150 a prova di unità 1 – Colloquio con Luciano Barca – Mondoperaio 10-2010

mondoperaio n. 10/2010
150°- Italia a prova di unità. 1
A colloquio con Luciano Barca
 
Stefano Rolando
 
Avviamo con il colloquio con Luciano Barca, alcune interviste che Mondoperaio dedica alla discussione sul centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Che accompagneranno i mesi che ci separano dalla data formale (il 17 marzo 2011) e che – in vario modo,  grazie a diversi angoli visuali e anche nel quadro di diverse circostanze – consentono di fare alcuni utili approfondimenti con personalità che nel corso della propria vita, attraverso l’esperienza politica o intellettuale, attraverso l’azione istituzionale o professionale, attraverso azioni significative o scritti, hanno dato nel tempo contributo a questa discussione.
Un ciclo intitolato L’Italia a prova di unità, perché appunto la discussione – che ha visto finora forti accenti dei presidenti Ciampi e Napolitano, qualche presa di posizione più giornalistica che politica, alcune decise posizioni di critica e dissenso (di parte leghista, di parte neo-guelfa, di parte neo-borbonica), molta disattenzione e scarsa focalizzazione da parte del governo e in generale del ceto politico in esercizio attuale di rappresentanza - non riguarda solo i caratteri tematici del processo di consolidamento dell’unità italiana. Essa riguarda anche una storia antropologico-culturale dell’Italia da alcuni considerata più significativa di quella della sua unità e riguarda, in forma più attuale, il senso dell’unità nel rapporto ora tra identità e capacità negoziale del paese.
Qualche iniziativa si sta sviluppando su questo ultimo argomento (il ciclo di eventi che l’assessore alla cultura del Comune di Roma Umberto Croppi sta dedicando al tema – trattato più sbrigativamente – “a che cosa serve l’Italia”, va in questa direzione), alcune città o alcuni territori sviluppano iniziative in forma autonoma correlando il tema generale ai profili della storia della nazione che più direttamente li riguardano. Il comitato interministeriale (costituito con decreto del presidente del Consiglio del 24 aprile 2007 e i cui garanti erano presieduti dal presidente della Repubblica emerito Carlo Azeglio Ciampi), dopo un percorso accidentato e costellato di polemiche, sia sul tema delle risorse che sul tema del programma, ha visto ora le dimissioni, pur giustificate dallo stato di salute, del presidente Ciampi. Il comitato della Regione Piemonte – al tempo avviato dalla presidente Bresso – già produttivo di un primo ciclo di eventi un anno prima della data delle celebrazioni (lo scorso marzo) attende ora la verifica politica della sua composizione e delle sue finalità confrontandosi con il nuovo presidente Roberto Cota (mentre il sindaco di Torino Sergio Chiamparino e il presidente della provincia di Torino Antonio Saitta mantengono il loro incarico anche in seno a quel Comitato).
Indipendentemente dai comitati e per certi versi anche dagli eventi che saranno materialmente messi in cantiere, questi colloqui prendono spunto da alcuni degli snodi essenziali della discussione in atto, ma per il rapporto degli intervistati con un profilo più generale del dibattito politico che l’esperienza repubblicana ha prodotto in Italia, sviluppando poi considerazioni che investono argomenti abituali per questa rivista e per i suoi lettori solo mantenendo un legame di carattere generale con la questione del centocinquantenario.
