2011 anno dell’Italia in Brasile (articolo su Mondoperaio n 6-2010)
mondoperaio n. 6/2010
saggi e dibattiti
2011 anno dell’Italia nel Brasile del dopo Lula
Parallelo 30
Stefano Rolando
“Parallelo 30”. Tutti gli stereotipi brasiliani sono destinati a essere cantati in qualche canzone di successo. Per cominciare a ricollocare il Brasile nella nuovo geopolitica mondiale intanto bisogna ricordarsi che questo paese-continente sta all’altezza del Sud Africa e non dell’Emilia Romagna. Dunque il Brasile va misurato non solo con la storia e con l’economia; ma anche con la geografia e la demografia. La geografia ci ricorda fattori climatici e ambientali che hanno reso disuguali lavoro e produttività. La demografia ci ricorda la composizione etnica complessa del Brasile moderno, il ruolo dell’Africa e dell’Europa; e nell’Europa ci segnala (il dato aggiornato è dell’Instituto Brasileiro de Geografia e Estatística) 1.243.633 italiani emigrati che per un secolo, fino alla prima guerra mondiale, hanno creato le basi demografiche di una comunità oriunda italiana oggi stimata in 25 milioni di cittadini sui 200 milioni che aspettano il prossimo censimento per segnare il traguardo (a ridosso della comunità di origine italiana quella siro-libanese stimata in venti milioni).
Il terzo millennio ha visto il Brasile, che fino a metà degli anni ottanta è stato per vent’anni fuori dalla democrazia e con gravi squilibri interni, mettere ora al centro delle sue sfide la conquista del quinto posto tra le potenze economiche mondiali. Come si capisce non è solo questione di PIL. Nessuno mette in discussione il consolidamento del quadro democratico, e in generale si riconosce anche una certa riduzione delle maggiori contraddizioni sociali ed economiche. Con questo profilo si sta chiudendo la lunga e piuttosto feconda presidenza Lula, che è stata una sorpresa per elettori e oppositori. “Oggi Lula può anche fare a meno del suo partito perché lui stesso è il suo partito”, mi dice Roberto Müller Filho, editore della Harvard Business Review in Brasile, giornalista di prestigio, già direttore del quotidiano Gazeta Mercantil e ai tempi del governo Sarney capo di gabinetto del Ministero dell’Economia.
Lo sguardo di tutti è orientato ai risvolti della parola “dopo”. Dopo Lula, prima di tutto, che a sua volta è stato dopo Fernando Henrique. Con la doppia presidenza Cardoso (1995-2002) infatti il Brasile ha stretto i bulloni della sua opzione democratica e, guidato da un sociologo di fama, riformista collocato in una formula politica di centro-destra, ha indirizzato virtuosamente l’economia (ora, un po’ defilato, nel rispetto generale, ha creato un istituto che aiuta la classe dirigente a “pensare Brasile”). Con Luiz Iñacio Lula da Silva, operaio e sindacalista, leader storico del PT, sulla breccia da decenni, il Brasile ha rimesso in gioco alcuni milioni di marginali, rilanciato le politiche sociali, migliorato la qualità urbana (pur ancora malata di molti dei suoi virus, tra favelas, criminalità e povertà endemica) ma, come mi dice Maria Berenice da Costa Machado, docente alla Università federale di Rio Grande do Sul, “senza minacciare la borghesia e gli investitori”. Anzi, le recenti attenzioni del Fondo Monetario Internazionale verso il Brasile segnalano addirittura con preoccupazione un eccesso di investimenti dall’estero, che tuttavia la crisi – soprattutto in Europa – sta rallentando nei primi mesi del 2010 circa del 20%.
