150 a prova di unità 5 – Colloquio con Giuliano Amato (Mondoperaio n. 3/2011)
mondoperaio 3/2011 / 150° la prova dell’unità
Che cosa abbiamo fatto
per meritarci l’Italia?
Giuliano Amato intervistato da Stefano Rolando
Nella nomina a presidente del Comitato dei Garanti per
il 150°, diciamo dal testo della delibera, si evince un
punto preciso per prefigurare la missione e gli obiettivi di
questo incarico?
C’è un decreto del Presidente del Consiglio deiMinistri che istituisce
il comitato che profila compiti al riguardo. Soprattutto,
dal punto di vista formale, si tratta di esprimere pareri su progetti,
in particolare del governo, che attengono alle celebrazioni.
In realtà essendo il comitato costituito da prestigiosi intellettuali
all’origine presieduti da Carlo Azeglio Ciampi, esso all’inizio
ha messo a punto orientamenti e indirizzi corrispondenti alle
aspettative che l’Italia poteva avere da queste celebrazioni. Il
mio compito è stato più ravvicinato agli eventi e quindi più nel
merito dei progetti emersi. Ho cercato di allargare la sfera di attenzione
al di là delle elencazioni ufficiali in modo da includere
nel programma tutti gli eventi – comunque e da chiunque organizzati
– all’insegna del principio “sta celebrando i 150 anni
non lo Stato italiano ma la Repubblica italiana”.
Pensi di avere conseguito quell’obiettivo (parliamo a meno
di due settimane dall’evento)?
Penso di sì. Le celebrazioni si snodano con vari anniversari che
dipendono da fatti diversi. Per fare qualche esempio, la partenza
deiMille da Quarto avvenne il 5maggio 1860 e lo sbarco aMarsala
fu l’11 maggio. Oppure la rivolta di Potenza cominciò il
16 agosto 1860 e si concluse vittoriosamente il 18 agosto quando
Garibaldi sbarcò in Calabria. Queste date hanno offerto le
condizioni di calendario per svolgere specifiche manifestazioni
nelle ricorrenze sin dal 2010. Gli anniversari, dunque, sono
più di uno. Scuole, Comuni, Università stanno diffondendo attenzione
con una prevista gradualità. Lo spirito italiano accompagna
creativamente gli eventi. Porta anche a servire nei
ristoranti toscani di Castello di Brolio le “pappardelle alla Ricasoli”.
Gli italiani non se la perdono un’occasione come questa.
Chi ha remato contro? Chi ha remato?
Insomma, indiscutibilmente la Lega è stata restia per motivi che
tutti conoscono. E ciò ha provocato nelle sedi in cui quel partito
ha un peso anche atteggiamenti di altri che talvolta hanno
alzato le braccia dai remi. Però faccio una considerazione generale:
alla fine si vedrà che è prevalsa la convinzione della stragrande
maggioranza degli italiani. La Giunta regionale del Veneto
aveva – per esempio – deciso di non partecipare alle celebrazioni.
Ebbene il Consiglio regionale del Veneto alla fine
ha portato l’ente Regione a dare il consenso alle celebrazioni.
Si può dire in sintesi che hanno remato i due presidenti della
Repubblica e gli italiani in genere?
Aggiungerei anche parte del governo. Non vorrei essere esaustivo
sui nomi, ma l’impegno del sottosegretario alla Presidenza
va ricordato, l’impegno nel suo insieme del Ministero dei Beni
culturali soprattutto per il recupero dei “luoghi della memoria”
va sottolineato; e, non so quanto gli italiani lo sappiano,
la serata sul 150° al festival di Sanremo, con 19 milioni di
telespettatori, è stata ideata dal ministro della Difesa.
A proposito: sul piano della comunicazione popolare, Roberto
Benigni a Sanremo è stato risolutivo?
Se è stato proprio risolutivo non saprei dirlo.Ma che 19 milioni
di italiani lo abbiano seguito con attenzione sul significato, parola
per parola, dell’inno di Mameli è stato straordinariamente
importante.
Si ha l’impressione che la scuola italiana si sia molto impegnata,
che i media si siano abbastanza impegnati, che la
politica e l’impresa siano stati marginali e che l’università
si sia abbastanza disinteressata. Corrisponde?
