150 – Senza chiarezza interpretativa non c’è chiarezza comunicativa (Riv it com pub n 40/2010)

Rivista italiana di comunicazione pubblica
n. 40/2010
 
Centocinquantenario. Storia d’Italia e storia della sua unità.
Senza chiarezza interpretativa non c’è chiarezza comunicativa
Chi sono oggi i vincitori che dovrebbero scrivere questa storia? Un enigma comunicativo: perchè farsi prendere dall’impasse politico e non promuovere buone idee misurate con le attese della gente?
In quell’impasse, intanto, libri, saggi e articoli aprono la “celebrazione spontanea”.
Giuliano Amato presidente del Comitato dei Garanti
 
Stefano Rolando
 
Tra i siti ufficiali – quello nazionale visibilmente in stand by, quello piemontese  nella probabile apnea del vistoso cambio della guardia nella Regione – e la sparsa pubblicistica degli ultimi due anni che verte più sulla “disunità d’Italia” che sul suo fisiologico contrario, è difficile trovare lo spunto “oggettivo” per inquadrare il caso: come gli italiani e le loro istituzioni si preparano (ultimo anno) alla terza celebrazione ufficiale dell’unità d’Italia?
Un caso divenuto oggetto di didattica nei corsi di comunicazione pubblica, per l’evidente capacità di sottintendere tre questioni assai rilevanti:
          la stretta relazione tra comunicazione politica e comunicazione istituzionale quando è in gioco un aspetto saliente del patrimonio simbolico nazionale;
          la stretta relazione tra il racconto della storia possibilmente attorno a valutazioni largamente condivise e i conseguenti aspetti comunicativi;
          la stretta relazione tra legittimità di iniziativa delle istituzioni centrali (per l’accento posto sulla parola “unità”) e delle istituzioni territoriali (per l’accento posto sulla parola “Italia” che secolarmente costituisce una vocazione raccontata da identità territoriali separate, conflittuali, nel corso della storia anche diversamente etero-dirette).
Mentre nulla osterebbe a considerare legittimo un appassionato discorso a reti unificate del Presidente della Repubblica il 17 marzo 2011 a partire dalla principale competenza che gli assegna la costituzione (la rappresentanza della unità d’Italia[1]), diventa ormai problematico e conflittuale rendere coerente e armonioso rispetto a quell’immaginabile discorso il quadro di eventi che per uscire dalla banalità debbono svolgere un ruolo di ripensamento critico, soprattutto per i giovani, attorno a tre altrettanto rilevanti temi di grande attualità politica e culturale:
          è più importante la storia d’Italia della storia della sua unità?
          sono valori condivisi quelli che – stringendo le dominanti dei 150 anni – potrebbero essere espressi nelle parole Risorgimento, Resistenza, Repubblica? (tema attorno a cui è concentrata la riflessione di Giuseppe De Rita ad apertura di questo fascicolo)
          essendo vero che la storia la scrivono i “vincitori” , chi sono i “vincitori” che dovrebbero oggi scrivere (caratterizzando appunto i profili celebrativi) questa specifica storia?
Cover, editoriale e dossier di questo fascicolo – che è chiuso redazionalmente nella prima parte di maggio 2010 – sono dedicati al centocinquantenario con l’idea che – a un anno dalla data ufficiale – il tema costituisca una cornice importante dell’insieme dei contenuti della comunicazione pubblica largamente intesa, quella a cui si è fatto riferimento in un’altra nota editoriale di questo numero. Quel “piano alto” in cui il presidio al patrimonio simbolico del paese costituisce un aspetto diverso ma connesso alla comunicazione relazionale e di servizio tra istituzioni e società.
Cornice importante vuol dire dunque che vi stanno dentro varie cose: dibattito culturale e politico, iniziativa istituzionale e mediatica, casistica interessante per la formazione specialistica e forse anche innovazione dei caratteri comunicativi (non fosse altro che, per la prima volta, la rete – e il suo disordinato patrimonio di materiali depositati – gioca un ruolo interessante, tendenzialmente dando voce a soggetti apparentemente meno “vincitori”, meno titolari di egemonie).
I presidenti della Repubblica Ciampi e Napolitano hanno accettato di svolgere un ruolo difficile. Difendere non tanto e non solo  la loro specifica competenza. Ma l’idea che ad essa sia connesso un sentimento che dovrebbe essere dimostrato essere maggioritario dell’opinione pubblica. E qui sta per intero l’enigma comunicativo.
Sondaggi a parte (di delicatissima impostazione), siamo sicuri che questo progetto abbia ricevuto tutte le attenzioni che esso merita – proprio a fronte di tutti gli ostacoli che qui di seguito, con sicure manchevolezze, cerchiamo di ricordare – per essere dotato di una strategia adeguata nel modo di proporre tema ed eventi agli italiani?
E siamo sicuri di cosa la partita del budget (fondi tagliati, eventi cancellati) avrebbe dovuto riguardare in prima istanza? Detto altrimenti:  più il bilancio di comunicazione (preparazione e gestione del “racconto” agli italiani) o più  il finanziamento a mille idee – quasi sempre figlie dello stesso antichissimo format mostre-convegni – per sommare a criteri di equilibrio politico anche criteri di equilibrio territoriale?
Chi avrebbe detto che i passaggi della storia americana – pionieri, battaglie, cause remote – sarebbero tornati così di moda da diventare dettati nelle scuole, celebrazioni giornalistiche, cover di settimanali, se un presidente neo-eletto un po’ accreditato a sinistra non avesse pensato di dedicarvi metà esatta del suo discorso di insediamento per baricentrare fortemente la sua immagine personale sul profilo stesso dell’immagine della nazione?
Il centocinquantenario – se ci è consentito – non è un evento in sé spacciato (malgrado tutto ciò che qui segue). Semplicemente fino ad ora nessuno ha pensato di accompagnare le incertezze della politica con robuste proposte di comunicazione pubblica. O forse più correttamente si dovrebbe dire che non ha potuto.
La memoria a celebrazioni difficili – come il quarantennale della costituzione paralizzato (nella seconda metà degli anni ’80)  dalla battaglia politica per il cambiamento o il mantenimento della carta costituzionale – torna facilmente (in quel caso divenne evento di ogni famiglia italiana la soluzione di semplificare il messaggio massimizzando la relazione diretta con i cittadini e portando il testo stesso della costituzione in ogni casa con sedici milioni di copie tirate e distribuite nelle edicole, negli ospedali, nelle scuole e nelle carceri). Spesso anche le non volontà della politica possono non essere granitiche a fronte di soluzioni che partano, per esempio, dal desiderio dei cittadini di appartenere comunque a un paese normale. Con la sua storia normale. La sua mitologia normale. La sua credenza popolare non cancellata ad ogni giro di urne. E’ certamente vera la regola secondo cui senza interpretazione la comunicazione è debole. Ma è anche vero che a volte l’ intelligenza delle istituzioni [2] può esprimersi recuperando valori simbolici essenziali in forme corrispondenti a sentimenti in realtà più diffusi di quel che si crede. E nel frattempo il sistema culturale e mediatico una sua “celebrazione” la va svolgendo, con contributi che cominciano a delinearsi – anche tra i buoni scaffali delle librerie – così da creare una pista comunicativa spontanea che potrebbe avere alla fine la priorità. E che se si saldasse a un maggiore impegno di scuole e università diventerebbe addirittura la risposta pro-attiva della società ad una condizione frenata delle istituzioni. Di alcuni di questi contributi qui si intende dare anche conto.
Ciò detto, in attesa di decisioni ormai imminenti, dai tavoli costituiti a Roma e nel territorio, svolgiamo qui il previsto compito di  argomentare un po’ i temi prima accennati, attorno a cui ruotano alcuni degli ostacoli di merito che trovano nell’ultimo anno più spazio sui media.
 