La visita a Brasilia di Silvio Berlusconi è recente (12 aprile), il quadro delle relazioni economiche ha avuto spinte con la firma di un accordo di cooperazione per 20 miliardi di euro in 5 anni. L’Italia è oggi il sesto partner del Brasile, ma ci sono condizioni di miglioramento. Finmeccanica, Fincantieri, Techint, Lavazza, Piaggio, Ducati hanno progetti in forte implementazione, oltre a Fiat che ha una quota storica del mercato brasiliano e un importante insediamento a Belo Horizonte che da anni produce con grande immedesimazione nel mercato brasiliano, soprattutto nel centro sud, perché – come mi spiega Paulo Nassar, professore all’Università di San Paolo e direttore generale di Aberje (una grande associazione degli operatori professionali della comunicazione di tutto il paese – “da un lato i venticinque milioni di oriundi italiani tengono ai prodotti che si riferiscono alla loro identità, ma più in generale Fiat ha curato molto anche la sua immagine brasiliana e malgrado la produzione di gamma medio-bassa sta simpatica ai brasiliani”.
Certo l’irrisolta vicenda di Cesare Battisti ha assunto un rilievo non immaginabile e non positivo. “La gente pensa che sia una testardaggine anticomunista di Berlusconi”, dice Roberto Müller Filho: “non è chiaro a nessuno che ci sia una questione di giustizia comune”. Ora – la notizia non è neppure affiorata in Italia – il 2011 è dedicato come “anno straordinario” nelle relazioni bilaterali proprio all’Italia (lo è stato da poco a favore della Francia, con forti investimenti relazionali e promozionali dei transalpini e poi – con grande spiegamento di mezzi – a favore del Giappone, che ha una rilevante emigrazione storica in Brasile), e si va aprendo un quinquennio che vale per l’internazionalizzazione del Brasile cinque volte l’Expo assegnato a Milano: nel 2014 si giocano in Brasile i Campionati del mondo di calcio e nel 2016 il Brasile è sede delle Olimpiadi. Nell’approccio molto orientato al business che la città di San Paolo dedica a questo genere di notizie questo scenario è già oggi un campo di lavoro per moltissime aziende e agenzie. Città di dimensioni “globali”, San Paolo è stata lodata dal sociologo Manuel Castells che in una conferenza recentissima ha sottolineato che i caratteri moderni e complessi della globalità sono oggi rappresentati da questa città in una forma sorprendente. L’area metropolitana va verso i 20 milioni di abitanti e, come mi dice Margarida Krohilig Kunsch, decana di comunicazione e relazioni pubbliche alla USP “l’insieme della sua economia continua a fare l’andatura dello sviluppo dell’insieme del Paese”. E Massimo Di Felice, professore italiano di ruolo all’Università di San Paolo, ricorda che “a proposito di Mondiali ed Olimpiadi parte già oggi un’onda comunicativa complessa e decisiva per ricollocare l’immagine del Brasile nel mondo; e parallelamente il presidente della Repubblica sta scegliendo spazi di iniziativa internazionale, prima esclusi, per segnalare un ruolo del tutto inedito del Brasile nella politica internazionale”.
Lula ha dunque portato a casa due risultati ravvicinati sulla scia dell’operazione di successo fatta ad inizio del decennio dalla Cina, con Formula 1, Expo, Olimpiadi in fila a Shanghai e a Pechino. Non a caso il Brasile ha ottenuto di stare nel particolare quadro di relazioni tra paesi emergenti che va sotto il nome di BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) – un accordo tessuto nel 2009 e di recente rilanciato con la formula non solo della inter-cooperazione ma anche “per intervenire nell’ordine internazionale” – che pur con dimensioni demografiche ed economiche diverse hanno una curva di sviluppo che consente un “racconto comune” della fase storica che questi paesi attraversano e, quindi, del loro rapporto con il sistema finora rappresentato dal G8. Con il risultato, alla fine, di depotenziare proprio il club ristretto del G8 come sede di orientamenti trasferibili al mondo e di favorire la crescita di importanza di quel G20 in cui i soggetti ad avere voce in capitolo sono più numerosi ed espressione di tutto il quadro del pianeta. E intanto Lula preme sul Consiglio di sicurezza dell’ONU per segnalare il diritto del Brasile ad un posto permanente (cosa che troverebbe qualche varco solo se si accettasse l’ipotesi lanciata a suo tempo da Prodi di configurare un posto permanente per tutta l’Europa comunitaria, argomento su cui Gran Bretagna e Francia hanno robustamente frenato).
