150 a prova di unità 3 – Colloquio con Antonio Maccanico (Mondoperaio 1/2011)
Mondoperaio n.1/2011
150° a prova di unità/3
Antonio Maccanico:
manca la percezione del destino comune
“Il rammarico maggiore è quello di non aver visto né nel dopoguerra né negli anni ’80 quella alleanza tra democrazia laica e socialisti che sarebbe stata la vera rivoluzione italiana”
a cura di Stefano Rolando
Terzo colloquio, nella serie realizzata da Stefano Rolando, con cui Mondoperaio compie il percorso di avvicinamento alla data formale del centocinquantenario dell’unità d’Italia, nel convincimento che attorno alla parola “unità” si esprima il detto e il non detto, l’accordo e il disaccordo, la progettualità e l’assenza di progettualità non tanto di una celebrazione quanto di una modalità, per l’intera comunità nazionale, di utilizzare il calendario delle ricorrenze per mettere sotto controllo la propria “temperatura identitaria” verificando la percezione della storia comune e il senso stesso della storia rispetto alle poste in gioco per il paese oggi. Una “prova di unità” in cui – si è detto – i presidenti della Repubblica Ciampi e Napolitano hanno impresso stimoli forti, manchevolmente accolti dal ceto politico, con formali adattamenti e sostanziali riluttanze dal quadro di governo, con sommaria attenzione da parte delle autonomie locali. Dopo i testimoni delle tradizioni della sinistra sia comunista (Luciano Barca in Mondoperaio n. 10/2010) che socialista (Giorgio Ruffolo in Mondoperaio n. 11-12/2010), questa è la volta di Antonio Maccanico, esponente della tradizione liberal-democratica.
|
Antonio Maccanico è nato ad Avellino il 4 agosto 1924. Unendo nella sua vita fattori di formazione civile alla preparazione per la carriera nelle istituzioni, è stato, dal dopoguerra quasi alla fine degli anni ’80, il funzionario pubblico che ha percorso fino ai più alti gradi il percorso nelle istituzioni per poi assumere responsabilità politiche in modo più esplicito e quindi di governo, esponente di una tradizione originata da pensatori e politici della radice liberal-democratica e tuttora con orientamento nello schieramento del centro-sinistra.
La madre era sorella di Sinibaldo e Adolfo Tino, ambedue avvocati: il primo, giornalista del Giornale d’Italia, fu autore di una delle prime monografie sul regime fascista e svolse funzioni di pubblico ministero nel processo al governatore della Banca d’Italia svoltosi nel 1944 per l’asportazione dell’oro della riserva aurea da parte della Repubblica sociale italiana; il secondo – con il padre Alfredo Maccanico e con Guido Dorso – fu tra i fondatori del Partito d’Azione e primo presidente di Mediobanca. Si laureò in giurisprudenza nel 1946 presso il Collegio Mussolini dell’Università di Pisa (l’attuale Scuola Superiore Sant’Anna) e nel 1947 si avviò alla carriera di funzionario parlamentare. Nel 1962 è capo dell’ufficio legislativo del ministero del Bilancio per volontà del leader repubblicano Ugo La Malfa, appena insediatosi come ministro. Torna alla Camera dei deputati diventando nel 1964 direttore del Servizio delle Commissioni. Poi vice segretario generale della Camera nel 1972 e segretario generale il 22 aprile 1976.