Storia d’Italia e storia dell’unità d’Italia
 
Molte e diverse le voci al riguardo.
Carlo Cardia scrive su Avvenire – quotidiano della Conferenza episcopale italiana – che “una delle cose più importanti, in vista delle celebrazioni unitarie, sarebbe quella di non separare Stato e nazione, non esaltare il primo come unico referente della seconda, perché soprattutto in Italia costituiscono entrambi l’orizzonte di convivenza delle nostre popolazioni[3].
Giuseppe Galasso, laico e repubblicano, scrive sul Corriere della Sera che “l’idea di una coscienza italiana ha otto secoli così che Nord e Sud, per quanto diversi e distanti, sono sempre stati legati tra loro[4].
Alfredo Mantovano, esponente politico di AN, membro del governo in carica,  si interroga nel dibattito prolungato sulle colonne del Corriere: “Quali potrebbero essere le conseguenze, anche politiche, della costatazione che l’Italia non nasce nel 1861, che nei secoli antecedenti il risorgimento vi era una ‘nazione spontanea’ (per riprendere la felice espressione di Mario Albertini), che aveva una comune identità, fondata su una comune religione, su principi e cultura, anche politica, sostanzialmente omogenei, e su una articolazione sociale ricca e variegata, in città dall’antica tradizione, più che in regioni? E che di quel mondo è rimasto tanto, se è vero che il mito di fondazione dello Stato unitario oggi è in crisi, perché non è riuscito a far breccia come avrebbe voluto nella memoria collettiva degli italiani?[5].
E ancora Paolo Quercia, esponente di Farefuturo, anticipa uno scritto sul sito di Limes ospitato da Repubblica. Titolo Centocinquant’anni d’Italia o ventuno secoli di Patria?, tra l’altro osservando che “nel Rinascimento italiano si possono rintracciare già i semi di quel processo lungo e contraddittorio che porterà a concepire lo stato nazionale come punto di equilibrio tra il particolarismo locale e l’universalismo imperiale[6].
Lo screening del dibattito recente offre anche altre varianti di questa interpretazione. Che indebolisce la percezione cavouriana (si potrebbe arrivare a dire liberale) della formazione dello Stato unitario e rafforza quella lettura gramsciana e gobettiana in cui oggi convergono cattolici e nuova destra, riguardante un’evoluzione culturale e antropologica che avrebbe più basi (perché comprendente anche la vastissima emigrazione italiana tra i due secoli) di rappresentanza rispetto all’inquadramento di una architettura istituzionale generata prima da una carta “octroyèe” e poi da una più recente costituzione intesa come alta proiezione dei sogni di una classe dirigente. Insomma le componenti marginali (o oppositive) alla vicenda dell’Unità si prendono la rivincita di poter dire che quell’unità è una ricorrenza burocratica, perché l’essenza della nazione sta altrove.
Sembrerebbe insomma che, per un motivo o per l’altro, parti rumorose della società e della  cultura sentano stretti i panni dello Stato, laddove è in gioco la rappresentazione non di un evento storico (l’ampliamento dei confini nazionali) ma la percezione profonda di un processo (l’italianità).
Un’altra volta in controtendenza con il modo di argomentare rispetto alle loro date e le loro celebrazioni di molti grandi paesi: certamente Francia, Spagna, Gran Bretagna e Stati Uniti. Quanto alla Germania – che fu anch’essa obiettivo della celebri parole di Metternich (“nient’altro che un’espressione geografica”) – il discorso sarebbe più complesso e dovrebbe comprendere – accanto al dramma istituzionale – anche la profonda connessione del valore dei luoghi, dell’idea romantica di nazione e dell’auto-rappresentazione dei caratteri nazionali come ideali estetici. In qualche modo rendendo Italia e Germania ancora oggi più nazioni che stati.
Alcuni “padri della patria” che dalla scrivania di Quintino Sella o altrove hanno combattuto per due secoli per togliere precarietà e provvisorietà alla contabilità nazionale non amerebbero l’ulteriore impoverimento dello strumento che garantisce, dopo la pace di Westfalia, la dignità competitiva dei paesi: il loro essere prima di tutto Stati. Ma è più che evidente che la composita alleanza di chi non si sente adeguatamente rappresentato da questa visione (federalisti dell’ottocento compresi) lascia una pattuglia minoritaria a sostenere un profilo che avrebbe ancora due buone ragioni per essere consolidato:
  • il restare, lo Stato,  azionista decisore del processo di integrazione comunitaria;
  • il restare, lo Stato,  l’unico soggetto organicamente impegnato nella lotta alle mafie.