Troppo drastico. Effettivamente la scuola sta facendo molto e
con molta varietà. Ho sentito di ricerche fatte dai ragazzi sui registri
dello stato civile per capire il significato del passaggio da
cittadino del Granducato a cittadino dello Stato italiano. Insegnanti
bravi hanno portato gli allievi sui luoghi della memoria
e nelle case di protagonisti del tempo, raccogliendo in un sito
i loro resoconti e i loro commenti. C’è poi un’Italia profonda
che reagisce. Le bande musicali e i cori, parte essenziale di un
tessuto sociale dell’Italia non romana, danno una colorazione
del tutto diversa a quella che sarebbe questa celebrazione effettuata
in Francia, un paese top down dove Parigi da il là. Qui
ciascuno suona a modo suo, con la sua banda, con il suo coro.
In verità le università stanno facendo. Non tutte, ma alcune sì.
Vengo da un evento organizzato dagli italiani all’università di
Zurigo e sto partendo alla volta dell’università della Calabria
per un altro evento. L’Università di Roma – anzi le tre università
romane – hanno realizzato un grande evento. In realtà non
tutto quello che si fa riesce ad arrivare ai media.
Una riflessione supplementare per il sistema di impresa…
Si, d’accordo: qui c’è un po’ di rarefazione. Ho coinvolto il sistema
di impresa in una bella mostra che si aprirà a marzo, intitolata
Copyright Italia, fatta dall’Archivio di Stato, che racconta
attorno ai marchi e ai brevetti che quell’Archivio custodisce
la storia dell’innovazione. Qui hanno partecipato.Ma c’è
un’altra cosa che è rimasta a metà proprio qui alla Treccani: un
dizionario biografico delle imprese e degli imprenditori. Ci lavorava
la Bocconi, ma serviva un concreto sostegno. E l’impresa
italiana non ha neanche avviato un’ipotesi di colletta per
costruire questo monumento di sé.
Nelle storie che accompagnano il racconto del 150°: molto
Risorgimento, poca Resistenza, scarsa e controversa Repubblica.
Insomma le 3 R – architravi del secolo e mezzo –
non valgono tutte allo stesso modo?
E’ abbastanza naturale che si pensi di più al Risorgimento perché
la prima propensione dei celebratori è di andare al passato.
La Resistenza meriterebbe maggiore attenzione come ambito
di ricerca sulla “patria ritrovata”. Poche iniziative convegnistiche
stanno segnalando questo tema, ma lo ha molto ben
fatto il libro di Aldo Cazzullo Viva l’Italia che ha proprio messo
sullo stesso piano la vicenda risorgimentale e quella della Resistenza.
Un ciclo di seminari sulla Repubblica l’ho organizzato
io stesso alla Treccani insieme ad Andrea Graziosi con un titolo
non casuale: Cento più Cinquanta. E poi? L’attenzione è
concentrata sugli ultimi cinquanta anni e su quello che ne potrà
uscire. Ti dirò che avevo immaginato all’inizio un titolo alla
Almodovar: Che cosa abbiamo fatto per meritarci questo?
Ma era un titolo inadatto alla Treccani.
Nel ciclo di interviste che Mondoperaio ha finora dedicato
al tema (Barca, Ruffolo, Maccanico, Bassetti, De Rita) abbiamo
chiesto a tutti: a cosa serve oggi l’unità d’Italia?
Serve a dare uno spazio vitale minimo agli italiani che non l’avrebbero
se fossero divisi negli staterelli di un tempo. In un
mondo in cui la demografia conta sempre di più in misura direttamente
proporzionale allo sviluppo degli Stati più popolati,
essere piccolissime unità, cioè autobalcanizzarsi, significa
andare verso il suicidio. Puramente e semplicemente, in termini
di convenienze economiche, dimenticando Dante, Petrarca e
Leopardi. Questo non è di destra né di sinistra. Pochi hanno riflettuto
sul fatto che la demografia ha contato di meno negli ultimi
due secoli perché i paesi più popolosi erano masse di poveri.
Ma quando essi si sviluppano, le dimensioni del braccio
con cui si fa il bracciodiferro contano, eccome.