Nel 1978 il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che da presidente della Camera lo aveva avuto come principale collaboratore, lo chiamò a ricoprire il ruolo di segretario generale del Quirinale, nominandolo anche consigliere di Stato. Mantenne l’incarico di segretario generale della Presidenza della Repubblica anche con Francesco Cossiga, sino al 1987, quando fu nominato presidente di Mediobanca, incarico esercitato fino all’aprile 1988. Poi ministro degli Affari Regionali e dei Problemi Istituzionali nel governo De Mita e nel VI governo Andreotti, fino al 1991. Senatore per il Partito Repubblicano nel 1992–1994 e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio durante il governo Ciampi. Tra i fondatori nel 1995 dell’Unione Democratica. Dopo la caduta del governo Dini, nei primi mesi del ‘96, grazie ad un profilo da tutti riconosciuto di “mediatore”, viene incaricato dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro di formare un nuovo governo che comportava una difficile intesa di fondo tra i due poli. Per superare il nodo delle televisioni Telecom Italia aveva presentato un ambizioso progetto di cablatura delle città italiane finalizzata alla trasmissione appunto via cavo superando così le riserve espresse dalla Corte Costituzionale sulle trasmissioni televisive via etere. Gli opposti schieramenti parlamentari non espressero un punto di accordo e il tentativo di Maccanico fallì determinando lo scioglimento anticipato delle Camere. Alle successive elezioni del 1996 l’Unione Democratica presentò liste comuni con il Partito Popolare e Maccanico venne eletto deputato.
Nel primo governo Prodi è ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni, sempre nella visione di rappresentare una potenzialità di equilibrio nel sistema politico italiano su una delle materie più conflittuali. Il governo riesce infatti a varare la legge n. 249 del 31 luglio 1997, nota come legge Maccanico, che tra l’altro istituiva l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
Il percorso politico dell’ultimo decennio comincia con la partecipazione alla fondazione nel 1999 de I Democratici con Romano Prodi. Nel giugno dello stesso anno sostituisce Giuliano Amato quale Ministro per le Riforme Istituzionali nel governo D’Alema I, mantenendo l’incarico anche nei successivi governi fino al 2001. Dopo la confluenza dei Democratici ne La Margherita è stato eletto deputato nel 2001. Nel corso della legislatura, fu estensore del cosiddetto Lodo Maccanico, norma sulla non procedibilità e la sospensione dei processi in corso per le cinque più alte cariche dello Stato (il Presidente della Repubblica, e i presidenti di Camera, Senato, Corte costituzionale e Consiglio dei ministri). A seguito di un emendamento della maggioranza di centrodestra, primo firmatario Renato Schifani, Maccanico ha disconosciuto il testo della legge. Nel 2006 è eletto per la quarta volta in Parlamento nelle liste della Margherita in Campania. Membro della Commissione permanente Difesa, ha fatto parte del gruppo dell’Ulivo al Senato della Repubblica. Non si è candidato alle elezioni politiche del 2008. Politicamente si riconosciuto nell’ambito dei “Liberali nel PD”. Recentemente ha manifestato segnali di disponibilità nei confronti dell’iniziativa politica di Francesco Rutelli, staccatosi dal PD per una posizione più centrista.
Accanto all’attività politica, Antonio Maccanico svolge molteplici iniziative culturali e civili tra cui quelle di presidente della Fondazione Bellonci, l’istituzione che sovrintende e organizza il Premio Strega; di presidente del Centro di ricerca “Guido Dorso”; di presidente della Associazione CIVITA (beni culturali); di presidente della Associazione Italiana Arbitrato; di presidente del CIRIEC, Centro Italiano di Ricerche e d’Informazione sull’Economia Pubblica, Sociale e Cooperativa; di consigliere di Amministrazione della SVIMEZ. E’ autore di vari libri, fra cui Intervista sulla fine della Prima Repubblica (1994), Sud e Nord: democratici eminenti (2005) ed il recente Costituzioni e riforme (2006).
Si dice che questa celebrazione – o almeno, per ora, questa scadenza – cada in un uno dei momenti in cui il valore delle istituzioni è in un punto tra i più bassi sia tra il ceto politico che nell’opinione pubblica. E’ cosi? Ti senti di fare paragoni con altri momenti di scarsa reputazione delle istituzioni?
