17 agosto 2010, oggi scomparso Francesco Cossiga. Su Mondoperaio 1/2009 l’ultima mia intervista
mondoperaio
n. 1 nuova serie – marzo 2009
rivista fondata da Pietro Nenni
direttore Luigi Covatta
Anteprima
Se la Dc non avesse distrutto Craxi
Colloquio con Francesco Cossiga
Stefano Rolando
La casa editrice Marsilio ha in via di pubblicazione un testo di ricerca e dibattito che Stefano Rolando ha realizzato per iniziativa della Fondazione Craxi e che ha per titolo Una voce poco fa – Politica, comunicazione e media nella vicenda del Partito Socialista Italiano dal 1976 al 1994. Si tratta di una prima analisi di un fenomeno di anticipazione e innovazione nella cultura politica italiana.
Una parte del colloquio di Stefano Rolando con Francesco Cossiga, quella particolarmente centrata sul rapporto con Craxi, è pubblicata nel libro in forma autonoma dalla discussione e viene qui anticipata.
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Come presidente della Repubblica lei fu un interlocutore di primissimo piano di Craxi. Anche in ragione di molteplici sostegni elettorali…
Sì, Craxi fu determinante nel fatto che io diventassi Presidente del Consiglio dei Ministri nel 1979. Dopo che Mancini mise il veto a Pandolfi, mandò a dire a Pertini di dare l’incarico a Cossiga. Poi fu determinante nella mia elezione al Senato nel 1983. E fu determinante nella mia elezione al Quirinale nel 1985. Sostenuta da Forlani che argomentò che disponevo di un “pacchetto di voti” tra socialisti, liberali e repubblicani che ne consigliavano l’appoggio. E aggiungo una cosa. Quando nel 1992 non si riusciva a eleggere il mio successore, ero tornato per così dire dall’esilio allo scopo di sostenere l’elezione di Forlani. Ci fu la sciocchezza dei comunisti che non vollero votare Giuliano Vassalli, perchè aveva difeso un imputato al processo “Antelope Cobbler”. Una vera sciocchezza che rientra perfettamente nella mentalità dei comunisti. Craxi allora indisse una riunione nella stanza del presidente del Consiglio a Montecitorio. C’era il giovane La Malfa, il liberale Altissimo, per la DC Forlani e Gava e propose di rieleggere Cossiga. Forlani, in quella riunione, avvertì di non essere in grado di assicurare a Cossiga più di un terzo dei voti democristiani. E così Craxi scelse Scalfaro. Alla fine dei suoi giorni Craxi disse che ero tra i pochi che gli era rimasto amico fino all’ultimo.
Comunque nei primi anni del suo mandato al Qurinale il governo Craxi veniva molto sollecitato dal suo partito, la DC, ad accettare l’alternanza a Palazzo Chigi in nome della “staffetta”. Quel capitolo di storia, grazie al “ring” quotidiano, fu ottimo pane per i denti dei media. Gli italiani ebbero una rappresentazione corretta dei fatti o ci furono distorsioni?
Sei mesi dopo la mia elezione, proprio sull’equivoco del “patto della staffetta”, dissi che a me non risultava niente. Come effettivamente era. Mi dissero dalla DC che il patto della staffetta c’era e che era il momento di mandare via Craxi. Spiegai che De Mita aveva una via maestra se voleva: quella di ritirare i ministri, creare oggettivamente la crisi, portare alle consultazioni e determinare – come partito di maggioranza relativa – le condizioni di sostituzione a Palazzo Chigi. Allora De Mita mi mandò due ambasciatori, Fabiano Fabiani – che quasi si vergognava di quella missione – e Peppino Gargani, che mi spiegarono che non avevo capito niente perché ero stato eletto al Quirinale proprio allo scopo di cacciare via Craxi. Mandai a dire a De Mita che mi meravigliavo molto del concetto che il mio partito aveva dell’istituto del Presidente della Repubblica. Nascendo da una famiglia laica, repubblicana, radicale. L’idea che il Presidente della Repubblica fosse uno strumento nelle mani della segreteria di un partito era cosa per me sinceramente non concepibile. Avevano tutti i modi per mettere in pratica politicamente i loro proposito, sia che ci fosse stato o che non fosse stato quell’accordo.
Scrisse Gianfranco Piazzesi che la DC aveva avuto il convincimento che Craxi le corna se le sarebbe rotte da solo, sulla scala mobile e sulla questione dei missili a Comiso. Non durando così a lungo il governo a guida socialista.
Sì c’era questo pensiero nella DC. Comunque l’avversario in quegli anni più duro e più implacabile per Craxi fu senz’altro De Mita. La cosa che non riuscivano a capire fu che, nonostante Sigonella, gli americani considerassero ancora Craxi l’alleato più sicuro. Hanno creduto a un certo punto che il vero partito alternativo alla DC non fosse più il Partito Comunista ma il Partito Socialista.
Tutta la DC pensava che non riprendere rapidamente in mano la guida del governo avrebbe significato un sicuro declino politico?