Merita di ricordare il trattamento della questione che Ernesto Galli della Loggia ha proposto aprendo – nella piena oscurità mediatica fino a quel momento – uno squarcio sulla contraddizione. “Noi italiani senza memoria” intitolava il corriere il suo fondo [7], per ricondurre alla classe dirigente del paese di qualunque tendenza la responsabilità di percepire l’immagine del paese in forma disastrosa: “un’immagine a brandelli e di fatto inesistente: dal momento che ormai inesistente sembra essere qualsiasi idea dell’Italia stessa”. Tutto il rumore che ne è seguito, tutte le polemiche che si sono sviluppate, partono da queste due righe, una scudisciata su tutto e tutti che ha responsabilizzato lo stesso quotidiano milanese fino al punto da diventare (prima che la Rai porti in evidenza il suo progetto di racconto sui 150 anni dell’unità d’Italia) il luogo principale di discussione sul tema, non solo attraverso opinioni ma anche attraverso una ricostruzione storica e culturale a puntate firmata da Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella [8].
Quell’editoriale viene qui di seguito ripreso integralmente perché esso fissa impietosamente soprattutto il profilo di incertezza decisionale del paese rispetto al problema comunicativo. Nel dossier riproponiamo anche l’analisi di Ilvo Diamanti su Repubblica di pochi giorni dopo [9] e scegliendo tra una vasta pubblicistica due articoli della storica cattolica Angela Pellicciari, il primo rintracciabile nel suo sito [10] mentre il secondo è apparso su Libero [11]. Questa ristretta documentazione – un frammento della discussione disponibile – fissa tuttavia i caratteri essenziali della torsione politico-culturale, con più chiarezza del vasto materiale che in rete esprime il mugugno neoborbonico [12]e anche il disprezzo leghista per la questione istituzionale della celebrazione. Essi hanno più verve ma anche più ripetitività di alcuni concetti elementari. Qui sono in evidenza gli elementi strutturali che frenano oggi all’interno le decisioni celebrative e quindi la chiarezza comunicativa. All’allarme del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dopo lo scritto di Galli della Loggia, come si ricorderà, provvedette il ministro della Repubblica Roberto Calderoli (per l’appunto con competenze nella “semplificazione”) a dare sintetica risposta: “Noi lo ripetiamo da sempre, questo è davvero il nostro marchio: l’unità d’Italia esiste sulla carta. Stop. Ma non perché lo diciamo noi. Sono le differenze oggettive e macroscopiche tra le due Italie a dimostrare che fino a oggi tale unità non si è realizzata nei fatti[13].
Merita nella sintesi delle posizioni ricordare qui anche quella, originale, di Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di sant’Egidio e docente di Storia Contemporanea a Roma Tre che, intervistato dall’Avvenire ha dichiarato: “La Chiesa dovrebbe celebrare l’evento dai massimi livelli alle diocesi e alle parrocchie. Credo che abbiamo troppo insistito solo sul fatto che i cattolici sono stati storicamente contrari all’unità. Ma fu una fase che ha riguardato l’inizio del processo di unificazione. Credo che il Risorgimento abbia fatto bene pure alla Chiesa”.
La “libreria” – e le decisioni delle case editrici – sono in questo contesto ancora un segmento a cui prestare attenzione nella composizione di strumenti che – al di là del passaggio di messaggi massmediatici (inevitabilmente su caratteri elementari e spesso attorno a stereotipi) – si mettono a disposizione di quella parte di opinione pubblica che cerca, indaga, trova o ritrova, all’interno di un percorso di ricerca . Non necessariamente professionale – per la quale i libri restano lo strumento ancora di gran lunga più importante. Un esempio solo di scelte dell’editoria italiana pertinenti e felici al riguardo del tema di cui qui parliamo è la ripubblicazione di “Dei doveri dell’uomo” di Giuseppe Mazzini con prefazione di Donald Sassoon [14].
Nella stessa “libreria” cominciano intanto ad addensarsi i titoli. Contributi con visuali diverse a cui si fa riferimento nelle brave sintesi di questo articolo. Per fornire un spunto immediato della diversità di approccio si citerà qui il contributo di Aldo Schiavone, storico e giurista, che può essere dedotto dalla seguente citazione: “Per vent’anni abbiamo vissuto sotto l’ala di un turbine: globalizzazione economica e trasformazione politica. Due metamorfosi insieme: post-industriale e post-democristiana. L’Italia di oggi ci restituisce per mille segni l’immagine di un Paese provato, che perde colpi di continuo. E soprattutto con un motore politico penosamente inadeguato, incapace di autentica innovazione, che non fa nulla se non pasticciando, e alla fine non sembra concepire altra missione tranne la pura conservazione di se stesso e del ceto che lo controlla. Ma altre volte siamo stati capaci di riagguantare all’ultimo istante il filo della nostra storia. La posta in gioco è troppo importante per rassegnarsi, e dopotutto siamo qualcosa di più di un piccolo angolo di mondo[15]. Mentre il contributo di Carlo Pelanda, di approccio geopolitico, nutre la fiducia di una ripresa progettuale: “Dopo un secolo e mezzo dalla sua fondazione l’Italia va nuovamente rifatta da un progetto liberale e nazionale. Formula Italia si rivolge a chi più sente la necessità di cambiare la nazione per ridarle ordine, un destino di sviluppo e una maggiore capacità di influenza in Europa e nel mondo. Un testo polemico nei confronti di tanti luoghi comuni, ma costruttivo!”.[16]
 