Non c’è dubbio che attraversiamo un periodo di crisi molto profonda. Innanzi tutto di crisi istituzionale, perché non si riesce più a portare a termine una riforma degna di questo nome in questo campo. La crisi politica è poi evidente, sia a causa della frammentazione tornata a dominare lo scenario, sia a causa della legge elettorale che, essendo un obbrobrio, non produce certo al meglio ceto politico. Quanto alla crisi economica essa è notizia costante ma lo è perché il tasso di sviluppo del nostro paese è fanalino di coda di tutto il contesto europeo. Come fare paragoni? E’ evidente che il pensiero va alla drammatica condizione della seconda guerra mondiale. Ma è un paragone improprio. Sia per le condizioni strutturali diverse, sia per ciò che di vivo e vitale quel dramma produsse facendoci conseguire nel giro di pochi anni un vero miracolo. La nostra è una crisi in parte generata da condizioni internazionali. Ma in parte è anche una crisi di trasformazione e di percezione della storia da parte del paese oggi.
Parlandone, insomma, come di una crisi identitaria, non è difficile collocarvi anche lo spaesamento rispetto ad una modalità forte di affrontare la ricapitolazione del percorso unitario per obiettivi oggi vissuti dal paese come prioritari: rigenerare sviluppo credendo nella storia evolutiva della nazione. Quali riflessioni?
Questa è la riflessione che mi sento di fare: una “ricapitolazione” della storia è oggi possibile solo in una chiave drammatica, perché la natura dei conflitti che hanno segnato quella storia ha i caratteri della tragedia. Da un lato questo sguardo deve essere tollerabile, vivibile. Ma poi vi è anche l’altro sguardo, quello che parte dal realismo dell’unità raggiunta e delle cose importantissime che essa ha permesso di ottenere. E anche questo sguardo non deve essere superficiale, scontato. Entrambe le visioni si compenetrano. Vedo scarsa capacità attorno di compiere questa piccola ma non evitabile complessità.
Anche se è difficile imputare alla destra o alla sinistra il mediocre coinvolgimento nella vicenda, chi appare più colpevole circa un dibattito poco coinvolgente?
La carenza non è solo del ceto politico. Ma di tutta quella che va sotto il nome di classe dirigente. Il principale contraccolpo sulla cultura interna di quel fenomeno che si chiama “globalizzazione” ha così investito il nostro rapporto con le radici. Alcuni hanno persino creduto alla scorciatoia di reciderle. Siamo di fronte a veri sconvolgimenti, con i flussi migratori di merci, capitali e soprattutto persone. Si modificano profondamente i panorami sociali dei nostri paesi.
Ma tutti i paesi europei hanno avuto globalizzazione e spinta opposta al localismo. In molti di essi la cultura dello “stato-nazione” – pur presa a tenaglia da queste due tendenze - non è crollata. Siamo davvero i meno virtuosi?
Non è questione di virtù, ma del fatto che il processo unitario in Italia non si è realizzato in forma compiuta. La Costituzione, dopo la caduta del fascismo, ha delineato un disegno unitario complesso. In alcune parti esso non si è realizzato, cominciando dal divario nord-sud. L’unificazione economica del paese è fallita non per calamità naturali ma per errori politici molto seri. Ugualmente l’esasperata costruzione del centralismo burocratico del paese – di cui il fascismo porta una grande colpa – è il risultato di scelte, non di fatalità. Le esigenze autonomistiche emerse dopo il fascismo sono state affrontate non sempre in modo adeguato. E lo stesso sistema dei partiti è evoluto con distorsioni scaricate sugli interessi del paese. A cominciare dal fatto che in tutta la cosiddetta “prima Repubblica” non si è creata una vera alternativa al modello di un partito, il maggiore, sempre al governo e l’altro partito, il secondo, sempre all’opposizione. Eccole le differenze, che tuttora pesano rispetto a molti altri contesti europei.
E in questo quadro, si può dire che le regioni – nate per creare mediazione tra Stato e territorio locale – abbiano giocato un ruolo modesto nel riavvicinare gli italiani alle istituzioni?
L’attuazione delle regioni avvenuta in avvio degli anni ’70 ha avuto un vero punto di fallimento rispetto alle speranze del costituente che le aveva immaginate: ha generato uno squilibrio eccessivo tra la spesa territorializzata e la capacità fiscale centralizzata. La riforma più recente del titolo V della costituzione non ha inciso adeguatamente su questo tema né su quello più generale della modernizzazione dello Stato.