Lo credeva la segreteria DC. Perché la DC, sbagliando, ha sempre preferito la via diretta di gestione del potere rispetto al radicamento sociale e culturale, radicamento che era alla base del Partito Comunista e che è oggi in eredità al PD. Se tuttora si guarda ai media, alle università, a tutto il resto del territorio culturale nella società, l’egemonia comunista è ancora ben leggibile. La DC invece è sparita.
Sull’altro versante però Craxi viene apprezzato in quegli anni anche a sinistra (sindacato, cooperative, eccetera) in nome di un principio di governabilità assicurato anche in nome della sinistra. Ed è questa tendenza a valergli l’altrettanto dura opposizione del PCI di Berlinguer.
Certamente nel gruppo dirigente del PCI si fece strada l’idea di una possibile perdita di consenso a favore del PSI. La morsa si faceva stretta. Ma devo ricordare qui che uno che non ha mai parlato male di Craxi fu Massimo D’Alema. Non è stato mai giustizialista. Vero anche che il comportamento del Presidente della Repubblica rispetto alle pressioni di cacciata di Craxi è stata una delle cause delle mie disgrazie. Do qui una notizia. La mia intenzione di pubblicare un libro per raccogliere tutti gli attacchi del gruppo Repubblica-Espresso al capo dello Stato in quegli anni. Anzi per sette anni. Titolo: Damnatio memoriae in vita. Ho anticipato questa riflessione su quel periodo nel discorso per i festeggiamenti al Senato dei miei cinquanta anni di vita parlamentare. Quanto al PCI certamente Tatò riuscì a convincere Berlinguer che Craxi e i suoi fossero una banda di delinquenti. Lui – cattolico-comunista, forse più fedele a Rodano (che era per una Chiesa intransigente e anticonciliare in religione e per l’Unione Sovietica “come chiesa” in politica) che a Berlinguer – nei fatti dice sempre la verità. Stravolgendo poi i significati. Berlinguer me lo venne a dire un giorno, di primo pomeriggio, a Palazzo Giustiniani di persona. Berlinguer non era cattolico ma era affascinato dalla Chiesa. Questo era un varco importante dell’influenza di Tatò.
E il progetto di impeachment promosso dai comunisti nei suoi confronti?
Il progetto di impeachment promosso dal PCI aveva come contenuto la questione del figlio di Donat Cattin ricercato per terrorismo, cioè mi accusarono di aver segnalato informazioni al padre e fu archiviata, cioè ritenuta manifestamente infondata dal Parlamento in seduta comune, nel 1980. Ma in realtà serviva a far saltare un governo appoggiato e molto sostenuto dai socialisti. Berlinguer mi mandò a dire, attraverso Tonino Tatò, che se mi dimettevo da presidente rinunciavano a raccogliere le firme contro di me. E a proposito, due grandi sostenitori di Craxi nella DC furono Carlo Donat Cattin e Albertino Marcora. I due leader della sinistra sindacale e sociale. Gli oppositori a Craxi erano sostanzialmente quelli della “banda dei quattro”. Con Morlino (moroteo) e Marcora andammo da Zaccagnini per convincerlo a sostenermi in un primo incarico che poi non ebbi. Zaccagnini si convinse e poi la “banda dei quattro” (tra cui Bodrato e Pisanu) impedì la nomina. Quando il PCI mi mise in stato d’accusa Bettino convocò una riunione a Villa Madama e si scagliò duramente contro i comunisti che volevano principalmente fare cadere il governo: “Quelli ce l’hanno con me non con te!” disse.
Perché il declino del PSI arrivò fino alla catastrofe, alla disintegrazione?
L’idea che il PSI fosse diventato il vero nemico della DC, che faceva saltare il rapporto privilegiato tra DC e PCI, fu pervasiva e mise in moto meccanismi distruttivi. Ma successero tante cose, anche strane in quella fase. Come quella che Craxi accolse alla fine – contro il suo proposito – l’idea di non andare alle elezioni che vennero a sostenergli D’Alema e Veltroni nell’altro camper, nel timore che quelle elezioni li avrebbero spazzati via. E poi il fatto che non emerse adeguatamente l’uso del denaro che Craxi e il PSI facevano per il sostegno di molteplici cause internazionali. Craxi aveva sostenuto i socialisti spagnoli, quelli cileni, quelli peruviani, l’Olp e grandemente Solidarnosc. Ero ai funerali di Craxi a Hammamet quando giunse il telegramma di cordoglio del Vaticano, non firmato dal segretario di Stato ma eccezionalmente dallo stesso Papa.
Il Partito Socialista e lo stesso Craxi restano associati – nell’opinione pubblica italiana – ai caratteri più pesanti della crisi della politica tuttora al centro delle discussioni: un professionismo considerato “separato dalla gente che pensa più agli affari che al paese”. E’ un giudizio giustificato? Il giornalismo ha contribuito a formare questo giudizio. Può ancora avere un ruolo per correggerlo? O il compito – ove perseguibile – è già passato agli storici?