Le tre R
 
A Torino (Miguel Gotor ne ha data un’idea commentando sul Sole 24 ore il “conto alla rovescia” dell’ultimo anno prima delle celebrazioni:”arrivata alla volata dei 150 anni stanca, sfiduciata e disancorata dai suoi valori tradizionali[17]) si punta a ragionare sul doppio registro, di un primo tempo (la storia) regolato dal risorgimento e dalla sua lunga proiezione sulla costruzione unitaria; e di un secondo tempo (il contesto attuale) costruito su quattro valide gambe “offuscate” a partire dagli anni ’90: Repubblica, Costituzione, Atlantismo, Europa.
La nota iniziale di De Rita sulle “tre erre” viene ripresa da una domanda sottoposta al panel di studenti ed operatori che hanno partecipato al laboratorio su questo tema. Risorgimento è parola in soffitta, Resistenza è parola che divide, Repubblica è un contenitore insufficiente. Le tre parole sarebbero potenti ancore della memoria in molti altri contesti nazionali. Evidentemente il lavoro che scuola, media, creatività culturale e istituzioni hanno svolto (Cuore di Edmondo De Amicis e Se questo è un uomo di Primo Levi compresi) non hanno blindato il percorso simbolico.
E’ ancora Ernesto Galli della Loggia a discutere sulla polemica antirisorgimentale: “Si sta consumando una rottura decisiva. Va costituendosi negli ultimi anni un vero e proprio fronte antirisorgimentale e insieme antiunitrario che nasce dalla saldatura di tre segmenti: un segmento settentrionale di ispirazione leghista, un secondo segmento ispirato da nazionalisti meridionali innestati su un variegatissimo arco ideologico che va dai tradizionalisti neo-borbonici agli ultrà paleo marxisti, e infine un segmento di cattolici che potremmo definire guelfo-temporalisti. Tutti si fanno forti di una ricostruzione del passato che dire approssimativa è dire poco: di volta in volta tagliata con la motosega o persa nei pettegolezzi minuti del ‘buco della serratura’. Nella quale comunque dominano i modelli interpretativi presi a prestito dall’Italia di oggi : quello del giustizialismo più grossolano (“chi ci ha guadagnato”, “chi ha rubato”, chi ha pagato”) e il complottismo maniacale che vede massoni e misteri dappertutto. L’Unità d’Italia diviene così un racconto a metà tra mani Pulite, la P2 e la strage di Ustica “come non ve l’hanno mai raccontata prima”. 
E qui lo storico, editorialista del Corriere mette l’accento sul nostro specifico del “racconto pubblico”: “Ridicolo, ma per molti convincente, dal momento che quel racconto riempie il vuoto che si è determinato da decenni nel nostro discorso pubblico dopo che esso ha espulso da sé, e ormai perfino dal circuito scolastico, ogni autentica e viva narrazione del Risorgimento. A riprendere la quale non basterà certo il patetico brancolare nel buio del governo attuale, che sembra considerare l’anniversario dell’Unità più che altro come la classica tegola cadutagli sulla testa” .[18]
La fragilità della collocazione della storia della liberazione (1943-1945) nel panorama identitario di tutti gli italiani (che è per esempio operazione condotta in Francia dalla storia in laboratorio ai libri di scuola dal fatto stesso che il capo della lotta al nazismo e ai collaborazionisti era un generale divenuto anche leader dei moderati nel paese tuttora al potere in suo nome, cioè Charles de Gaulle) è stata variamente analizzata e descritta. In antitesi con il modello francese si ritiene che il tentativo di una storiografia di tendenza di “impadronirsi” dei principali meriti per la resistenza – che pure fu storia condivisa a sinistra e a destra – è alla base di una tensione interpretativa, divenuta in alcuni casi manipolazione, che ha prodotto rifiuti e riluttanze. Ma è forte anche l’opinione di chi ritiene che la maggiore manipolazione sia consistita nel separare gli italiani definitivamente nella storia con un’attribuzione di buoni e cattivi destinata a mostrare nel tempo limiti e distorsioni. Negli ultimi anni – da quando il partito erede della tradizione fascista ha mutato nome e giudizio sulla storia del passato prossimo (si fa coincidere questo passaggio con a conferenza di Fiuggi del 27 gennaio 1995[19]) – si è anche slatentizzata una letteratura di riconsiderazione dell’attitudine “patriottica” dei giovani italiani che durante la “Resistenza” stavano dall’altra parte. Resta comunque il fatto che senza la pagina dei quella  Resistenza l’Italia non avrebbe avuto un così rapido e fruttuoso inserimento nella comunità internazionale dopo la tragedia della guerra. E resta il fatto che in quella pagina si fondano anche principi e valori, in alcuni casi duramente pagati (con la vita, l’esilio, il carcere), che hanno poi permesso di assicurare ad un’Italia assai bisognosa leggi, classi dirigenti e progetti per una impressionante ricostruzione. Sulla modesta tenuta del valore pedagogico di quella “pagina” pesano probabilmente le “ricostruzioni approssimative” di cui parla Galli della Loggia e che hanno regolato molte cose recenti, in un rapporto generale con la storia e con il passato che anziché consolidarsi e approfondirsi ha avuto negli ultimi venti anni sonno e trascuratezze [20].
Quanto alla parola Repubblica – pure maturata in un conflitto istituzionale dall’esito incerto, ovvero quello del referendum istituzionale che spaccò il paese nel 1946 [21] – non pare che ad essa si associno più molti sentimenti attivi, ovvero pulsioni ideali. Tra le tante ragioni andrebbe anche annoverata la ormai quasi ventennale incertezza sulla legittimità della parola “Repubblica” per definire da sola il contenitore istituzionale di tutta e della storia di tutti. Dell’espressione  Prima Repubblica si fa largo uso per periodizzare il cinquantennio travolto da Tangentopoli. Ma poi Seconda Repubblica non si afferma né sui media né tra i politologi. “La transizione tra prima e seconda Repubblica – scrive Luciano Cafagna non si è mai compiuta. Questa ‘seconda Repubblica’ non l’abbiamo ancora vista e, semmai la vedremo, sappiamo ogni giorno di meno che faccia potrà avere[22]. Immaginare in tal quadro un’affezione di massa per questa “parola” è dunque difficile.
Appare più collocata dentro il dibattito sulle riforme costituzionali la parte in fondo maggiormente viva dell’attenzione attuale sulla cultura che in Francia, per esempio, con espressione diffusa e a tutti comprensibile si chiama “repubblicana”. La Costituzione infatti fu la tavola dei nuovi diritti – individuali e collettivi – tesi a bilanciare e a qualificare i poteri. Volerla conservare così come fu scritta o volerla legittimamente modificare non è argomento trattabile in sordina. Dunque dal punto di vista comunicativo è qui piuttosto che va cercata “tensione civile” attorno a ciò che connota, caratterizza, qualifica la Repubblica.
Si colloca comunque  nell’incertezza di analisi del nostro tempo, la riflessione che Giorgio Ruffolo dedica alla “minaccia della decomposizione nazionale” alla fine di un brillante e tutto sommato veloce viaggio nelle due Italie (sì nord e sud, ma anche le infinite dicotomie della storia del nostro paese) che ha al centro l’ambivalente bilancio del Risorgimento e l’ambivalente bilancio della Repubblica (“fondamento paradossale tra forze che si fronteggiavano sul piano internazionale, ma non avevano alcuna possibilità di alternarsi al governo del paese; e che costituiva una formidabile garanzia contro il disastro di una nuova guerra civile. Ma costituiva però, al tempo stesso, una condizione di democrazia bloccata, priva del necessario ricambio, incapace di costruire sulle fondamenta costituzionali l’edificio di uno Stato nazionale moderno…[23]. Lo stesso Ruffolo – una cui intervista è parte importante di questo dossier – aveva scritto qualche anno fa un libro per spronare gli italiani a ripercorrere la loro storia millenaria ritrovando la sintesi attuale del loro racconto per “avere un   adeguato posto nel mondo”, riscoprendo un elemento che rende unica l’eredità italiana: essere stati per due volte, a lungo e a lunga distanza, il popolo e il paese dominante nel mondo [24]. Nell’epoca della Romanità e nell’epoca del Rinascimento. Ecco che le “tre erre” sono diventate cinque, in cui il ferro di Roma e l’oro dell’età dei Medici si accompagnano al tricolore che connette Risorgimento, Resistenza e Repubblica.
 