Le regioni hanno globalmente fatto massa critica più con gli enti locali o più con lo Stato? Si è creata una classe dirigente con la cultura della mediazione istituzionale che pareva così necessaria?
Come si fa a dire che sia nata una vera e propria classe dirigente, guardando alla condizione di molte regioni italiane soprattutto nel Mezzogiorno? In più le regioni hanno rappresentato anche il soggetto che si è fatto più carico delle resistenze allo sviluppo del maggioritario, riducendone quindi i benefici. Per avere stabilità la governance regionale è stata costruita alla fine in modo presidenzialistico, depotenziando completamente il ruolo dei legislativi. Ma non combattendo davvero la frammentazione che si è espressa in tutte le forme consentite da statuti che avevano sempre una scappatoia.
Dove vedi e dove non vedi più - come si diceva una volta, con un’espressione che faceva pedagogia civile – “senso dello Stato”?
E’ difficile ritrovare con il lanternino quella che dovrebbe essere una dominante culturale del paese. La frammentazione ha fatto affievolire il senso del destino comune.
Galli della Loggia scrisse – facendo reagire il presidente Ciampi di cui sei stato il più stretto collaboratore – che l’8 settembre del 1943 era morta la patria. La reazione del presidente della Repubblica era d’ufficio oppure vi erano argomenti per sostenere che la “patria” era, anzi è, ancora concetto vivo negli italiani?
La reazione di Ciampi fu dettata da un sentimento vero, non da obblighi di ufficio. Aveva personalmente vissuto il dramma dell’ 8 settembre. Ma aveva anche colto che in quella stessa fase storica nasceva un’altra patria, con una idea più vicina a quella del Risorgimento. Non dimentichiamo che nel Risorgimento il successo dell’impresa unitaria fu reso possibile dalla connessione di due aspirazioni: l’aspirazione alla libertà e l’aspirazione all’unità. Come è ben scritto a imperitura memoria nel monumento del Vittoriano: Patriae unitate, civium libertate. Questa endiadi si era rotta con il fascismo, per la perdita fondamentale della libertà. Ciampi voleva dire che l’8 settembre fu una tragedia ma anche l’occasione per recuperare la visione connessa della libertà dei cittadini e dell’unità della patria.
Credi che lo sfarinamento delle forze politiche che avevano il loro impianto culturale e teorico nella storia del novecento (comunisti, socialisti, democristiani, liberali, repubblicani, fascisti) abbia contribuito allo sfarinamento del valore delle istituzioni da loro create oppure la crisi del vecchio Stato può essere affrontata seriamente da forze politiche “nuove” che non trovano necessariamente radice in quella storia?
Alla caduta del fascismo, la costruzione della cosiddetta “Repubblica dei partiti”, come la definì Pietro Scoppola, era inevitabile. Quando ero giovane funzionario in Parlamento – presi servizio alla Camera proprio quando De Gasperi escluse dal governo comunisti e socialisti – mi accorsi che il pur alto scontro politico tra la DC e le sinistre, quando si parlava di Costituzione abbassava i toni e ritrovava una ragione costruttiva che pervadeva l’assemblea. Vedevo ciò con stupore ma anche con ammirazione. Questo sentimento si è perso in Italia parallelamente al deteriorarsi culturale dei partiti politici. Un ciclo, in questo senso, si è compiuto.
Consideri, dunque, persa la cultura della riforma dello Stato?
Penso che l’occasione maggiore si sia persa con il fallimento di quella strategia condotta da personalità come Moro, La Malfa e Berlinguer di riconsiderare i rapporti dei partiti a beneficio dell’interesse nazionale. Il sacrificio di Moro pur portando alla fine alla sconfitta del terrorismo ha anche messo fine ad una strategia di rigenerazione del rapporto tra partiti e Stato. Cioè ad un avanzamento della nostra democrazia.