Giorgio Ruffolo invoca un progetto per impedire quello che
pare ineludibile: la rottura dello stivale. E’ già in atto la rottura?
Cosa deve avvenire perché si debba parlare di due Italie?
No, non credo che la rottura sia in atto. Forse attribuisci a Ruffolo
qualcosa in più di quello che dice. Lui sostiene qualcosa
che non ha convinto tutti in fatto di proposta: la creazione delle
macro-regioni. Cioè creare una grande regione del sud per
consentirle di essere più efficace in questo paese “troppo lungo”.
E’ comunque correttissima la sua diagnosi: il paese è risultato
“troppo lungo” per riuscire ad unificarsi. Io stesso ho ripetutamente
parlato di “Italia nazione incompiuta” proprio perché
incompiuto è rimasto il nord-sud, che ancora continua ad
esistere. Ma che è assolutamente lontano da quello che – per
parlarci chiaro – sta succedendo in Belgio.
Piero Bassetti non crede all’unità dello Stato-nazione generato
nella seicentesca pace diWestfalia. Chiede una nuova
statualità guardando a portatori di innovazione e di efficienza.
Anche se attualmente ci sembrano primitivi omalavitosi.
Un commento.
Bassetti ha ragione.Ma quello che dice è sempre stato vero. La
discussione sull’incompiutezza della nazione ha visto da sempre
due fronti: quelli che dicono che ci sono gli italiani ma non
l’Italia e quelli che dicono che c’è l’Italia ma non gli italiani.
Secondo i fautori della prima tesi è chiaro che contano gli italiani
e non lo Stato italiano. Un’opinione prevalentemente dei
cattolici.Ma nella fragilità della formazione dello Stato italiano
ci fu la sciagura del potere temporale della Chiesa che creò
un conflitto tra quello Stato e la religione degli italiani, cioè con
il loro vero collante. Un paese prevalentemente contadino e cattolico
ha avuto difficoltà a riconoscersi nello Stato. Questa è vicenda
nota. Ma col passare dei decenni questa frattura ha finito
per essere riassorbita. Ciò che è stata l’Italia più recente evidentemente
non è solo dovuto allo Stato e alla sua capitale, ma
a ciò che milioni d’italiani sono venuti facendo.Ma ti pare che
essere arrivati ad essere tra le prime sette potenze industriali del
mondo con una struttura industriale fatta da una miriade di piccole
e piccolissime imprese che concorrono tutte al suo prodotto
interno lordo sia espressione di una realtà statocentrica? Non
è pensabile. Dunque è vero che l’unità d’Italia la regge la comunità
degli italiani. Ed è questo che mi rende anche ottimista
sul futuro dell’Italia.
Dietro a questa celebrazione – non tanto nei comitati ufficiali,
ma nella minore evidenza di luoghi e persone che pensano
paese con intelligenza – ti sei imbattuto in qualche “laboratorio”
del cambiamento da segnalare (come lo fu la redazione
di questa rivista, di cui eri parte di spicco negli anni
’70) ?
Questa è davvero una domanda interessante. Sono certo che esistono
anche altri laboratori che pensano paese come dici “con
intelligenza”. Quello che so è che un tentativo è quello che proprio
qui all’Istituto dell’Enciclopedia italiana sta coinvolgendo
molte persone ed è in via di costruzione per un progetto su
“L’Italia e le sue regioni” in cui stiamo coinvolgendo studiosi
di tante discipline e diverse località italiane attorno alla messa
a fuoco della cultura che si è venuta formando nelle regioni, nel
territorio, per capire se essa è partecipe di una cultura nazionale
e concorre a formarla o se si tratta di tendenze puramente localistiche.
Attualmente il lavoro di coordinamento è guidato da
Mariuccia Salvati e Loredana Sciolla. Tanti partecipano: da Segatti
a Fofi a De Rita. Spero di arrivare in porto. Ma come capita
in tutti i laboratori non sempre poi la scintilla scocca.
Perché il Corriere della Sera ha scelto il tema con un trattamento
così distinto dagli altri media italiani?