La storia scritta dai vincitori
 
Ho avuto occasione di recente di intervenire sul dibattito riguardante l’ingresso della Turchia nel sistema comunitario. L’occasione – promossa da un’istituzione comunitaria – non era tanto sul livello di avanzamento dei 35 dossier che separano la “domanda” d’adesione in decisione (per altro solo 8 sono in esame e solo 2 hanno finora superato le prove), ma su come si produce la rielaborazione comune della storia a partire dal conflitto storico tra cristiani e ottomani, dunque tra europei occidentali e turchi, con particolare cruenta storia nelle vicende cinquecentesche dell’assedio di Famagosta (successo turco) e della battaglia di Lepanto (successo cristiano e arresto dell’avanzata turca verso Roma). Se la storia, ad un certo punto, non si riscrive rovesciando la naturale separazione tra vincitori e vinti, dunque ricomponendo nella “comune lezione di un dramma” ciò che sentimenti di parte hanno letto comprensibilmente come ragioni esaltate e ragioni espugnate non si fa destino comune.
I padri della patria europea Schuman, Adenauer e De Gasperi – parlando tutti e tre nella lingua dei vinti, cioè il tedesco – senza alterare la portata e le responsabilità della catastrofe seppero creare le basi interpretative non degli eventi storici ma delle loro conseguenze sul futuro. Ecco, questo capovolgimento – che non dovrebbe alterare il coraggio dei piemontesi al servizio della causa nazionale, il coraggio del lombardo-veneto nella guida del Risorgimento in armi, il coraggio dei garibaldini nel chiudere il ciclo di potere borbonico, il coraggio dei cittadini dell’Italia frantumata nell’invocare una patria – potrebbe anche guardare in modo più complesso alla storia del Mezzogiorno e al drammatico confronto con i suoi poteri separati (dal brigantaggio alle mafie) e alla storia millenaria dell’identità dei cattolici italiani, a cui già la risposta laica data dai popolari e poi dai democristiani nel corso del novecento costituisce una base di interessante mediazione interpretativa da non disperdere oggi quando manca il robusto presidio politico di quelle forze politiche organizzate.
Se non intervenisse nella riconsiderazione della storia questo “codice” butteremmo via – solo perché Pansa ha mediaticamente imposto il suo “sangue dei vinti” – sia la feconda vicenda della resistenza al nazi-fascismo, sia la comprensione della coerenza del fascismo e del patriottismo nella storia italiana tra ottocento e novecento (contraddicendo la tesi crociana sulla ciste della storia).
E’ proprio l’impoverimento della base culturale nella politica italiana a rendere così poco autorevole il potere della politica nel provare a generare questo passaggio adulto di tipo ricompositivo. Farselo raccontare da protagonisti dello spot – tali sono ormai i portavoce dei partiti che transitano con messaggi assertivi e rissosi sui teleschermi – con connotati professionali per lo più incerti (cioè politici di professione con caratteri di “casta”) è spesso davvero inascoltabile. Ma non esistono poteri sostitutivi in democrazia. Esistono caso mai ruoli occasionalmente supplenti (anche le università sono istituzioni e possono svolgere – su richiesta – ruoli di analisi con valore appunto istituzionale). Da qui la difficoltà di maneggiare dossier delicati come quello di un aggiornamento del branding pubblico che per molti purtroppo significa solo adattamento grafico di un logo e non invece ripensamento strutturale dei valori simbolici condivisi.
 