Il ciclo di colloqui si avvia con due personalità che appartengono alla storia dei socialisti e dei comunisti, che hanno avuto profili e responsabilità soprattutto negli ambiti dell’economia ma che - per mandato parlamentare e per impegno intellettuale – hanno specificatamente operato sulla questione (che è al centro della discussione politica attuale sul 150°) del rapporto tra nord e sud del paese. In questo fascicolo con Luciano Barca, nel prossimo con Giorgio Ruffolo.  L’occasione che ha accomunato il dialogo è stata offerta dalla ricorrenza del 25 aprile in cui presso il Centro culturale Nitti di Melfi – che sono stati in tempi diversi senatori di quel collegio – è stato presentato un intervento videoregistrato con le loro interviste.
I due colloqui successivi riguarderanno due personalità interessanti e complementari del mondo cattolico italiano – Piero Bassetti e Giuseppe De Rita – entrambi con una caratterizzazione “liberale” che li rende sensibili alla tematica risorgimentale all’interno della cultura politica nazionale. Dei successivi colloqui daremo conto in seguito.
Luciano Barca è nato a Roma il 21 novembre 1920. Ufficiale di Marina, decorato per azioni con i mezzi d’assalto, nel 1944 si avvicina al Partito Comunista e un anno dopo prende parte alla resistenza attiva svolgendo azioni militari. Iscritto dal 1945 al PCI è eletto nel 1956 nel Comitato Centrale ed entra nel 1960 nella segreteria nazionale del partito. Dal 1963 al 1987 è deputato e dal 1987 al 1992 senatore. È stato vicepresidente della Commissione Bilancio della Camera, presidente della Commissione bicamerale per il Mezzogiorno negli anni del passaggio dalla Cassa all’intervento ordinario e dal 1965 al 1970 è stato vicepresidente del gruppo del PCI alla Camera. E’ stato direttore dell’ Unità e di Rinascita. Membro della Direzione del PCI e responsabile della Commissione economica, fu stretto collaboratore di Enrico Berlinguer dal 1970 al 1980. Contrario alla Bolognina e alla trasformazione del PCI in PDS esce dal partito DS nel 1997, continuando a militare nella sinistra. Dal 1990 è presidente dell’Associazione culturale ONLUS “Etica ed Economia“. Tra gli scritti: L’economia della corruzione con Sandro Trento (Laterza 1994), Da Smith con simpatia. Mercato, capitalismo, Stato sociale (1997); Del capitalismo e dell’arte di costruire ponti (Donzelli, 2000); Buscando per mare con la Decima Mas (Editori Riuniti 2001), Legittimare l’Europa (con Maurizio Franzini) edizioni del Mulino 2005 e nello stesso anno, con l’editore Rubbettino Cronache dall’interno del vertice del PCI sulla base dell’archivio depositato alla Fondazione Feltrinelli a Milano. Il fondo è composto da documenti, carteggi e ritagli stampa sulla sua attività politica e di studioso e si suddivide in due serie. La prima serie raccoglie i documenti del viaggio in Cina della delegazione del Pci (1959), l’epistolario tra Luciano Barca e Paolo Baffi, governatore della Banca d’Italia a proposito del Sistema Monetario Europeo (SME); i documenti e le sintesi degli incontri con Aldo Moro relativamente agli anni 1968-1974; lettere autografe di : Luigi Longo, Aldo Moro, Palmiro Togliatti, Enrico Berlinguer, Umberto Terracini, Ugo La Malfa, Guido Carli, Camilla Ravera, Franco Rodano, Sandro Pertini. La seconda serie è composta dai testi relativi all’attività politica e da documenti del PCI nel secondo dopoguerra relativamente alle linee di politica economica e industriale.
    