Il caso Moro è storia di un anno particolare, il 1978. Anno in cui al Quirinale – forse proprio in sostituzione del candidato naturale che pareva proprio Moro – salì il socialista Pertini. Di cui tu eri il vicinissimo segretario generale. Ebbene Pertini lanciò da presidente della Repubblica inequivoci segnali di discontinuità per consentire il rinnovamento della democrazia italiana…
…si, ma vedi, anche Pertini stava dentro quella visione strategica, cosciente che non fosse ancora maturata pienamente la possibilità di integrare i comunisti nell’assetto di governo ma immaginando che fosse possibile un consolidamento dell’area laico-socialista (dunque PSI, PRI e PLI) per contenere la DC e creare nuovi equilibri che avrebbero fatto poi maturare altre possibilità. Coglieva i problemi di nuovi equilibri politici e puntò nella prima fase a rafforzare una componente che avrebbe potuto, con minori resistenze, generare alternative alla guida del governo. Questo disegno fu reso difficile dalla posizione di Craxi – che pure beneficiò molto della svolta – il quale però, alla lunga, antepose troppo l’interesse del partito che rappresentava, il partito socialista, rispetto ad una visione più generale dell’evoluzione politica del paese e rispetto al ruolo della democrazia laica. Craxi però non ottenne risultato di consensi per il suo partito pur dopo quattro anni di grande protagonismo.
Certo che quella stagione fece aumentare i conflitti sia con la DC che con il PCI, non solo per le impuntature di Craxi ma anche per le resistenze più di fondo al cambiamento provocate da chi vagheggiava un assetto bipolare…
Si, aumentarono i conflitti, ma un risultato ci sarebbe stato puntando a premiare di più non un solo partito ma una coalizione di alternativa alla guida democristiana del governo.
Trovi ancora forze politiche importanti che siano davvero impegnate – con progetti credibili – nella “riforma dello Stato”?
Credo che ci sia nel paese la coscienza di un ammodernamento indispensabile solo grazie ad uno sforzo di lunga durata, non con formule tattiche e con effetti annuncio. Uno sforzo accompagnato dalla capacità profonda di ottenere consenso democratico. Vedo due forti difficoltà. Una è rappresentata dagli opposti estremismi che crescono grazie alle condizioni di crisi, perché sfruttano in modo fazioso sentimenti di disagio nel popolo (questo è per l’appunto il populismo). Un’altra difficoltà appartiene invece a chi, pur con diversi punti di vista particolari, ha sincera cultura riformista. Essa sta nel non riuscire a mettersi insieme e ad avere un vero federatore.
Proviamo a prendere sul serio alcune critiche all’impostazione puramente “celebrativa” del centocinquantenario. Dice il presidente del Piemonte, il leghista Roberto Cota, che ha una certa coscienza del ruolo del Piemonte in quella storia: va bene, facciamo la celebrazione, ma non buttiamo via i soldi e non facciamo retorica. Qualche consiglio da dargli?
In fatto di evitare la retorica sono d’accordo. E’ fondamentale. Ma va di pari passo con l’evitare revisionismi improvvisati che rischiano di disperdere il patrimonio e il messaggio civile che ne deriva. Non abbiamo bisogno di fuochi d’artificio di nessun genere. Serve una riflessione seria su quello che storicamente è avvenuto per trarre da vicende drammatiche ma anche gloriose spinte per andare avanti.
E passiamo al mondo cattolico. Anzi, a quella parte del mondo cattolico che dice: va bene ricordiamoci pure del 17 marzo 1861, ma cogliamo l’occasione – come paese – per fare le scuse a Pio IX. Per sapendo che molti cattolici hanno invece dichiarato di ritrovarsi ben integrati con il processo storico unitario del paese. Cosa replichi a chi ritiene le ferite non emarginate?