Conclusione: perché “unità d’Italia”?
 
Nell’avviamento di dibattito che questa rivista ha voluto – e che per la vivacità delle reazioni ottenute e l’autorevolezza di alcuni contributi (che avranno certamente riscontri) pensiamo di protrarre anche, con altri elementi, nel fascicolo successivo, che si avvicinerà alla data della ricorrenza – più volte si è colta l’idea che la parola “celebrazione”, non potendo essere annullata perché inevitabilmente è questa una modalità strutturale della comunicazione istituzionale, potrebbe tuttavia essere confinata nel suo momento, anche di solennità, consentendo tuttavia uno spazio sostanziale ad una chiarificazione importante per gli italiani: oggi a cosa serve l’unità d’Italia?
E’ una domanda a cui – anche in questo fascicolo – si tentano alcune risposte.
Questa espressione “unità d’Italia” da il nome a piazze, viali alberati (mentre scrivo, nella Versilia pasquale, scopro che qui il nome è dato ad una scorrevole “popolare”, di raccordo tra autostrada e storica camionale, dunque assiepata da pompe di benzina, gommisti, vendita di auto usate; cosa che reputo qui metaforicamente positiva rispetto all’ingessatura di un viale più ufficiale e più residenziale; lo annoto perché “comunicazione pubblica” è anche la toponomastica); ma forse non essendo sollecitato un dibattito sull’utilità oggi di quella espressione, che è argomento che interesserebbe molti, affiora piuttosto – e i media che comprano con facilità ogni “grida” lo registrano – la sparsa critica a quell’unità, per motivi che poi magari, a ben sondare, sono sentiti da vere e proprie minoranze.
Certo l’Europa si va costruendo con una capacità di trasferire nel nostro processo normative molte regole in forma praticamente automatica. E certo poi che la globalizzazione ha investito fortemente l’economia creando una relazione tra i luoghi dei radicamenti produttivi e mercati non frammentati dalla barriere nazionali. Ma sono indubbie alcune certezze:
  • in quel processo di integrazione europea i soggetti negoziatori restano ancora fortemente gli stati-nazione, cioè sistemi istituzionali (che regolano poi al proprio interno il loro diverso adattamento federale) in cui vi è lo Stato ma vi è anche la ricapitolazione del patrimonio culturale di tutto ciò che connota la “nazionalità”;
  • in quel processo di glocalizzazione si determinano opportunità reali solo per chi – con espressione in uso – sa creare condizioni di “sistema-paese”, cioè sa aggredire i cambiamenti attraverso un ampio dialogo e una costante ricerca di sinergie tra istituzioni e soggetti della società civile; insomma quella condizione che va sotto il nome di “identità competitiva”;
  • in entrambi questi contesti – l’Europa e il mondo – la questione italiana va anche letta attraverso il ruolo delle vaste comunità di origine italiana che formano nel pianeta un territorio antropologico grande quattro volte i confini attuali dell’Italia; comunità che percepiscono con forza le loro origini “locali” ma che sarebbero fortemente deprivate se il “Paese” con alcune sue chiare caratterizzazioni unitarie non cercasse di riannodare tradizione e cultura del cambiamento; riannodare cioè il compendio dei “caratteri” attorno a cui vi è una vastissima letteratura declinata abitualmente come analisi dell’italianità [25]e che, in alcuni casi, è originalmente letta anche come “italicità”[26];
  • la prospettiva del “negoziato esterno” passa attraverso un negoziato interno su cui, con voce oggi più forte di altri, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano richiama l’attenzione di partiti, amministrazioni, imprese, università: l’aggiornata riflessione sulla complementarità del nord e del sud nella visione attuale del destino della nazione [27]; un tema che ha accenti antichi, ma che oggi può essere affrontato con strumentazione teorica e metodologica molto nuova, in cui c’è spazio per l’economia – naturalmente – ma anche per una percezione della “comunicazione pubblica” come racconto, che è tema per cui questa Rivista trova sempre più le ragioni della propria originalità.
 