 
Caratteri del centocinquantenario
 
Le tre erre – Risorgimento Resistenza Repubblica sono tre parole che interpretano bene e compiutamente l’architettura tematica del 150°? Rispondono ancora a un sentimento condiviso di storia della nazione? In questo “lessico basilare” manca forse qualcosa? 
 
Queste tre parole sono unite da un’altra parola, essenziale. E’ la parola Costituzione. Quando si parla di Risorgimento, si parla naturalmente di Mazzini, Cavour, Garibaldi. Ma si parla meno di tutta la “lotta dal basso” che caratterizzò fenomeni come la Carboneria e la Giovine Italia. La Carboneria, soprattutto nel Mezzogiorno, è da considerarsi come un movimento grande, reale, che poi si è arrivati quasi ad infamare, a confondere con il brigantaggio. Ma se parliamo di quei dieci, quindicimila ragazzi che lottavano nel Mezzogiorno, dobbiamo parlare più propriamente di “resistenti” che di “briganti”. Della Carboneria voglio solo ricordare un eroe arrestato e ucciso a Melfi, Domenico Corrado. Che rinnovò lui stesso l’ordine di sparare al suo plotone di esecuzione. Ecco, Domenico Corrado era un giovane che lottava per la costituzione. Un episodio simbolico, perché a Melfi Federico II introdusse la prima costituzione di cui si è parlato nella storia italiana, la Costituzione melfitana. La Lucania può essere per questo considerata la prima regione italiana ad avere conquistato la “costituzione”. Ma che cos’è una costituzione? E’ l’affermazione di diritti universali di cittadinanza a fronte del potere. Ora nel nesso RisorgimentoResistenzaRepubblica dobbiamo leggere la formazione di questo anello. A volte ciò ha avuto la forma di “plebisciti”, a volta forme molto più strutturate in termini di diritto. Ma anche quei “plebisciti” nascondevano una spinta, un anelito, a diritti che non erano previsti e tutelati nel regno borbonico, nel regno dei Savoia e tanto più nel Papato (che era un potere assoluto).Insomma un lungo cammino che ha il suo culmine nella Costituzione della Repubblica italiana del 1948. Nuove basi di una nuova unità. Non fatta solo di poeti, letterati, filosofi. Ma di conquiste e di lotte che hanno avuto poi un caposaldo nella Resistenza, nel Referendum e appunto nella Costituzione. Diritti sanciti in forma più avanzata di quelli che vi erano prima del fascismo. Modificando profondi contesti storici in cui – per esempio nel mezzogiorno borbonico – per “fare presto” i Borboni avevano mutuato la costituzione spagnola, che ebbe non pochi problemi di adattamento. Ecco, qui vedo il compimento del processo unitario che oggi qualcuno vorrebbe volgere all’indietro mettendo a rischio la sostanza di quelle conquiste.
 
Da più parti si critica la destra per avere marginalizzato la storia della nazione ma anche la sinistra per non avere ricercato qui la sua identità fuori dalle ideologie conflittuali del novecento. E si critica anche la posizione di chi (parte del mondo cattolico) preferirebbe che si parlasse di storia millenaria d’Italia e non di storia della sua unità.
 
Queste polemiche hanno poca utilità. E’ evidente che ci portiamo appresso – dico appresso - parecchi secoli. Secoli contrassegnati da passi avanti ma anche da passi indietro. Passi indietro soprattutto quelli contrassegnati all’intromissione dello straniero. L’Austria che colpì le regioni che avevano già sognato un regime costituzionale. E poi il nazismo che fu all’origine della vera insurrezione italiana che reagì soprattutto a causa dell’occupazione dei nazisti. In generale, come ricordava Gramsci, in Italia vi è stata una scarsa volontà collettiva nazional-popolare. Gramsci diceva che non c’era stata per nulla. Penso tuttavia che il Risorgimento la rappresenti almeno in parte. E oggi le Regioni possono mediare questa problematica nel territorio. Togliatti diceva che la socializzazione della politica è più importante della socializzazione dell’economia. Era un’eresia detta nel 1945. Oggi quella socializzazione passa attraverso la realtà di regioni e comuni, così che io non vedo per nulla il federalismo come un pericolo. Anzi, lo vedo come un arricchimento della socializzazione della politica. Sempre che poi lo Stato sia capace di raccogliere questa esperienza. Mentre oggi vedo al centro un cadornismo di ritorno: io comando perché rappresento il popolo (che è il vero atteggiamento antifederalista).
 
A cosa dovrebbe servire oggi – con le regole comunitarie che incidono molto sul nostro ordinamento e con lo sviluppo dell’economia glocal che non ha molto rispetto per le dogane nazionali - l’unità nazionale?
 
L’unità della nazione serve a farci portare in Europa ciò che nei secoli abbiamo accumulato. Magari esistesse un governo europeo! Oggi – parliamoci francamente – abbiamo un asse franco-tedesco che prende decisioni per conto dell’Europa. Una buona unità italiana servirebbe a far valere di più il senso del nostro percorso e anche una nostra posizione più orientata alla formazione di un governo davvero europeo. Regole comuni senza un governo che controlla davvero se queste regole siano applicate sono regole fragili. Un’Europa che appare custode di un debito pubblico che cresce sempre di più. I contesti di crisi – come quello riguardante la Grecia in questi giorni – vengono affrontati dalle decisioni di pochissimi paesi, non da un consesso europeo. E in più con un Parlamento europeo di cui non sappiamo nulla e di cui nessuno parla.
 
In questa cornice – dopo la scintilla lanciata da Galli della Loggia nel luglio 2009 – si è aperto un dibattito. Qualche intervento filo-risorgimentale (sostenuto da Ciampi e Napolitano) molti interventi critici (leghisti al nord, papalini al centro, neo-borbonici o antipiemontesi al sud). Ma non è lì la resistenza. La resistenza parte venire piuttosto da un quadro politico poco interessato a mettere mano agli aspetti delicati della questione memoria-identità. Che caratteri ha questo dibattito?
 