Anche se Repubblica ha ormai la pagina fissa con la cronaca
del tempo…Penso però che al Corriere pesino specifiche sensibilità,
da quella del direttore a quella di un editorialista come
Ernesto Galli della Loggia, a firme di punta come quella di Aldo
Cazzullo o quella di Gian Antonio Stella a cui piace moltissimo
percorrere l’Italia periferica in funzione della sua unità.
Anima degli italiani o vocazione all’establishment, per quel
giornale?
Penso soprattutto “anima degli italiani”. Perché del Corriere si
parla con una certa prudenza quando si discute di cosa pensino
i suoi azionisti. Ma qui ritengo che gli azionisti non c’entrino
per niente.
La Rai ha corrisposto alle attese ? Questa Rai è in grado di
corrispondere ad attese?
Diciamo che la Rai ha fatto promesse corrispondenti alle attese
e ora vediamo come le realizza. Ha avuto e ha programmi
– da Rai Storia a Rai Educational – che contengono a meraviglia
il tema. Aspettiamo che anche altri contenitori, quelli più
frequentati dai telespettatori, ospitino comunque tematiche legate
al 150°. Questo è stato detto dai vertici della Rai al mio comitato
in una occasione. Mi aspetto che lo facciano. Non essendo
neppure un assiduo consumatore di tv, non ho poi titolo
per esprimermi sulla Rai nel suo insieme.
“Italia” è una espressione anche geografica che oggi – a differenza
dei tempi di Metternich – comprende anche i 250
milioni di italo-discendenti in ogni parte del mondo. L’occasione
del 150° avrebbe potuto far esprimere una politica
nuova, moderna, non retorica, per questa immensa e importante
comunità. Ci si è pensato?
Si cerca di avere proposte. Sugli italiani all’estero tuttavia ci sarebbe
molto da dire. Per esempio su quelli che hanno solo il passaporto
senza sapere la lingua…
…è grave?
…mah, insomma, lo trovo un po’ miserando, perché prendo sul
serio la cittadinanza, la prendo come espressione di appartenenza
ad una comunità. Così come mi rammarico che molti immigrati
in Italia non parlino l’italiano appartenendo ormai a questa
comunità. Ogni volta che sono fuori e parlo con giovani
oriundi cerco di ricordare che è bene che imparino la lingua perché
noi la chiediamo agli immigrati per dar loro la cittadinanza.
In più la legge elettorale è una stravaganza unica in tutto il
mondo per il modo con cui sono stati costruiti i distretti elettorali.
Mi sono trovato pochi giorni fa nella piccola vecchia casa
di Staten Island in cui Meucci ospitò Garibaldi, circondato
dalle rappresentanze locali degli italiani che mi ricordavano che
sacrifici devono fare per tenere in piedi quel luogo e per insegnarci
l’italiano. Mi ha detto Piero Angela la stessa cosa che
ho pensato io andando lì. Che bisognerebbe farci un vero moderno
museo audiovisivo, per ricostruire la storia di Meucci e
delle sue invenzioni, la storia del telefono. Non chiudere sempre
i nostri italiani all’estero nell’eterno ricordo della loro iniziale
povertà. Beh, per rispondere alla domanda, queste cose dovremmo
fare o incentivare per il 150°.
Sergio Luzzatto di recente sul Sole-24 ore (in polemica con
Carandini e Berardinelli) ha detto che si sprecano i piagnistei
sulla decadenza intellettuale italiana pensando al passato
pieno di glorie, mentre l’Italia è tra i paesi europei più
glocal,magari con un “provincialismo cosmopolita”. Chi ve-
de e chi racconta l’Italia correttamente oggi nel mondo?
Intanto la racconta bene Sergio Luzzatto perché scrive in un italiano
piacevole e corretto. Ora, gli italiani hanno sempre avuto
la caratteristica di essere auto-denigratori. E’ noto e comprensibile
il complesso di Calimero degli italiani, abituati a essere
dominati da altri, servi più che padroni. Se ne sentono in
parte colpevoli in parte colpevolizzati. Alla fine diffondono di
sé un’immagine eticamente discutibile e culturalmente mediocre,
che non corrisponde alla verità. Ma quando viene diffusa
viene poi ripresa dagli altri. E quando la troviamo ripresa
dall’Economist ci arrabbiamo,ma siamo noi che l’abbiamomessa
in circolazione. Diffidiamo dunque dalla retorica. Condivido
il profilo che ho proprio trovato nel libro di Cazzullo. Identificato
in una splendida frase di D’Azeglio che scrive a un suo
amico: vedi quanta coscienza di sé c’è da parte francese e quanta
modestia c’è da parte nostra? Perché non impariamo ad essere
orgogliosi almeno delle cose vere?