Il nostro dossier – che sarà completato da un secondo “capitolo” di analisi previsto a fine anno, dunque a ridosso della data formale – ha cercato di segnalare le trame essenziali di un dibattito che nel 2009 è stato sollevato come “provocazione” per un carattere di vaga rimozione che il tema presentava ma che nel 2010 è invece diventato parte della agenda setting. Le forme restano strattonate, talvolta solenni, talvolta goffe. Ma la sostanza si va esprimendo. Attorno alla posizione che soprattutto il presidente della repubblica Giorgio Napolitano ha scelto come costante comunicativa in piena coerenza costituzionale con il significato dell’espressione “unità d’Italia” crescono gli eventi (l’ultimo qui riscontrabile è quello di Genova per celebrare la partenza della Spedizione dei Mille) e si presentano posizioni distinte. Data la collocazione di alcune voci del mondo cattolico in dissenso rispetto alla linea “risorgimentalista” delle celebrazioni (di cui diamo conto) è di particolare rilievo negli ultimi tempi la posizione assunta dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale italiana che ha dichiarato – nel corso di una specifica circostanza promossa sul tema dalla CEI – “l’unità d’Italia spero sia un tesoro nel cuore di tutti e di ciascuno, a cui tutti vogliano contribuire anche in modo diverso, ma con questo tesoro e convinzione che appartiene a tutti”, aggiungendo che “dobbiamo temere la propaganda spacciata per verità storica[28]. In pari tempo – e a seguito del successo elettorale maturato nelle regionali di fine marzo – La Lega Nord ha delineato le sue riluttanze. Umberto Bossi ha detto: “Le celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia mi sembrano le solite cose inutili, un po’ retoriche. Non so se ci andrò, devo ancora decidere. Ma se dovesse chiamarmi Napolitano…” [29].Il ministro Roberto Calderoliha aggiunto: “Unità d’Italia, non andò alla festa[30]. Immediata replica – nel quadro di altre dure e note dialettiche del periodo – del presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini: “Per quale motivo un grande partito nazionale come il nostro non ha presentato un solo progetto per celebrare degnamente questo anniversario? E non sarà perchè gli amici della Lega escludono che ci sia qualcosa da festeggiare?[31]. Il presidente della regione Piemonte Roberto Cota ha spiegato in televisione – in forma incidente per il programma varato proprio in quella regione – che la posizione di revisione dei programmi è quella “di non realizzare delle celebrazioni retoriche ma orientate al valore considerato ora più importante quello di promuovere il federalismo”. Nel confronto che si esprime tra le forze di governo – finora velato di silenzi e dunque latente – si chiariscono meglio i dissensi. Non a caso il ministro della Difesa La Russa sceglie l’occasione del raduno nazionale degli alpini a Bergamo (la Città dei Mille ma anche la città in cui la Lega è il primo partito con il 37% dei voti) spiegando “la sicura vocazione nazionale” della città. Dai sondaggi, che intanto cominciano a circolare, il carattere maggioritario di questa vocazione nell’opinione pubblica indifferenziata pare nettamente cogliersi – dice Renato Mannheimer anche nell’elettorato leghista [32] – e ciò soprattutto costituirà il fattore di riequilibrio dei comportamenti istituzionali delle maggiori forze politiche.
Questa rivista ha dato un piccolo contributo al dibattito e ha presentato in occasione della ricorrenza del 25 aprile occasione di un evento promosso dalla Associazione “Francesco Saverio Nitti” a Melfi, la prima parte di una discussione videoregistrata con le opinioni di Luciano Barca, Giuseppe De Rita, Marco Pannella e Giorgio Ruffolo a cui, nella seconda parte, si aggiungeranno quelle di Umberto Croppi e di Sandro Bondi, il ministro che governa l’evento nazionale del centocinquantenario. Luciano Barca considera fondamentale una quarta parola, Costituzione, per completare il sillabario, Giorgio Ruffolo mette in guardia sul rischio che il paese “troppo lungo” produca disunità, Marco Pannella ricorda che “Risorgimento e Resistenza trovano senso nella loro vicenda europea” e Giuseppe De Rita dichiara, con amarezza, l’impoverimento della percezione sociale di queste parole. Tutti ritengono che l’Unità d’Italia sia un valore del patrimonio storico e antropologico che l’Italia ha acquisito.
Nel prossimo numero, a video completato, daremo le indicazioni per rintracciare in rete questo programma. Dunque un cantiere comunicativo aperto che la rivista considera un ambito di riflessione anche metodologica circa il vissuto collettivo (delle istituzioni, della politica e della società civile) di un modo ampio di interpretare la comunicazione pubblica.
All’atto di chiudere a metà maggio 2010 questo fascicolo in tipografia, giunge la notizia della nomina di Giuliano Amato a presidente del Comitato dei Garanti, dopo le irrevocabili dimissioni del presidente Ciampi. Non poteva essere fatta scelta migliore, da parte del ministro Bondi [33],  per le connessioni culturali e istituzionali che questa nomina sottende. Il giudizio assai prudente sulle possibilità di utilizzare la ricorrenza in modo utile alle attuali condizioni identitarie del Paese schiude così qualche altrettanto prudente ottimismo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Aggiornamento 11 maggio 2010
 