Diciamo una cosa semplice: non può essere messa in discussione la storia d’Italia e della sua cultura. Ho vissuto in tante città italiane. Sono romano, ho vissuto a Milano, a Torino, in Sicilia. Dappertutto mi sono trovato come a casa mia. Ho amato molto Torino in cui sono arrivato subito dopo la Liberazione. C’erano sentimenti forti in quella città. In poco tempo ho conosciuto tutti e tutti accomunati malgrado diverse visioni politiche. Franco Venturi azionista, Felice Balbo cattolico, Roveda e Frulotto comunisti. Ero un “badogliano”, ma mi sentivo accolto da tutti con amicizia. La stessa cosa avveniva in tutte le altre città. Negare questa storia di “unità”, negarlo da parte della Lega quando quella spinta proprio al nord fu chiara e forte, è trascurare un fenomeno fondante. Questo non deve tuttavia non far vedere i conflitti di quella storia. Furono tanti. Basti pensare in Sicilia al rapporto conflittuale tra la provincia di Palermo e tutto il resto dell’isola. Spaccature vi sono state dappertutto. Ma è questo il momento per riaprire le spaccature o per riaffermare un’unità consapevole e in condizioni di agire nelle attuali crisi?
 
25 aprile del 2010. A Melfi – di cui Luciano Barca è stato parlamentare – si mostrerà questo video per sottolineare alcune parole di questa architettura del centocinquantenario. Per esempio la parola Resistenza. A proposito di “storia della nazione”, cosa dire oggi in quel borgo e in questa ricorrenza?
 
Quella regione  ha già celebrato il suo 25 aprile dando il suo voto per le elezioni regionali. Intanto questo va detto. Melfi ha un ruolo particolare per la sua storia. La storia federiciana non è viva solo a Melfi. Le tracce sono in molti paesi della Basilicata. Federico II come simbolo di ciò di cui stiamo parlando. Marchigiano d’origine – nato a Jesi – scelse come sua regione la Lucania ma anche la Sicilia. Simbolo per il suo ruolo nel far nascere la lingua italiana e nell’imporre il dolce stil novo. Il Mezzogiorno ha avuto ruolo minore nella storia della Resistenza perché non ha conosciuto l’occupazione tedesca. Ma ha un patrimonio alle spalle – di cui ho fatto solo qualche cenno - che ha consentito di dare un importante contributo al cambiamento che in Italia si è determinato dopo la caduta del fascismo.
 
Dove era il giorno della caduta del fascismo?
 
Ero in marina. In navigazione su un sommergibile. Una settantina di marinai italiani a bordo. Quando mi dissero che il radiotelegrafista aveva passato la notizia delle “dimissioni di Mussolini” (così era data la notizia), dissi al sergente che mi informava: fai circolare la cosa a bordo e senti gli umori. Undici si dichiararono ancora fascisti. La maggioranza si considerava “socialista”. Vi era una minoranza “liberale”. Alcuni dissero “non so”. Non esisteva in quel momento la possibilità di dichiararsi “democristiani” (in più l’atmosfera di un sommergibile non era propriamente religiosa, anche se durante le missioni ognuno si raccomandava al suo Dio). Quel giorno sotto il mare feci la prima esperienza di indagine demoscopica.
 
Un pensiero in positivo su questo centocinquantenario?
 
Penso che la scuola italiana potrebbe e dovrebbe fare molto di più. Quando frequentavo la scuola elementare – prima ancora dell’istituzione dell’Opera nazionale Balilla – ogni sabato mattina, verso le 11, con i nostri collettini inamidati, si usciva di classe e si faceva praticamente il giro dell’edificio tutti in fila per andare a salutare la bandiera. Si cantava l’inno sabaudo “Conservet Deus Su Re”, quello ancora in antico sardo. Sono cosa che si ricordano per tutta la vita.
 
 
 
 
  
 
Cronache dall’interno della sinistra italiana
 
Dopo la Bolognina vi è chi, come Luciano Barca, non ha seguito l’evoluzione del post-comunismo italiano, inteso come “partito”. Una classe dirigente ha una vita e una faccia? Oppure non è condivisibile l’archiviazione del comunismo italiano? Oppure?
 