Ci fu anche ingenuità nel gruppo dirigente socialista. Ai primi anni ’90 ricordo di essermi fermato a Milano di ritorno dalla Germania. C’erano prime avvisaglie giudiziarie. Incontrai Pillitteri che era sindaco di Milano e che mi disse: stai tranquillo, la Procura è presidiata saldamente, abbiamo Borrelli voluto da Craxi contro la DC e abbiamo Di Pietro che è nostro amico. Ora Pillitteri era simpatico ma magari un po’ casinista ma i socialisti avevano a Milano gente avvertita, tra cui Tognoli, uno dei più bravi sindaci d’Italia. La mia tesi – esplicitata nel recente discorso al Senato che si è riferito al giustizialismo mediatico – è che si trattò di una oscura forma persecutoria. Oscura, come è scritto nel recente libro L’Italia vista dall’America che analizza i rapporti della CIA su Mani Pulite e il favore della CIA per quell’azione giudiziaria. Anche per questo penso che si sia ormai, appunto, aperto un capitolo nuovo di indagine storica su questo periodo.
A trent’anni dal caso Moro, come giudica il dibattito che si è sviluppato nella ricorrenza, sia rispetto all’evento in sé, sia rispetto al ruolo che nella vicenda ebbero le principali forze politiche italiane tra cui il PSI?
È difficile contenere in poche battute la questione. Vorrei ricordare a Eugenio Scalfari che fa lo spiritoso al riguardo che il giornale più duro sulla fermezza fu La Repubblica e lui l’autore degli articoli più duri. Emerge chiaro che i comunisti vedevano nelle BR un grande pericolo e vedevano quello che ha scritto Rossana Rossanda, l’album di famiglia. Come si sa per i comunisti il n’y a pas d’ ennemi a gauche. O si assorbono o si distruggono.
Si può sostenere che il 1985 – anno poi della sua elezione a presidente della Repubblica – ebbe una cifra simbolica di consenso popolare nei confronti dei socialisti rappresentati da Pertini al Quirinale e da Craxi a Palazzo Chigi?
Anche se mi trovai più volte in mezzo tra i due, i cui rapporti non erano facili, effettivamente quel ciclo della vita politica e istituzionale ebbe un segno forte dalle due personalità.
Qual è la sua opinione sulla diaspora dei socialisti, perché essa ha nutrito – in ciascun segmento con una apparente giustificazione – tutto lo schieramento della politica italiana da sinistra a destra? Vero che Montanelli sosteneva che due socialisti fanno due correnti, ma era immaginabile quell’esplosione?
Sì, era immaginabile. Molta rissosità. Dalle prime fratture tra riformisti e massimalisti in poi. Una diaspora totale succede appunto perché la fine avvenne per esplosione non per consunzione. I gruppi dirigenti dei partiti democratici dell’Italia repubblicana hanno avuto molti difetti. Maggiore compattezza e maggiore adattamento hanno dimostrato i gruppi dirigenti di estrazione comunista. Quando ho portato Massimo D’Alema a Palazzo Chigi mi ha molto meravigliato che in tre mesi sapesse guidare la macchina governativa. Come è ricordato dai militari nel quadro della guerra del Kossovo. Tanto che D’Alema è ancora credibile nelle relazioni internazionali dell’Italia.
La tessitura delle scelte che nella democrazia italiana furono fatte dal dopoguerra in poi all’insegna dello schieramento occidentale, del “mercato temperato”, delle riforme sociali possibili, insomma da quella che oggi pare una politica condivisa del paese, videro una storia di alleanza pur competitiva tra socialisti e democristiani, all’insegna del no al comunismo e al fascismo. Come spiega che socialisti e democristiani siano stati cancellati (come gruppi dirigenti) e dalla tradizione comunista e fascista si siano formati i nuclei dirigenti portanti dei due attuali schieramenti politici?
È vero, i post-comunisti e i post-fascisti sono gli unici due partiti, se così si può dire, che sono sopravvissuti alla bufera. E così hanno potuto loro raccontare più di altri la storia recente. L’ho detto nel discorso al Senato. E anche in un libro recente in cui ho spiegato che “gli italiani sono sempre gli altri”. Insomma, le Italie. L’italiano unico è una pura invenzione di Giuseppe Mazzini, un’idea laico-religiosa.
Nel 2008 e nelle attuali condizioni della politica italiana che posto avrebbe Bettino Craxi
Non ci sarebbe l’attuale situazione italiana se Craxi fosse sopravissuto fisicamente e politicamente. Il quasi inspiegabile successo di Berlusconi è dovuto al crollo del PSI e della DC. Oggi il suo schieramento è nutrito da dirigenti ex liberali, repubblicani, socialisti, DC e massoni. Se Craxi non fosse stato distrutto, anche dalla DC, una cui parte era felice delle disgrazie che arrivarono dalla Procura di Milano, il quadro politico italiano oggi sarebbe ben diverso. Ma per giudicare davvero Craxi in rapporto alla politica bisogna anche ricordare che lui non era un milanese, era un siciliano. Era molto impetuoso, sanguigno. Con padre siciliano trasferito al nord per fare l’avvocato e che fu prefetto di Como.