Le scuse a Pio IX sono una scempiaggine. Il vero approdo dell’unità d’Italia sta nell’avere contribuito al risanamento morale del paese. In questo il contributo dato dai cattolici democratici – con Sturzo, De Gasperi, Moro – è enorme. Con essi si è allargata la visione dell’autonomia della politica, della neutralità dello Stato, del respingimento della tesi della religione di Stato. Questa posizione si è sposata con una posizione, anche diversa, del mondo laico, che ha invece riconosciuto il ruolo della Chiesa e della religione cattolica nell’arena pubblica. A differenza della Francia in cui si considera la religione come un fatto solo privato. Sia l’art. 7 della Costituzione, sia il rinnovamento del Concordato sottoscritto nel 1984 hanno costruito le basi della democrazia in forma condivisa tra laici e cattolici. Decisivo in questo quadro il contributo storico dei cattolici liberali, come Antonio Rosmini, come Alessandro Manzoni, come Cesare Balbo. Non dimentichiamo che durante l’egemonia democristiana abbiamo potuto avere una legge di riforma del diritto di famiglia, una legge sul divorzio e una legge sull’aborto.
E infine i meridionali offesi, tra i neoborbonici che dicono che si è stravolta la storia di una dignitosa autonomia del sud e chi comunque parla di colonizzazione. Che sentimenti provoca in te meridionale la cancellazione di vie e piazze a Garibaldi ribattezzato come un dittatore mercenario?
Follie di dementi e di analfabeti. Inutile considerarle come cose serie.
Demente anche chi dice che la piemontesizzazione del Mezzogiorno ha acuito la crisi di una classe dirigente, ha generato brigantaggio (a difesa di una “propria” idea della giustizia)…
Folle resta dire che durante l’età borbonica il Sud attraversava l’età dell’oro. L’arretratezza economica, politica e amministrativa era paurosa. Che comunque le condizioni di quel Sud siano molto cambiate questo è un risultato dell’unità. Che non vi sia stata nel tempo l’unificazione completa del paese è un limite del percorso unitario.
Fosse vivo oggi Ugo La Malfa, con il suo austero pessimismo, come imposterebbe una riflessione sul rapporto tra patria, interessi nazionali e ricorrenza della formazione dello Stato unitario?
La Malfa rimarrebbe fedele alle sue impostazioni che si compendiano in tre parole: Europa, Costituzione, Mezzogiorno.
E fosse ora presidente della Repubblica Sandro Pertini, più emotivo e più legato alla storia sociale del ‘900, su quali valori richiamerebbe l’attenzione degli italiani in vista del 17 marzo 2011?
Pertini aveva un senso religioso dell’unità della patria. Era stato un combattente nella prima guerra mondiale. Aveva una visione patriottica di fronte al fenomeno del terrorismo. Celebrerebbe l’unità d’Italia come un valore che ha portato l’Italia ad un innalzamento civile altrimenti non conseguibile.
Alla luce delle involuzioni recenti del paese, che non possono deresponsabilizzare pienamente la classe dirigente della cosiddetta “prima Repubblica”, quali sono i punti di critica storica più ravvisabili?
Ho detto nei giorni scorsi, intervenendo come presidente del Centro “Guido Dorso” proprio in materia di centocinquantenario, che è ingiusto il giudizio di chi dice che l’Italia sia stata solo sotto-governata con clientelismo e corruzione. L’Italia repubblicana è passata in pochi anni da paese prevalentemente agricolo e arretrato ad una della maggiori potenze industriali d’Europa. Ha fato scelte di politica internazionale importanti, aderendo alla NATO e contribuendo fortemente alla fondazione dell’Unione Europea; ha liberalizzato il commercio estero; ha creato un sistema economico misto; ha riformato il diritto di famiglia: ha creato un sistema di welfare che per anni ha migliorato le condizioni dei lavoratori. Dopo di che non ha risolto la questione meridionale, non ha sostituito l’accentramento dell’età monarchica, ha visto degradare il sistema dei valori che presiedevano alla sua organizzazione politica.
Perché, nel giudizio di “uno di famiglia”, il Partito d’Azione è svanito una volta confrontatosi con le urne?