Non ho condiviso la Bolognina per il modo improvvisato con cui essa è stata organizzata senza una vera consultazione con un partito che si è trovato di fronte alle opzioni, anch’esse improvvisate, di Achille Occhetto. Come non l’hanno condivisa Pietro Ingrao o Alessandro Natta e tanti altri dirigenti del partito. Ma voglio ricordare anche che uno che non l’ha condivisa fu anche Bettino Craxi. Con Craxi ho avuto due incontri nella fase drammatica dello scioglimento del Partito Comunista. Craxi concepiva il quadro politico come un sistema che si reggeva sui tre partiti – Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Comunista – con le loro diversità, le loro beghe, ma anche una grande parte di storia comune. E pensava che se uno veniva meno crollava tutto. Capiva al tal punto questo pericolo che mi disse che avrebbe cambiato qualcosa nella bandiera del Parto Comunista, per esempio la stella “perché l’aveva aggiunta Bombacci poi diventato fascista”, ma non la falce e il martello perché simboli del lavoro. Tentò anche qualcosa di diretto in questo senso. Mandò messaggi a Occhetto e a Natta.
 
L’89 era stata una scossa mondiale. Perché non fu sufficiente per formare in Italia le condizioni di un soggetto di sinistra democratica europea?
 
Ho citato Bettino Craxi anche a proposito del fatto che la regola dell’Internazionale Socialista prevedeva – e prevede – che non si possa ammettere un nuovo partito come membro se un altro partito già appartenente non esprimeva favore. Il benestare di Craxi all’ammissione dell’ex Partito Comunista era dunque necessario. Per un po’ Craxi ha resistito. Quando ho avuto il secondo incontro cui lui, a via del Corso, mi lesse la lettera con cui il presidente dell’Internazionale Socialista si dichiarava d’accordo all’ammissione.
Perché non si formò un soggetto di nuova chiara linea politica? Mah, secondo me la linea del Partito Comunista cominciò a confondersi non soltanto con la morte di Berlinguer ma anche un po’ prima. Con il tempo dell’uccisione di Moro, con la caduta di quella tensione che i colloqui Moro-Berlinguer avevano creato positivamente, per entrambi i maggiori partiti. Nessuno dei due voleva realmente commistioni. Volevano che fosse riconosciuto da entrambi il diritto di andare al governo. Diritto fino ad allora proibito dagli americani. Morto Moro, caduto il discorso aperto con lui, il PCI si disunì, non trovò una parola d’ordine. Poteva essere quella dell’alternativa alla Dc. Che per la verità Berlinguer lanciò. Ma essa presupponeva uno stretto rapporto tra PCI e PSI che non c’era. Sia perché i due partiti erano troppo legati alla loro rispettiva identità, sia perché Craxi e Berlinguer si parlavano con molta fatica.
 
Già, infatti il “duello a sinistra” negli anni 80 ha segnalato profonde divergenze. L’interpretazione del cambiamento sociale (Berlinguer ai cancelli di Mirafiori mentre si formava l’esercito delle partite IVA), il governo e l’alternativa alla DC, le decisioni sull’Europa e sulle relazioni atlantiche. Persino l’89 e la fine del comunismo. Niente ha permesso ai duellanti di generare una moderna socialdemocrazia europea. Perché la sinistra italiana da “migliore” è diventata una anomalia e un soggetto perdente?
 
Duellanti…beh, naturalmente ci sono state verità di tutte e due le posizioni. Non c’è mai, in casi così, uno che ha tutto il torto e l’altro che ha tutta la ragione. Ma se dobbiamo leggerli complessivamente, quegli anni ’80, credo che sia giusto considerarli anni di declino. Nonostante che tante trasformazioni siano avvenute nel mondo ma, come sempre avviene per le innovazioni, tardivo fu il loro recepimento. Così come fu tardivo il recepimento delle grandi innovazioni tecnologiche degli anni ’50 (con grande prezzo pagato dalla sinistra a fronte del ruolo della Fiat). Ma negli anni ’80 ci sono i primi importanti cenni della globalizzazione. Lì si doveva capire che quel processo aveva bisogno di regole e quindi, in generale, di accordi. Si preferì fare ognuno di testa propria, ogni paese per conto proprio e, dentro ogni paese, ogni partito convinto di avere lui la soluzione.
 