Non c’è da andare proprio orgogliosi di tutto, no?
Sì, questo sì. Ma almeno delle “cose vere”! Ora per completare
l’osservazione, noi siamo anche un po’ schizofrenici. Perché
andiamo in giro a fare mostre delle eccellenze italiane. Ma ci
mostriamo anche sovraccarichi di rifiuti. Il che genera la percezione
che le eccellenze siano eccezioni. Si tratta di ricostruire
l’insieme di un profilo italiano. New York va assomigliando
sempre di più a Napoli perché avendo deciso di fare la raccolta
differenziata in giorni diversi la città è piena di immondizie.
Ma New York resta per tutti “la mela” da amare.
Hai scritto tu di recente sul Sole-24 ore che “senza dialogo
non c’è democrazia”, facendo l’elogio del laboratorio che
non solo nei paesi nordici e protestanti ma anche in Italia
vi sarebbe in materia di democrazia partecipativa e deliberativa.
Da questo punto di vista i 150 anni di unità d’Italia,
metà dei quali con democrazia a scartamento ridotto e una
parte anche senza democrazia, reggono il confronto con il
resto d’Europa?
Diciamo che non reggono il confronto con una parte dell’Europa.
Ho voluto esprimere una convinzione sull’Italia come su
buona parte delle democrazie occidentali, dove sono venute meno
quelle formazioni intermedie che permettevano il dialogo democratico.
Si è arrivati al rapporto in presa diretta tra leadership
politica e opinione pubblica, che tende all’estremizzazione
emotiva, a trasformare la cittadinanza attiva in tifoseria. Sono
colpito da ciò che è successo in Tunisia e in Egitto, che dimostra
che si può ricreare una canalizzazione di cittadinanza
attiva, purché la si faccia. Non è che i nuovi media la rechino
in sé, ma la consentono. Se questo vale per Tunisia ed Egitto
varrà soprattutto per un paese che, alla fin fine, non ha il problema
del cambio di regime.
Nelle tante manifestazioni per i 150 anni di unità d’Italia c’è
stato posto anche per una storia del PCI, una mostra d’orgoglio
organizzata dall’Istituto Gramsci. L’hai vista? L’avresti
voluta così? Che cosa ti ha fatto pensare?
Una mostra tecnologicamente molto accattivante, grazie all’uso
di nuovi media e di interattività. Un’osservazione che ho fatto
andandola a visitare – insieme a Giorgio Napolitano, in relativa
informalità, ma fatta insieme per connetterla in modo più visibile
al 150°- è che l’architetto l’ha fatta troppo scura. Se fosse
stata la mostra della storia del mio partito avrei voluto più
luce…
Parli di luce vera o di luce simbolica?
Riguarda quell’allestimento, perché la storia la si legge come
storia. Vedere una foto di Togliatti, pigiare sul touch screen sulla
svolta di Salerno e sentire in cuffia il discorso di Togliatti sulla
svolta di Salerno, lo trovi una gran cosa. Certo mi ha messo
in mente: perché non c’è una storia del PSI nella storia d’Italia?
Ne ho scritto a Maurizio Degli Innocenti che ci sta lavorando,
ma c’è bisogno di alcune decine di migliaia di euro che
non si sa ancora se si riusciranno a trovare.
Quanto alla attuale sinistra italiana – non dico alcuni intellettuali,
ma partiti e movimenti che si richiamano esplicitamente
alle radici della sinistra che con il Risorgimento
non ha mai regolato bene i suoi conti – che contributo rielaborativo
è venuto in questi ultimi tempi da mettere nell’inventario
serio di un dibattito?
