione dell’approccio alla politica, nel senso ineluttabile per l’occidente in crisi: servizio all’ampliamento del rapporto tra diritti e bisogni. Come alcuni paesi che uscivano da grandi squilibri e grandi povertà (si pensi al Brasile bipartisan di Cardoso e Lula, per esempio) sono riusciti a fare portando finora la loro complessa comunità ad una decente condizione di crescita e di condivisione civile.

 

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