Scritti più politici degli anni recenti – come “Cronache dall’interno del vertice del PCI” –  sono stati considerati schietti e quindi rispettati. Amici e avversari cosa hanno rispettato di queste analisi?
 
Non ho fatto saggi – soprattutto sul PCI – ma ho rispettato l’enorme lavoro di schede, appunti e documenti che poi ho depositato alla Fondazione Feltrinelli a Milano. Un lavoro direi da giornalista attento alla documentazione dei fatti. Quando poi sono passato dal “tondo” al “corsivo”, ho distinto – come Luciano Barca – le mie annotazioni politiche di oggi. Pochissime. Per il resto ho scritto una cronaca. Con il massimo rispetto possibile. Mi sono fatto solo spingere un po’ dall’entusiasmo a proposito della Cina, avendo visto le origini di quel processo impressionante di sviluppo. Aver visto nel 1959 nel cortile di una caserma migliaia di soldati che – senza fucili ma ognuno con un seggiolino e un fornelletto – costruivano di giorno e di notte transistor per fare radio dedicate all’esportazione, fino a crescite ancora attuali attorno al 10%, beh questo l’ho descritto con un certo entusiasmo.
 
 
 
 
Passato e presente
 
Per fare politica oggi in Italia, dopo la sostituzione di sigle ideologiche con sigle botaniche, tornano timidamente alcune parole del lessico politico “Partito Democratico”, “Popolo della libertà”. Siccome i nomi hanno una loro importanza, come dovrebbe chiamarsi oggi una forza di modernizzazione strutturale?
 
Credo che una forza di reale modernizzazione del paese dovrebbe richiamarsi al tema della “socialità”. Dunque della socializzazione e dunque del socialismo. Poi che nome sia in dettaglio non mi interessa. Mi interessa che la sinistra sappia rappresentare un insieme di classi – certo non più la sola classe operaia – e soprattutto sappia comprendere come è cambiata la disuguaglianza. Non è certo più lo schema della classe operaia da una parte e tutto il resto della società dall’altra. L’angolo visuale è pressoché opposto. Vi è una gigantesca disuguaglianza tra una piccola minoranza che possiede una spropositata ricchezza e tutti gli altri. Il blocco socio-economico deve tener conto di questo. Salvo i pochi che guadagnano milioni, gli stessi manager dovrebbero fare parte di un blocco da unire in nome di una maggiore uguaglianza. Un blocco teso a una volontà nazionale che oggi stenta ad esprimersi.
 
Luciano Barca, un lungo lavoro politico e parlamentare dedicato alla questione meridionale nell’evoluzione dell’Italia repubblicana. Ha presieduto la bicamerale sul Mezzogiorno nella seconda metà degli anni sessanta. Tra il dibattito di quegli anni e le condizioni attuali, speranze, progetti, senso della priorità del tema, tutto sembra gravemente involuto. Ci sono invece vie d’uscita? Interpreti interessanti?
 
Ho presieduto la commissione parlamentare per il Mezzogiorno negli anni della morte della Cassa. E’ stato giusto che morisse e che morisse la concezione di “sussistenza” che la animava. Ma in quel passaggio si sono pagati dei prezzi. Le regioni hanno sostituito il ruolo della cassa e, per la verità, non tutte le regioni sono state in grado di affrontare e gestire i problemi che avevano di fronte. Oggi sta crescendo – anche all’interno del Ministero del Tesoro – una nuova attenzione alle questioni del sud, grazie soprattutto a giovani economisti e professori universitari specializzati nelle questioni dello sviluppo. Docenti che fanno capo a Roma che insegnano spesso in atenei meridionali. Dalle cose che so mi pare che sia uno sforzo molto interessante per mettere a punto una politica per mobilitare insieme risorse ordinarie e risorse speciali. E’ indubbio che una parte dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno sia stato deviato dai suoi obiettivi. Come è indubbio che giocando un ruolo rilevante l’intervento straordinario vi è chi ne ha approfittato per abbassare quello ordinario. Il saldo non è stato un “di più”. Tanto che sono convinto che vi siamo regioni del nord che siano in debito con il Mezzogiorno italiano.
 