Intanto bisogna dire che il Partito d’Azione ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione della Repubblica. Non è stato un “partito inutile”. Poi è caduto di fronte alla mancanza di una strategia unitaria, che ho già ricordato, tra la democrazia liberale e i socialisti. Posso riportare un episodio. Dopo la creazione del CLN La Malfa propose a Nenni un “patto di consultazione”. Nenni rispose no. E io ravvedo in quel no uno dei fattori di crisi dell’azionismo, condannato alla logica della frammentazione. La solidarietà tra il liberalismo democratico e il socialismo erano la chiave di volta della rivoluzione italiana. Ma, come scrisse Mario Paggi, non si trovò sintesi tra due eresie.
Che opinione hai sul ruolo che i socialisti hanno avuto nella creazione delle condizioni sociali, politiche e istituzionali per la formazione dell’Italia contemporanea?
Ho detto il mio punto di vista sulle condizioni di ritardo – rispetto all’autonomia dai comunisti – del PSI di Nenni e sulle condizioni troppo solitarie – rispetto ad una coalizione laico-democratica – del PSI di Craxi. Naturalmente parlando dei socialisti parlo di miei amici carissimi. E dello stesso Craxi parlo con simpatia, tanto che posso dire di avere esercitato un certo ruolo agevolante per Craxi negli anni della presidenza Pertini. I socialisti hanno dato grandi contributi alla democrazia italiana. Penso però che al PSI sia mancata una visione più serena di quello che era l’insediamento sociale dei comunisti in Italia. Cosa che avrebbe comportato rettifiche alla guerra, anche generosa, condotta su due fronti insieme, il fronte della DC e il fronte del PCI, guerra che non ha salvato il ruolo dei socialisti.
Tu – maestro politico della mediazione – pensi che la DC e il PCI avrebbero concesso questo genere di ruolo ad un PSI che aveva comunque dimostrato di avere argomenti e classe dirigente per guidare il paese?
Il PSI, proprio per questo, aveva bisogno di un asse solido nel campo della democrazia laica. Di fronte all’evidenza di un’alleanza tra più anime storiche del cuore democratico del paese, si sarebbero stemperate molte conflittualità. Si sarebbe contenuto il margine di manovra della DC. Si sarebbero messi i comunisti non di fronte al “duello ideologico”
Ritieni chiusa in Italia la questione fascismo-antifascismo?
Direi di sì. Quello che non è chiuso è l’attacco di una certa destra all’assetto costituzionale del paese. E’ una materia tuttora pericolosa. La scelta da parte della Costituente di un assetto non plebiscitario, con posizioni di garanzia (il presidente della Repubblica, la Corte Costituzionale), penso sia fondamentale e penso che debba restare. Mentre penso che possa cambiare la parte organizzativa dell’amministrazione. Sui principi fondamentali – quelli che Piero Calamandrei chiamava “la rivoluzione promessa a compenso della rivoluzione mancata” – non bisogna derogare. Pena l’apertura “costituzionale” al populismo.
Vedi tracce di peggioramento del clima sociale che possa fare riaccendere lo spazio di drammatiche entropie che l’Italia ha conosciuto più di altri paesi con il terrorismo?
E’ vero che ci sono problemi seri che minano lo sviluppo e l’occupazione. Se non si interviene in forma visibile per la società, dunque non solo con il risanamento, ma con riforme capaci di dare spinte alla crescita, si correranno rischi. Spero non rischi che comportino violenza. Ma è urgente mettere mano a provvedimenti risolutivi. La dialettica che si va manifestando nella maggioranza può anche generare una via d’uscita rispetto all’immobilismo. E l’opposizione può trovare la strada di un ruolo meno sterile. Bisogna credere oggi a chi sa proporre una credibile via di uscita pluriennale.
E se l’Italia – facendosi un regalo per i suoi 150 anni di stato unitario – si disponesse ad una vistosa svolta generazionale all’inglese…
…dall’alto dei miei 86 anni ne sarei felice.