Oggi la cosa più interessante – di cui è bene prendere atto – è
che l’antica e radicata diffidenza della sinistra per il Risorgimento,
dovuta principalmente alla lettura di Gramsci e del rapporto
con le masse contadine, che dopo Rosario Romeo nessuno
ha più il coraggio di riprendere, è diventata marginale. Cioè patria
e nazione non sono più per nessuno parole squalificate. È
superato quindi tanto il pregiudizio nei confronti del Risorgimento,
quanto il trauma che rispetto a queste nobili parole aveva
provocato il fascismo. Caso mai il problema è che la sinistra
è tanto poco culturalmente viva oggi che non si hanno molte
occasioni per rendersi conto di questo cambiamento. Ma le
poche sedi attraverso cui questo cambiamento è percepibile ne
sono testimonianza. Ho trovato per esempio interessante che un
giornale della CGIL mi abbia intervistato su questo argomento
desideroso di mettere in evidenza questa riconciliazione tra
la sinistra e la patria.
Carlo Lizzani ha polemizzato con l’abuso della parola Paese
per parlare della Patria. Dice che durante la Resistenza
aveva un valore antiretorico che ora andrebbe dismesso. Cosa
ne pensi?
Sono d’accordo, la parola “paese” non mi piace un gran che.
La uso talvolta io stesso come sinonimo, per non essere ripetitivo,
quando scrivo sui giornali. E’ un termine molto geografico.
In taluni contesti può avere anche un valore. “Paese mio
che stai sulla collina”, diceva una canzone molto romantica degli
anni ’60. Dove “paese” è la mia comunità. La geografia lì
diventa habitat. Ma paese si presta allo stesso giudizio sprezzante
cheMassimo Severo Giannini esprimeva sulla parola “livello”.
Quando presero a diffondersi frasi come “a livello di coscienza”
diceva: questa parola da geometri si è diffusa troppo!
In un recente evento dedicato al 150° hai condiviso il palco
con il tuo successore al Viminale, ilministroMaroni. Che
idea ti sei fatto – nella sostanza – della posizione culturale
e politica della Lega attorno a questa vicenda?
All’invito a Maroni a dire “viva l’Italia” in quell’occasione –
era tra l’altro anche il titolo del libro che presentavamo – lui sorridendo
ha detto “viva l’Italia, pausa, federale”. E’ intelligente,
ha consapevolezza del ruolo istituzionale che svolge. Sembrava
esprimere il suo accordo con il sindaco Tosi che è stato
il più visibile nel conciliare la sua diversità leghista con l’appartenenza
alla nazione italiana. Credo che ci sia divisione nella
Lega. Ma per ovvie ragioni. Il Veneto è stato un asse portante
della vicenda risorgimentale. La Repubblica di Venezia del
1848 aveva messo San Marco al centro del tricolore. L’idea di
strapparlo da lì in nome dell’antenato celtico non regge e , a mio
avviso, non reggerà.
I soggetti autorizzati a rifare la storia , diciamo, sono divenuti
meno scientifici di una volta. Il proprietario della discoteca
Hollywood alla periferia di Vicenza, consigliere provinciale
della Liga autonomista, ha dichiarato: “Garibaldi era
un mercenario che non amava i veneti. Questo è un dato storico”
come ha scritto Gian Antonio Stella sul Corriere. Poi
davanti a quella discoteca è stato bruciato il fantoccio di Garibaldi
a cui era appeso il cartello “L’eroe degli immondi”.
Nel Veneto sono state fatte delibere comunali per autorizzare
i commercianti a stare aperti il 17 marzo. Commenti.
Non commento. Perché queste storie esistono. Ma finiranno in
una marginalità senza rilievo. Temo molto di più i casi di quei
sindaci che ad un immigrato regolare che ha perso la casa dicono:
prima vengono gli italiani, anche se sei in graduatoria.
Questi fanno un danno vero, è una xenofobia che fa paura.
E’ bastata la visita di Giorgio Napolitano a Bergamo per fare
emergere un’altra immagine della città…
…vero!…
…senza pifferai vincono i nuovi stereotipi. Che strumenti
ha la cultura italiana per esprimere il meglio dell’Italia?