Ma, tra passato e presente, come va considerata la reattività del Mezzogiorno, la sua capacità di tentare la sfida produttiva?
 
Ho vissuto nel sud, dopo l’armistizio. Come abbiamo “vissuto” in quel clima? Devo dire con inventiva e creatività. Officine, fabbriche, i cantieri navali di Napoli o di Taranto che arrivarono a livelli mai raggiunti. Certo le condizioni generali erano precarie. Si viaggiava in quattro su una Topolino dal sud a Roma. Ma si viaggiava. Camminavano le camionette, i treni. C’era una industria sorgente per fare supplenza all’industria del nord da cui non arrivava più nulla, con il paese spaccato a metà. Non arrivavano le auto della Fiat, non arrivavano le macchine utensili. Un rapido sviluppo se vogliamo artigianale ma concreto per assicurare pezzi di ricambio, beni strumentali, alcune produzioni essenziali. Questo passaggio dopo la liberazione del nord è stato arrestato. Distrutto. Il Piano Marshall – non ce lo scordiamo – è stato amministrato prevalentemente dalla Fiat di Torino. Il carbone veniva gestito dai grandi gruppi del nord. Senza il carbone non funzionavano le fonderie. Insomma lo spreco di uno sforzo fatto dal popolo meridionale dal ’43 al ’44 per dare alla popolazione quello di cui aveva bisogno. Mi sono ammalato, a Bari. Non cera la possibilità di fare una lastra. Gli ufficiali medici avevano inventato forme diverse di ricognizione. La ripresa al nord era giusta, sacrosanta. Ma perché sacrificare quella spinta immensa che - pur con difetti e mancanze – si era registrata al sud?
 
Una metafora che si proietta sul nostro tempo?
 
Non necessariamente. Ci sono regioni che hanno fatto grandi progressi. Penso all’Abruzzo. Ma anche alla Puglia, alla Lucania. Progressi enormi. Ma la stessa Campania, di cui tutti parlano male perché è di moda, ha fatto un grande cammino. Non leggiamo tutto negativamente, per carità. Oggi ci sono conoscenze teoriche – oltre che operative – molto più avanzate per analizzare le questioni dello sviluppo. Ci sono sviluppi informatrici che – se applicati – ci permettono di controllare in modo istantaneo ciò che viene fatto e ciò che viene speso. Cito sempre una lapide che sta sopra a Porta Flaminia a Roma. Il Papa che aveva restaurato la Porta scrisse sul marmo il giorno in cui erano iniziati i lavori di restauro e il giorno in cuoi essi erano finiti. Ecco, una piccola regola innovativa per il Mezzogiorno. Accompagnata dalla proibizione di inaugurare,  con la posa della prima pietra. Che a volte è anche l’ultima.
 
E magari aggiungendo anche gli extra-budget…
 
Ah certo, anche quello.
 
Spinte secessioniste – o meglio minacce – hanno creato così alibi per la creazione di un partito del sud.
 
Sono nettamente contrario al partito del sud. Del resto esso non esiste. Esiste caso mai un “partito di Palermo” che è cosa diversa. Lombardo e Miccichè sono cosa diversa dal “sud”. E non si spari sulla Croce Rossa a proposito di Bassolino che ormai sta a casa.
 
Dicono che la Lega abbia cercato il radicamento territoriale e la relazione con gli operai italiani stabilizzati secondo un modello che era quello del PCI degli anni sessanta e settanta. Ma la Lega evolve o la Lega ci separa definitivamente dal resto dell’Europa?
 
Sulla Lega il mio è un giudizio complesso. E chiaro che essa è cresciuta anche facendo leva su un certo fanatismo. Ha pagato per questo dei prezzi. Ho incontrato l’on. Bossi nel 1990. La Lega non aveva designato nessuno nella Commissione per il Mezzogiorno. Gli dissi che sarei stato contento se avessero mandato un parlamentare in quella commissione. Fu gentilissimo, mi ringraziò, si scusò con il fatto che avevano poche persone. Ora quel fanatismo può essere mantenuto come leva per far crescere il “potere di partito” o trasformato in una diversa socializzazione della sua politica. Si vedrà la strada. Ma vi sono segnali interessanti. La Lega ha fatto una scuola per i propri quadri. E li orienta a legarsi al territorio. Mi pare difficile legarsi al territorio e poi non ascoltarlo con atteggiamenti caporaleschi. Perché poi il territorio ti manda via. Legami che possono giocare un ruolo di positiva trasformazione della Lega. E aggiungo che essa appare più sensibile a certi temi sociali del Popolo della Libertà e di Berlusconi. E’ chiaro che la lega cerca di ottenere cose. Ma non tutto ciò che chiede è negativo.
 