Geopolitica del BRIC
E’ in questa cornice che si legge con curiosità e interesse lo sforzo che il presidente del Brasile – anche sulla scia dei consolidamenti costruiti al suo predecessore – ha svolto giocando una carta che i suoi partner nel BRIC hanno avuto a disposizione da tempo: quella di esercitare un ruolo riconosciuto nelle mediazioni politiche internazionali. Russia, Cina e, in forma minore, India hanno da molto tempo uno spazio accettato nelle relazioni politiche internazionali che il Brasile – prima preso nella sua transizione alla democrazia, poi condizionato dall’evidenza di segnali ancora forti sul piano degli squilibri socio-economici, e soprattutto da una insufficiente autostima degli stessi brasiliani che ha radici lontane – non aveva riconosciuto agendo in un’area in cui gli Stati Uniti hanno avuto un secolare incontrastato predominio. Vari fattori ora concorrono al cambiamento di scenario: la vistosa crescita interna (nel primo trimestre del 2010 del 9,8%, assai vicino all’11% della Cina e assai lontano dallo 0,6% della Francia e dell’1% dell’Italia, ma anche del più onorevole 3,6% degli USA); la creazione di una maggiore complessità politica nello scenario latino-americano; l’intuizione del presidente Lula, a cui gli opinionisti brasiliani, anche suoi avversari, non esitano ad attribuire genialità comunicativa, circa il momento giusto per guadagnare, in sostanziale intesa con gli USA ma con indipendenza operativa, uno spazio proprio nella geopolitica internazionale. Tutto ciò ha prodotto varie iniziative, di cui le ultime, abbastanza clamorose, hanno riguardato l’intensificazione dei rapporti con la Turchia e con l’Iran sul nodo cruciale del controllo dell’energia nucleare. “La svolta è avvenuta nel 2004 al tempo della vicenda della guerra civile ad Haiti – ricorda ancora Massimo Di Felice – dove se fossero intervenuti gli USA avrebbero provocato disastri, mentre Lula è arrivato con l’immagine, che corrisponde alla realtà, descritta bene dal grande scrittore Sergio Buarque de Hollanda, padre del noto cantautore e poeta Chico, che scrivendo sul carattere dei brasiliani ha parlato dell’uomo cordiale, cioè di chi non si metterebbe per nessuna ragione a produrre litigi e conflitti. Lula è arrivato ad Haiti con la Selecão, il mitico squadrone di calcio del Brasile, e ha cominciato la sua azione diplomatica facendo giocare Brasile-Haiti alla presenza delle parti in conflitto. In breve è venuto a capo di una accettabile ricomposizione del quadro politico interno, e lì ha avuto un’impennata la quotazione del paese come player politico internazionale”.
Questa, in grande sintesi, la cornice in cui sta partendo la campagna elettorale per le presidenziali di ottobre. Ora si parla formalmente di “pre-candidati”. Ad agosto la campagna entrerà nel vivo: ”ad agosto non perché ci sia un percorso formale per la campagna, ma perché fino alla fine della coppa del mondo in Sud Africa nessuno qui ha la testa per altro e la campagna, che pure è partita sui media, deve riservare la vera artiglieria per il trimestre finale”, mi dice un trentennale amico, Ivan Negro Isola, cineasta e operatore culturale brasi-liano, di origine siciliana, al Centro Sperimentale a Roma con Rossellini, che è stato direttore del Museo del Suono e dell’Immagine di San Paolo, direttore della Embrafilm e direttore di Rede tv Cultura.