Beh, ne ha tanti. In realtà la cultura italiana ha se stessa, se si
esercita. Se si esercita sul presente. Se scopre l’Italia. Ha finito
per andare a cercare se stessa solo nel passato. Ed è per questo
che l’occasione del 150° va utilizzata meglio anche perché
rivolta al presente. Se si pensa che il mondo ammira l’Italia per
la sua creatività e la va a cercare solo a Pompei dove magari il
sito cade in pezzi, ci dobbiamo anche dire che non siamo sempre
in grado di far cogliere quella creatività, che non è solo Armani
e Valentino, perché sta continuando in quasi tutto ciò che
si fa nel paese. Questo deve scoprire la cultura.
Il dibattito sulla riforma costituzionale ha segnato alcuni
momenti importanti nelle vicende dell’ultimo trentennio. In
questo ultimo periodo è sembrato più una foglia di fico per
fare sembrare vivo lo spirito di riforma del governo (attorno
ad un art. 41 che non pareva una vera e propria priorità).
Ipotizzando che covi da qualche parte l’innovazione generazionale
nella politica italiana, a quali aspetti della riforma
costituzionale consiglieresti di guardare?
Modificare gli articoli che contengono i principi non serve a
niente. I principi cambiano storicamente all’interno degli articoli
della Costituzione che ne prevedono una iniziale formulazione.
Vale la piena di cambiarli il giorno in cui, essendo diventanti
razzisti, il principio dell’uguaglianza si sostituisce con
il principio della superiorità della razza ariana. Se non si arriva
a questo, c’è una naturale evoluzione degli assi portanti della
società democratica. Quindi i cambiamenti possono riguardare
la parte organizzativa. Alcuni sono utili. Con priorità, direi,
per quel che riguarda il rapporto tra governo e parlamento
in cui, paradossalmente, entrambi si sentono troppo deboli nei
confronti uno dell’altro. E’ chiaro che qualcosa va aggiornato.
E poi non si può fare una “riforma federale” se non si tocca una
delle due Camere.
Il 150° ci induce a guardare alla storia d’Europa. Il Medi-
terraneo era in ombra centocinquanta anni fa. Ora il dito
della storia punta su quell’ombra,mette il Mediterraneo al
centro delle domande, forse anche delle speranze. Ma l’Italia
– il paese di maggiore prossimità rispetto allo tsunami
civile del mondo arabo – è apparsa silenziosa e prudente.
Il premier Giuliano Amato cosa avrebbe detto in questi
giorni?
Avrei detto due cose. Intanto che per quanto riguarda la Libia
– mai dimenticarselo – il nostro costante imbarazzo davanti a
governanti pur improbabili di quel paese è sempre stato la inevitabile
conseguenza della responsabilità di quella orrenda avventura
coloniale nella quale i nostri progenitori erano stati responsabili
di misfatti. Il che porta a sentirsi sempre debitori nei
confronti di chi governa la ex-colonia. Est modus in rebus, naturalmente.
Per quanto riguarda l’insieme della vicenda avrei
messo in moto tutti i canali di collegamento tra coloro che stanno
embrionalmente lavorando a un tessuto di governo nella consapevolezza
che questi sono interlocutori non diversi da quelli
dei nostri vicini del nord.
Nel titolo di un tuo libro recente (2006) hai scelto di aggiungere
un punto di domanda: Un altro mondo è possibile? Nel tuo
sguardo di oggi confermi o modifichi quella punteggiatura?
Confermo quel punto interrogativo. Noi abbiamo risorse economiche
e creatività e anche tecnologie per produrre cambiamenti
enormi. Quello che è successo nel mondo in questi anni
ha reso pessimisti solo gli europei. Se tutti si sviluppano, la
fetta che tocca a me diminuisce. Ma devo essere consapevole
che sono parte di un mondo in cui il futuro è diventato positivo
per milioni di essere umani che prima ne erano esclusi. La
vera ragione del dubbio sul futuro è che la diffusione dello sviluppo
ci ha creato problemi di vario genere che, se non saremo
capaci di risolverli (e risolverli sarebbe possibile) possono
mettere a rischio addirittura la sopravvivenza del pianeta. Per
dirne una – con la quale chiudere – uno studio recente ha messo
a confronto i problemi che il mondo ha davanti con i tempi
di soluzione compatibili con la sopravvivenza del pianeta. La
conclusione dello studio è che negli Stati Uniti solo un regime
dittatoriale potrebbe salvare il mondo. Questo basta e avanza
a spiegare quel mio punto interrogativo.