[1] Primo comma dell’art. 87 “Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”.
[2] L’espressione di Carlo Donolo da il titolo a un saggio pubblicato da Feltrinelli nel 1997.
[3] Carlo Cardia, Ma l’Italia era “unita” prima di Garibaldi, Avvenire, 27 agosto 2009.
[4] Giuseppe Galasso, L’Unità precede il Risorgimento, Corriere della sera 19 ottobre 2009.
[5] Alfredo Mantovano, Nazione spontanea, già prima del 1861, Corriere della Sera, 16 febbraio 2010.
[6] Nella rubrica “L’interesse nazionale” del sito http://temi.repubblica.it/limes/
[7] Del 20 luglio 2009.
[8] In internet sul sito del Corriere della Sera sotto la voce “1861-2011 – Visioni d’Italia”.
[9] Ilvo Diamanti, Il Paese delle leghe e la nazione impossibile, Repubblica, 26 luglio 2009.
[10] Angela Pellicciari, I 150 anni dell’Unità d’Italia, http://www.angelapellicciari.it
[11] Angrela Pellicciari, Scuse al Vaticano per l’unità d’Italia, Libero 12 settembre 2009.
[12] Una vasta rassegna di video sul tema “150° anniversario dell’unità d’Italia un misfatto da ricordare” in http://www.yaoutube.com/watch?v=u8i3UlPI7Kc
[13] In agenzia, 13 febbraio 2010
[14] Il libro è edito da Rizzoli. L’anticipazione della prefazione di Sassoon è stata fatta da Repubblica l’8 aprile 2010, Giuseppe Mazzini, quel sogno di educare gli italiani.
[15] Aldo Schiamone, L’Italia contesa, Laterza 2009.
[16] Carlo Pelanda, Formula Italia. Il nuovo progetto nazionale e liberale, Franco Angeli, 2010.
[17] Miguel Gotor, L’Italia è una sola ma che fatica, Sole 24 ore, 28 marzo 2010
[18] Ernesto Galli della Loggia, Il Risorgimento sotto processo, Corriere della Sera, 7 febbraio 2010
[19] A Fiuggi si svolse il congresso costituente della nuova AN, guidata da Gianfranco Fini, dove, cioè, venne operata la “svolta” del partito, il 27 gennaio 1995 in una operazione ispirata dalla tesi di Domenico Fisichella che in un articolo apparso su Il tempo tre anni prima aveva suggerito  al MSI-DN di farsi promotore di una “alleanza nazionale” per uscire dallo stato di ghettizzazione politica in cui versava.
[20] Barbara Spinelli, Il sonno della memoria, Mondadori, 2001 e Stefano Rolando, Quarantotto – Argomenti per un bilancio generazionale, Bompiani, 2008.
[21] Al referendum del 2 giugno del 1946 votarono per la Repubblica 12.718.641 italiani (pari al 54,3 %) e per la Monarchia 10.718.502 italiani (pari al 45,7% %), voti nulli furono 1.498.136. Al nord la Repubblica aveva vinto con il 66,2%, al sud, la Monarchia aveva vinto con il 63,8%.
[22] Luciano Cafagna,Il territorio e la nazione, Mondoperaio n. 3/2010
[23] Giorgio Ruffolo, Un paese troppo lungo (l’unità nazionale in pericolo), Einaudi, 2009.                 
[24]Giorgio Ruffolo, Quando l’Italia era una superpotenza, Einaudi 2004
[25] Nell’impossibilità di richiamare la grande bibliografia sulla materia si ricorda un testo che è considerato architrave di ogni moderna ricerca sull’italianità, L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi, 1983, di Giulio Bollati; e un testo che – chiude il ciclo trentennale di riflessioni, da poco uscito, di Silvana Patriarca (che insegna Storia europea contemporanea alla Fordham University di New York, appunto Italianità – La costruzione del carattere nazionale (Laterza, 2010).
[26] Al di là dei testi, che pure ha scritto sull’Italia e su Milano, Piero Bassetti – che è il maggiore sostenitore di questa espressione – merita di essere seguito nella complessa attività che trova racconto nel sito www.globusetlocus.org
[27] Il testo integrale dell’importante discorso pronunciato dal presidente Napolitano all’Accademia dei Lincei il 12 febbraio 2010 sul tema Verso il 150° dell’Italia Unita: tra riflessione storica e nuove ragioni di impegno condivisoal link http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&Key=1785. Testo che ha collocato i confronti dell’anno che precede la ricorrenza del 150° fuori da ogni rischio burocratico, per le sue inequivoche posizioni. Esso così si conclude: “Spero ci si risparmi il banale fraintendimento del vedere sempre in agguato l’intento di un appello all’abbraccio impossibile, alla cessazione del conflitto, fisiologico in ogni democrazia, tra istanze politiche e sociali divergenti. E’ tempo che ci si liberi da simili spettri e da faziosità meschine, per guardare all’orizzonte più largo del futuro della Nazione italiana, per elevare al livello di fondamentali valori e interessi comuni il fare politica e l’operare nelle istituzioni”.
 
[28] Vari riscontri sulla stampa. Per esempio in Corriere della Sera, 3 maggio, Card. Bagnasco: “ L’unità dell’Italia è nel cuore di tutti noi con convinzione”.
[29] In Il Giornale, 4 maggio 2010, Unità d’Italia, Bossi:”E’ un’iniziativa inutile”.
[30] Il titolo è de La Stampa, 2 maggio 2010.
[31] Nello stesso testo de Il giornale, del 4 maggio 2010, di cui alla nota precedente.
[32] In Corriere della Sera, 10 maggio 2010: sette elettori della Lega su dieci giudicano “un bene” l’unità d’Italia.
[33] Che a Quarto, in occasione della celebrazione della partenza dei Mille per la Sicilia, ha altresì dichiarato: “Il governo ha l’intenzione di proclamare il 17 marzo 2011 festa nazionale per celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia». Il suo discorso integrale al link
http://www.beniculturali.it/mibac/opencms/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Comunicati/visualizza_asset.html?id=74002&pagename=129