I precandidati
Lo schieramento dei “pre-candidati” è molto interessante, ed è metafora di una trasformazione del sistema politico brasiliano simile a quella in corso in larga parte del mondo, modificando in chiave post-ideologica tutti i soggetti in campo e confondendo sempre di più i netti confini tra destra e sinistra. Lula (PT, partito “laburista” fondato nel 1980, membro dell’Internazionale Socialista, partito che ha costruito a sua immagine, fino a profilare il suo ruolo con molta più rilevanza di quello del partito, con una storia di radicamento speciale a Porto Alegre nel Rio Grande do Sul, e una roccaforte nella tradizione industriale e operaia di San Paolo) sta terminando il suo secondo mandato e non è rieleggibile. Qualcuno maliziosamente dice che in cuor suo preferirebbe forse cedere il passo al suo attuale maggiore oppositore, per tornare ad essere eletto fra quattro anni, ma il presidente nega con decisione. L’oppositore è il leader del PSDB (un centrista sociale, che ha un partito con venature di sinistra moderata, tra cui la sua personale posizione, e un’area più ampia di centrodestra), Josè Serra, popolare ex sindaco di San Paolo, poi governatore dello Stato di San Paolo e prima ancora apprezzato ministro della Salute. Josè Serra ha quasi settant’anni, è di origine italiana (il padre era un fruttivendolo nato a Corigliano Calabro), è stimato, tutti gli riconoscono competenza. Ma tutti dicono che se Lula forza l’opinione pubblica può riuscire nell’impresa di imporre una candidata “politicamente tosta” (come dicono qui), ma mai eletta, sua ministra della Casa Civile (una sorta di potente sottosegretariato alla Presidenza), di 63 anni, originaria del nord ma con la carriera nelle istituzioni di Rio Grande do Sul finché non è entrata a Brasilia nella squadra di Lula: Dilma Rousseff, figlia di emigrati bulgari. Che però “non ha mai avuto un’esperienza elettorale, non ha mai preso un voto in vita sua”, dice Ivan Negro Isola.
“Una sorta di Linda Lanzillotta brasiliana che si presenta con un programma di sviluppo economico e industriale accelerato che comprende anche un intensivo, e per alcuni allarmante, utilizzo economico dell’Amazzonia”, osserva Claudio Matera, un ricercatore italiano di comunicazione politica che sta seguendo qui un dottorato. Anche per questo – per la sottovalutazione da parte del PT del crescente tema della sostenibilità ambientale – si è creato a sinistra lo spazio per una terza candidatura, quella di Marina Silva, già appartenente al PT e già ministra dell’Ambiente di Lula, la più giovane dei tre (è del ’58), nata in Acre e di pelle scura, senatrice, che ha rotto duramente quando è stata tenuta a freno e poi sostanzialmente fermata nella sua politica ecologica non flessibile. Ora è alla testa di un Partito Verde con una stima (intenzione di voto) del 6/8%, contro il 35% di Dilma Rousseff e il 38% di Serra (e naturalmente una quota di indecisi, che nella fase pre-elettorale è stimata attorno al 18%, e che sarà il terreno di maggiore battaglia mediatica). Probabilmente Marina Silva obbligherà i due avversari al secondo turno e probabilmente il suo elettorato confluirà su Dilma. Ma ciò non è scontato perché i suoi rapporti con il PT sono realmente compromessi. “Molti giovani stanno con Marina, ma i grandi media, Rede Globo in testa, conducono il gioco, e non c’è partita senza il sostegno di queste potenti agenzie di fabbricazione di candidati eleggibili”, dice Matera. Il PT esce da criticità molto forti: scandali, espulsioni, personalismi. Il gruppo dirigente è azzoppato. Il presidente Lula ha carisma ancora sufficiente per alleggerire il riflusso. Occupa spazio sui media e sui media c’è dunque battaglia politica. Come c’è stata in Argentina, in cui la guerra tra il Clarin e la presidente Christina Kircher è arrivata a far circondare la sede del giornale da un migliaio di agenti della Guardia di finanza per gestire un controllo esemplare del quotidiano, troppo critico, su molti argomenti, tra cui quello dei “desaparecidos”. Questioni legate all’acquisto di giornali e soprattutto tv nel territorio da imprese prestanome di politici sono ora frequenti in Brasile. E il ruolo dei grandi gruppi – essendo marginali le emittenti pubbliche – assume un vero e proprio carattere arbitrale. All’ordine del giorno le notizie che imprese compiacenti acquistano testate o tv per ricondurle al controllo di questo o quel politico. La candidata di Lula promette così una legge dura sui media. E questo alza il tiro di alcuni grandi gruppi editoriali.