Insomma uno scenario in evoluzione…
 
Credo che si possa sperare nell’evoluzione di un discorso di cui non vedo ancora con chiarezza interlocutori risolutivi nella classe dirigente del paese. Mi sono ritirato dalla politica attiva nel ’92 per dedicarmi al volontariato. Ecco, se lo facesse anche qualcun altro sarebbe un bene per la politica italiana. A patto di aprire le porte a giovani di effettivo valore. Posso assicurare che essi esistono.
 
Resta dunque il problema della qualità delle istituzioni e dello Stato. Tra il PCI a lungo diffidente di questo Stato e la DC disposta a occupare le istituzioni ma non a santificarle, cioè più del 75% dell’elettorato, non è che un Einaudi, un  La Malfa o pochi altri fossero  un baluardo sufficiente  per darci uno Stato che negoziasse un posto moderno dell’Italia in Europa e nel mondo. O no?
 
Certamente c’è stato un decadimento. Avevo visto da vicino la Costituente in cui ero resocontista parlamentare. Con sincerità ero pieno di ammirazione per gli uomini che hanno elaborato la Carta costituzionale. Non solo i nomi noti. Moro a quel tempo non era ancora Aldo Moro. Ha dato molto ai lavori della Costituente. Mortati. Renzo Làconi, comunista. Nomi anche di chi non è diventato un leader ma che ha creato una chiave di volta del rilancio italiano: l’equilibrio tra i poteri. Una cosa che ora si tende a distruggere. Al centro il Parlamento, il governo con forte capacità e possibilità di proposta, nessun presidente della Repubblica, nessun primo ministro che può dare ordini al sistema. Si dice che dobbiamo trasformarci “alla francese”. Intanto quella repubblica presidenziale non esce dalle recenti elezioni in Francia approvata dal popolo francese. Dovremmo rileggere i testi della Costituente e guardare anche ad istituti non attuati. Vediamo i presupposti della costruzione delle regole in cui hanno fatto convergenza scuola liberale, scuola cattolica e scuola socialista (in cui comprendo anche i comunisti) esprimendo il meglio di sé. Ricordo Togliatti,che era un attento membro della commissione dei 75, che considerò Giorgio Amendola – che fu una grande mente politica, non adatto al paziente lavoro di quella Commissione. Lo sostituì appunto con Làconi. Un giovanetto che non era noto a nessuno. Diede un magnifico contributo. Oggi sarebbe importante andare a rivedere quelle fonti e capire lì cosa va certa mente ancora modificato.
 
Un ricordo del transatlantico della Costituente?
 
I personaggi storici della Costituente erano Benedetto Croce, Vittorio Emanuele Orlando e Francesco Saverio Nitti. I tre non andavano molto d’accordo tra di loro. Verso Croce c’era un generale rispetto, quasi una venerazione. Quando Croce parlava in tribuna stampa era un dramma. Non c’erano i microfoni. E capire quello che diceva Croce era una fatica per i più. Vittorio Emanuele Orlando appariva un po’ bizzarro e stava molto sulle sue. Il più gentile era certamente Nitti. A lui mi presentò Giorgio Amendola, dicendogli “conta su di lui se hai bisogno i qualunque cosa”. E Nitti ci contò. Camminava con qualche fatica e se c’era qualche altro parlamentare quando usciva gli dava il braccio diversamente mi mandava a chiamare. E fare con lui il Transatlantico era piacevolissimo. Era un raccontatore formidabile, si fermava ogni momento, tutti lo conoscevano, aveva una battuta per tutti. Discorsi interessanti su cose che spesso non sapevo e imparavo. Aveva molte attenzioni. Mi presentò Paratore, che era stato suo ministro, ove avesse avuto bisogno di qualcuno che studiava l’economia. Otteneva una grande stima. Eravamo stati educati a scuola alla diffamazione dannunziana contro Nitti. Ma bastò un giorno di Transatlantico per fugare tutto.