Da qualche tempo sono in voga gli spin doctor. In Brasile il ruolo conta. Il più noto è DudaMendoça, che ha costruito percorsi “impossibili”, come quello di fare eleggere un “nero di destra”, Paulo Salim Maluf, sindaco di San Paolo (in realtà noto imprenditore, esponente della forte comunità libanese in Brasile, due volte candidato alla presidenza della Repubblica), e di puntare ora a fare eleggere “una sconosciuta” come Dilma Rousseff alla presidenza. La comunicazione politica sta assumendo proporzioni scientifiche. Con i caratteri di adattamento ad un paese che non ha uguali, e dunque non assimilabile strettamente né al “modello Obama”, né al “modello Berlusconi”. Vecchie radici populiste – il Brasile di Getulio Vargas – ma anche comunicazione sintesi del modello multietnico che non ha alle spalle storie così conflittuali come quelle degli USA. Circola un dvd curato da João Moreira Salles (Entreatos – Lula a 30 dias do poder) che ha documentato il retroscena del lavorio di comunicazione politica del presidente Lula. Ci lavorano i media, le agenzie e le università in vista delle presidenziali. Ma la sintesi di quelle 240 ore di registrazione dal vivo ne ha fatto anche un prodotto commerciale diffuso. Maria Helena Weber – docente di comunicazione sociale e politica all’Università Federale di Rio Grande do Sul e già advisor al Ministero dell’Educazione – mi dice che “naturalmente il carattere della comunicazione politica che assomiglia di più al paese e che passa di più sui media è quello di avvicinamento ai criteri dello spettacolo, tanto che perfino il regime militare pur imponendo una dittatura seduceva spettacolarmente i brasiliani”(la sua analisi più compiuta sta nel libro Comunicacão e espetàculos da politica del 2000).
Campagne elettorali così vaste, importanti, estese hanno caratteri non troppo semplificabili. Ma è certo che la posta della certezza del ruolo strategico del Brasile nella geopolitica internazionale è un nodo forte della campagna. Dilma è l’erede – ora più per i media che per l’elettorato popolare – del “pensare in grande” (come hanno già fatto nel passato molti presidenti brasiliani, tra i tanti Juscelino Kubischek, il costruttore di Brasilia negli anni sessanta), che è politica riuscita a Lula. Ma Josè Serra è credibile quando chiude un suo primissimo comizio teletrasmesso in questi giorni dicendo che “un obiettivo ne racchiude altri: mettere il paese nella condizione di ottenere ciò che è ancora contenuto nelle sue potenzialità; il Brasile vale più di quello che gli viene riconosciuto”. Il sistema politico accetta che il confronto abbia un arbitro speciale, il mondo imprenditoriale. E così è annunciato uno dei primi duelli oratori tra i due maggiori candidati strutturato su questo tema progettuale: “Come costruire il percorso che porti il Brasile ad essere la quinta potenza economica al mondo?”
Che su tre candidati due siano donne non è stupefacente in America latina, dopo che Cile e Argentina hanno già espresso donne alla presidenza della Repubblica. Un’emancipazione molto forte e relazionata al ruolo che le donne stanno assumendo nell’orientamento dei consumi e nelle responsabilità delle imprese di produzione, nei servizi e nelle amministrazioni.
La rivista economica Exame dedica al tema la sua copertina di metà maggio segnalando che il potere decisionale sui consumi delle donne in Brasile movimenta l’equivalente di 400 miliardi di euro all’anno, e segnala che dal 2003 al 2008 il reddito di lavoro delle donne è aumentato del 42% contro il 26% di aumento del reddito dei lavoratori maschi.
I nuovi itinerari di crescita
Il paese possiede tutte le materie prime essenziali. Ma la sua esportazione è ancora molto relazionata alla produzione alimentare (riempie la Cina con la sua soia). Sulla manifattura ancora c’è poca competitività, e il formidabile sviluppo nell’area tecnologica e delle comunicazioni (l’unico merito dei militari, nel ventennio di dittatura fu quello di dare una spinta essenziale alla rete delle telecomunicazioni, come veniva loro naturale per una tradizione di formazione ingegneristica e “positivista” delle forze armate in questo paese) ha ancora un orientamento prevalente di obiettivi sul mercato interno. I ranking internazionali di efficienza (indice di competitività) hanno fatto risalire il Brasile dal 44° posto del 2006 al 38° di oggi. Ma le zone d’ombra di questa “velocità” sono anche una crisi di manodopera specializzata e rischi di rallentamenti della produzione, una quantità di prodotti inferiore alla crescita della domanda e soprattutto l’inflazione che arriverà nel 2010 al 5%.
Dunque al di là dell’ebbrezza di punti di PIL che fanno arrossire la condizione di crescita dell’Europa (e anche al di là dell’importante crescita degli investimenti internazionali) è l’intera tematica del rapporto con i mercati internazionali sommata all’ulteriore riduzione degli squilibri socio-economici interni a fare da scenario delle strategie che i candidati alla successione di Lula devono riuscire ad esprimere credibilmente. Anche se molti si lamentano per la fragilità della classe dirigente, il Brasile ha tuttavia classe dirigente sufficiente per non cascare nelle trappole della propaganda. Ha scuola, università, area di ricerca e di innovazione, media argomentati per misurarsi piuttosto modernamente con le proposte che la campagna elettorale fa e farà emergere.
Colpisce oggi, rispetto alla seconda metà del novecento, la diminuzione di nomi di personalità mondialmente riconosciute nel sistema culturale del paese. Il colpo d’occhio alla galleria delle celebrità brasiliane, culturalmente parlando, è impressionante. Dalla letteratura di João Guimaraes Rosa, di Clarice Lispector, di Jorge Amado; alle scienze sociali di Gilberto Freire e Paulo Freire, di Darcy Ribeiro, di Octavio Janni (gli ultimi grandi epigoni sono proprio l’ex-presidente Cardoso, sociologo, e Celso Furtado, economista); fino alle arti plastiche (con i nomi, spesso di origine italiana, di Emiliano Cavalcanti, Candido Portinari, Anita Malfatti, Tarsila do Amaral), ed alla relazione tra musica e poesia (un nome per tutti quello di Vinicius de Moraes, nell’insieme di fenomeni epocali, come la bossanova, sintesi di ritmi brasiliani e jazz, che è stata portata a livelli internazionali da João Gilberto, Gilberto Gil, Sergio Mendes). La creatività comunque non è ferma, l’industria culturale spinge, il pubblico ha forte coinvolgimento con la sua modalità di raccontarsi. Ma il marketing del patrimonio simbolico brasiliano attuale non è riuscito ad imporre nel mondo nomi altrettanto celebrati (se si fa eccezione per uno scrittore di tutto rispetto come Paulo Coelho, che tuttavia opera nel segmento dei best-sellers più che su quello dell’opera letteraria). Così che se il Brasile volesse sapere dal mondo cinque nomi di brasiliani mondialmente conosciuti, almeno tre o quattro sarebbero calciatori (Kakà, Robinho, Julio César o Ronaldinho, tra gli attuali membri della Selecão), e forse uno o due potrebbero venire dal mondo della musica (Caetano Veloso, Tom Jobim, Chico Buarque, tra questi).
Ma certamente si muovono molte cose. Il rapporto tra sistemi della comunicazione ed economia ha una spinta di entusiasmo che in Europa non si vede da anni. E nel territorio delle relazioni tra cultura, politica ed impresa ci sono novità e interlocutori interessanti. Un solo esempio – per chi ha avuto un tempo di esplorazione strettissimo – viene dall’ex patron della borsa di San Paolo, italiano di origine e di affettività culturali, Raymundo Magliano Neto, che ha generato – con una efficace fuoriuscita dalla Borsa – una Fondazione intitolata a Norberto Bobbio (perché ha conosciuto il nostro “filosofo della libertà” stimandolo enormemente) che si colloca tra i soggetti impegnati nel connettere classe dirigente sul tema dell’accelerazione dello sviluppo. Alla costituzione della Fondazione ha preso parte di recente (il 14 maggio) anche Massimo D’Alema, incrociando una sua conferenza ai quadri della diplomazia brasiliana nella capitale.
Questa “movimentazione” ha anche una componente non irrilevante nel sistema brasiliano di finanziamento della cultura, generato largamente dalle grandi imprese soprattutto pubbliche. Petrobras oggi mette in campo otto volte il bilancio del Ministero della Cultura per sostenere musei, arti plastiche, cinema, editoria e progetti speciali. Simile sforzo fa la CaixaFederal(la principale banca brasiliana) e alcuni altri soggetti.
La stessa Fiat mantiene a Belo Horizonte una prestigiosa e operosa Casa de Cultura. E’ evidente che il sistema non riduce tutto a guadagno al di fuori di obiettivi generali condivisi (che è rischio di deriva italiana, per esempio), ma è partecipe, grazie ai suoi ancora grandi margini (ma perché non lo fanno fino in fondo da noi Enel e Eni con i loro grandissimi margini?), di obiettivi collettivi che la mano pubblica non potrebbe finanziare adeguatamente. Quello della crescita dell’autostima dei brasiliani pare essere il più complesso e interessante. Metà culturale, metà psicologico. Nel corso di un seminario all’Università di San Paolo qualcuno mette in evidenza l’evento metaforico nell’età contemporanea del lutto nazionale provocato per eccesso di delusione sulla performance del paese: la finale dal Mondiale del 1950, giocata in casa e persa per 2 a 1 contro la prestigiosa ma più modesta squadra dell’Uruguay. “Ora si sta stringendo di più lo sforzo comunicativo dell’impresa e della politica attorno alla necessità di costruire la nuova immagine internazionale del Brasile. Le opportunità ci sono tutte e siamo in ascolto delle migliori esperienze culturali soprattutto europee per implementare tecniche e approcci”, mi dice Paulo Nassar regalandomi il suo libretto Todo è comunicacão.
Ma correlato a questo c’è anche il sentimento di dover provvedere
ad un forte rialzo qualitativo del sistema scolastico e ad un vero riposizionamento del sistema universitario, già capace di soggetti potenti e abbastanza internazionalizzati (come lo è certamente il gigantesco campus della USP a San Paolo), ma che ora deve fare i conti con gli standard di un paese che radica le sue università dal profondo nord che confina con Venezuela, Colombia, Guayana, al profondo sud che confina con Argentina e Uruguay. E soprattutto al profondo centro (lungo confine con Perù, Bolivia e Paraguay) che confina soprattutto con una storia che non fa ancora storia e che è probabilmente il Brasile da scoprire per generare una forza adatta al terzo millennio. L’educazione è tema controverso. “E’ vero che c’è più coscienza sulla strategicità del settore, ma è anche vero che per ora è una presa d’atto delle carenze del sistema e delle distorsioni provocate dal rapporto tra soggetti pubblici e privati”, mi dice la sociologa Licia Peres, editorialista di Zero Hora, quotidiano di Porto Alegre.
Terzo fronte del cantiere Brasile è quello rappresentato dal fare i conti con la necessità di avere una società civile più robusta. La mediazione concreta del sistema degli interessi in rapporto alla decisioni è qui come in generale dappertutto non più risolta pienamente dal sistema dei partiti. E dove vi sono radici sociali e culturali si profilano soggetti associativi che si aprono volentieri ad un dialogo formativo internazionale per migliorare la loro capacità di rappresentanza. Incontro casualmente a Porto Alegre il nostro Piergiorgio Oddifreddi in transito a sua volta per conferenze: “Da qui vado a Florianopolis – mi dice – in un fiorire di iniziative convegnistiche tutte centrate sul tema dei nuovi diritti di cittadinanza. E’ il punto su cui sento qui più movimento che in altre parti del pianeta”.